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Posts Tagged ‘Stefano Merli’

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Sono infinitamente grato a Giovanni Scirocco, di cui conosco l’indipendenza di pensiero, che ha voluto segnalare il mio ultimo lavoro; sono poi particolarmente lieto che le sue parole siano uscite sulla nuova «Rivista Storica del Socialismo», che, diretta per anni da due autentici maestri, quali Luigi Cortesi e Stefano Merli, è rinata sotto la direzione di Paolo Bagnoli, nella convinzione che, per dirla con Francesco Pastorino, «il socialismo non può essere relegato nei labirinti delle accademie o espulso dalla vita di tutti i giorni». Credo anch’io che le ricerche storiche debbano «riconoscere dignità culturale alla speranza egalitaria», perché oggi più che mai, mentre «l’esercito della precarietà continua a domandare giustizia sociale e concrete forme di libertà […] la stagione del socialismo, nella sua ampia accezione, non può tramontare».

Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Edizioni
Intra Moenia, Napoli, 2017, pp. 343, € 18,00.

Giuseppe Aragno continua, con questo bel volume, la linea di ricerca (e la metodologia) iniziata nel 2009 con Antifascismo popolare. I volti e le storie (Manifestolibri) e proseguita nel 2012 con Antifascismo e potere. Storia di Storie (Bastogi).
Assistiamo quindi a una galleria di personaggi, spesso poco o punto conosciuti, alle vicende (ricostruite meticolosamente attraverso l’appassionato studio della memorialistica o di archivi finora poco conosciuti come il Ricompart – Ufficio riconoscimento qualifiche e ricompense ai partigiani) di uomini e donne (62 riconosciute come partigiane, 23 delle quali cadute o ferite) comunisti socialisti anarchici liberali e anche senza partito, che parteciparono alle Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943). L’assunto di partenza è che «nessuna vittoriosa rivolta popolare è stata spoliticizzata, decontestualizzata e persino negata come le Quattro giornate di Napoli» (p. 5). Ne consegue una insistita (e spesso giustificata) polemica verso lo stereotipo storiografico che ha visto questo episodio come un caso di rivolta popolare (se non plebea) e, in fondo, apolitica, immortalata dalle foto attribuite (forse falsamente) a Robert Capa e dal celebre film di Nanni Loy. Viceversa, «gli elenchi dei combattenti non rimandano solo a storie di militanza, ma rivelano la presenza sul campo di due generazioni di antifascisti, figli di culture politiche spesso in contrasto tra loro e tuttavia temporaneamente uniti nella lotta al fascismo» (p. 17), interi gruppi familiari come i Blasio, i De Bernardo, i Malagoli, i Pansini, i Paternoster, i Putignano, i Wanderlingh.
In altre parole, «anche a Napoli, come in tutto il Paese, si lotta per la vita e gli affetti minacciati, ma c’è anche chi combatte una “guerra patriottica” per la libertà e chi dà allo scontro il valore di una guerra di classe contro un regime nato per chiudere i conti con i lavoratori» (p. 23). Una storia che l’autore ripercorre anche nel dopoguerra, attraverso una nuova “guerra”, quella della memoria e dei contrasti tra le varie associazioni dei combattenti, ulteriore, anche se per certi versi paradossale, testimonianza che l’antifascismo dei protagonisti e la loro coscienza politica «non si conciliano con la narrazione più o meno ufficiale fondata sui “lazzari” che per caso si sono trovati dalla parte giusta» (pp. 184-185).
Siamo dunque di fronte a una meritoria opera di scavo e di restituzione alla memoria (e alla storia) di vite spesso dimenticate o addirittura sconosciute: in questo senso è utile anche l’appendice (pp. 285-327) con le note biografiche sugli antifascisti e i combattenti citati nel testo.
Giovanni Scirocco

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Nella nostra storia esistono anche le foibe. Sono un episodio tragico che ha radici lontane: affondano nella cosiddetta “grande guerra“, una tragedia dalle dimensioni ben più feroci nella quale su seicentomila uomini persi, centomila furono uccisi dagli stenti e dalla fame, volontariamente abbandonati al loro destino dal governo italiano mentre erano prigionieri della Germania e dell’Austria che non avevano come alimentarli. Perché? Solo perché la resa fu considerata diserzione. Non dico sciocchezze. Giovanna Procacci lo ha dimostrato documenti alla mano ed è sorprendente che il Parlamento non abbia pensato di ricordarli in un giorno della memoria, così come non ne ha mai dedicato uno alle migliaia di prigionieri dei tedeschi lasciati a morire di fame e di freddo perché rifiutarono di aderire alla Repubblica Sociale.
Radici lontane, quindi, che risalgono alla rottura del fronte interventista, quando i fascisti appiopparono a Bissolati il titolo di “croato onorario” e Salvemini divenne Slavemini. Ciò che il fascismo fece agli slavi, gareggiando in ferocia coi nazisti è cosa su cui non intendo fermarmi: fu una barbarie. Si dirà: ma la violenza fascista non giustifica la reazione. Certo. Però la spiega e questo è il compito della storia. Quello che non si spiega, invece, è l’insistenza crescente, la strumentale speculazione politica che attraversa la memoria storica delle foibe per rovesciarne il senso, mettere sotto processo la sinistra e far passare Diliberto e compagni per i protagonisti di una “congiura del silenzio” in un paese in cui altri e ben più gravi silenzi pesano sulla coscienza collettiva.
Ho sentito più volte Storace e compagni chiedere alla sinistra di dire fino in fondo la verità sulla storia del nostro paese e mi domando se tra le verità da raccontare siano incluse le bombe di Piazza Fontana, quelle di Brescia e Bologna e quelle esplose nei treni e nelle piazze funestate dai neofascisti.
Verità e silenzio, mi pare, sono i temi d’obbligo quando si parla di foibe e non si capisce chi avrebbe taciuto. C’è una tradizione fortemente critica del comunismo di parte della sinistra che va da Malatesta e Salvemini e giunge ai nostri tempi con Scotti. Sono cose note che si finge d’ignorare. Tanti, da Giuliano Ferrara a Galli Della Loggia, strepitano e strillano per questo presunto silenzio e tutti fingono di non sapere che per anni la grande stampa, tutta borghese e figlia del capitale, non dava spazio a chi aveva in tasca tessere rosse; tutti fanno finta di non ricordare che solo di rado chi era di sinistra vinceva un concorso per entrare a scuola, negli archivi e nelle biblioteche. Chi avrebbe taciuto, quindi, se l’editoria era in mano a borghesi, se Laterza era dominio di Croce e la Feltrinelli non era nata ancora? Einaudi da solo fu tutto il silenzio d’Italia?
Stettero zitti i politici. Ma quali? Quelli dell’area “atlantica” hanno di certo taciuto, perché Tito aveva rotto con Stalin ed era guardato con occhio benevolo. Per la sinistra socialcomunista, ministro degli esteri, nel Governi Parri e poi in quello De Gasperi, fu Pietro Nenni, ex interventista che sentì fortemente il problema dei confini orientali e si batté con tutte le sue forze per scongiurare il pericolo che si imponessero al paese le scelte fatte a Malta nel febbraio del ’45 da Roosevelt e Churchill, poi formalizzate in una proposta francese per la creazione di un territorio libero di Trieste. Nenni peregrinò per le cancellerie europee – Oslo, Amsterdam, Londra, Parigi – ma ottenne solo impegni generici. Sull’Avanti! fu lucidissimo, difese l’autonomia nazionale, chiese trattative dirette con la Jugoslavia ed ebbe chiaro che dalla soluzione della questione non dipendevano solo i futuri rapporti con Tito, ma anche la possibilità di una convivenza pacifica tra due paesi di opposto regime politico e l’autonomia da Mosca e dagli Occidentali. Quando si rese conto che il confine non sarebbe mai passato per la linea etnica, chiese che il territorio libero di Trieste comprendesse almeno Parenzo e Pola e che le questioni più delicate fossero risolte da referendum. Fu Nenni, ancora lui, per la sinistra, a chiedere a De Gasperi, dopo la firma della pace, nel febbraio del ’47, di attendere che anche l’Urss approvasse il trattato prima di chiederne la ratifica in Parlamento. Margini di mediazione però non ce ne’erano. L’Italia era un Paese vinto e la situazione internazionale non ammetteva scelte. Anche a Tito, che troppo tardi, diffidando dell’Urss, chiese trattative bilaterali, fu del resto immediatamente opposto un rifiuto. Il piano Marshall, la crisi di governo voluta da De Gasperi e la guerra fredda chiusero la partita.
Verità e silenzio. Ma chi avrebbe taciuto? Rimangono indiziati gli storici della sinistra ai quali si può muovere mille critiche, ma per i quali valgono anche mille considerazioni. Cortesi, Arfè, che non furono certo teneri con Togliatti, per non dire di Merli e Bosio, avevano davanti una catastrofe immane come la seconda guerra mondiale con i suoi cinquanta milioni di morti. Era per loro impensabile cominciare a scrivere di storia partendo da una graduatoria degli orrori, perché l’orrore era stato la caratteristica della guerra e di ciò che l’aveva generata: Coventry, Dresda, le città fucilate, le fosse di Katin, i gulag, la Shoa, le foibe, Hiroshima, Nagasaki. Nessuno pensò a fare l’elenco. A tutti sembrò più importante e serio ricostruire la storia stravolta dalla lettura fascista. E non a caso si partì da maestri che non provenivano dall’accademia: Croce, Gramsci, Salvemini. Occorreva capire come era stato possibile precipitare tanto in basso. Per gli orrori c’era la nausea e bastava. Contava soprattutto conoscere l’Italia dei partiti, del movimento operaio, dell’antifascismo e della Resistenza. Contava capire come era stato possibile precipitare nell’abisso.
Nessun silenzio voluto.
Poi certo, è cominciato un processo nuovo. La storiografia non si ferma, la revisione è naturale e c’è sempre chi torna a fare ricerca su Cesare e sulla repubblica romana. Ma il bisogno di approfondire, articolare le conoscenze, il bisogno di una revisione del giudizio storico, incontrandosi con la crisi politica e l’avvento di Berlusconi è diventato fatalmente propaganda politica. C’erano mille verità non dette cui sarebbe stato giusto dare rilievo: i gas sugli etiopi i massacri libici, l’ignominia jugoslava e infine le foibe, delle quali in fondo non si interessa nessuno. Quello che serve è presentare il conto a croati e sloveni, senza tener conto di quello ben più salato che essi potrebbero presentare a noi. Quello che serve è riesumare un anticomunismo postumo, anacronistico e grottesco, ricordando lo slogan di Goebbles: raccontare molte volte una menzogna è come dire una verità.
La domanda a cui occorre dare veramente risposta è una: come si è potuto giungere a questa così penosa strumentalizzazione politica di una dolorosa vicenda storica? Gianpasquale Santomassimo l’ha scritto e si può essere completamente d’accordo. Per un secolo la politica ha cercato legittimazione nella storia, vantando radici nel passato. Mussolini le cercò nel mito della romanità, la sinistra nelle lotte del movimento operaio e nell’antifascismo. Poi sono venuti l’89 col crollo del socialismo reale e il ’92 con Tangentopoli; il passato è diventato d’un tratto ingombrante e il processo s’è capovolto. Nessuno cerca più legittimità nella storia perché essa è vergogna, lutto, dolore, violenza e c’è bisogno del “nuovo” che processa la storia e la separa dalla politica. I fascisti non sono più mussoliniani, il Pci si è autosciolto e i cattolici non sono più democristiani. Siamo al punto che un partito, per non essere invischiato nel passato, prende nome e cognome dal suo leader o cerca battesimo al mercato dei fiori, sicché si sprecano rose nel pugno, garofani e margherite. Siamo giunti alla “Cosa ed al partito dei “senza storia” e, su tutto, si leva la comoda categoria del totalitarismo che esalta le comparazioni e cancella le differenze secondo le leggi del pensiero unico. Orwell aveva ragione: chi controlla il passato governa il futuro e chi controlla il presente gestisce il passato. Quello che conta è avere in mano il giorno che ora vivi. Sia pure. Questo però non è fare storia.

Uscito su “Fuoriregistro” il 10 febbraio 2007

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