Morto di freddo, stanco, i nervi a fior di pelle e la consapevolezza che, comunque vada, è sempre più difficile, per uno come me, stare tra i ragazzi senza correre il rischio di sembrare l’eterno “cattivo maestro“. In questo stato prendo la penna e scrivo. Faccio finta che ci sia chi me lo chieda, ma lo so: ho bisogno di domandare a me stesso che penso davvero, al di là di quello che dico nelle assemblee. Non mi sottraggo, come mi consiglia l’istinto. Non mi sottraggo e, tuttavia, per precauzione scrivo a me stesso e non provo a parlare. Senza fermarmi, come si fa quando in mano c’è la penna, mi riuscirebbe molto più difficile dire fino in fondo la mia incerta e problematica opinione.
Lascio da parte i pacifisti convinti e militanti. Ne ho un profondo rispetto. La dico come può vederla uno come me, che non ama il conflitto, ma lo ritiene parte integrante della vicenda umana e fatalmente ragiona senza scartare a priori le categorie della guerra “che è nelle cose“. Pace e guerra sono in contrasto tra loro, ma sono interdipendenti. Così voleva il filosofo antico. Metto nel conto il dissenso e la delusione. Mi capita spesso. Sono all’opposizione di me stesso, per ragioni di formazione e perché dalle presunte certezze nasce la maggior parte degli errori. Peggio sarebbe, molto più che deludente, una comoda menzogna. Di tutte, la peggiore, la più inaccettabile, sarebbe la versione annacquata d’un pensiero che nasce dal profondo e matura nel fuoco d’uno scontro. Non sono sereno. Ecco la prima verità che sento il bisogno di dire a me stesso. Non lo sono, non so esserlo. Tutta la serenità di cui sono capace si esaurisce nella discussione coi giovani, quando il senso della responsabilità prevale su tutto, anche sulla complessità d’una passione civile profonda e d’una concezione della vita che non può più registrare cambiamenti sostanziali, ma è ancora fortemente decisa a capire, ascoltare, soprattutto imparare.
La premessa è lunghissima, forse incomprensibile, certamente incompleta e incapace di spiegare la tempesta che mi porto dentro. Provo a partire da una convinzione che io e le mie contraddizioni possiamo condividere senza problemi di coscienza. Ci sono mostri costruiti ad arte da chi dall’esistenza dei mostri ricava cospicui vantaggi. Il fantomatico e ferocissimo Bin Laden, ad esempio, un mostro così consapevole della mostruosità di cui si fa portabandiera, da saper scegliere ripetutamente quando sparire con tempismo mirabile e quando resuscitare con precisione cronometrica: infallibile, ora, minuto e secondo. Abbiamo una vergogna da far passare come fatale necessità della storia? Bene. Un proclama di Bin Laden che chiama alla guerra santa ci toglie prontamente d’impaccio. I black blok sono i Bin Laden dello scontro sociale. Che il 14 potessero comparire a Roma – autentici o imitazioni grossolane, conta poco – era certo, com’è certo che domani, per arrestare un disgraziato maomettano da offrire in pasto alla folla fanatizzata e scatenare una convenientissima guerra tra i poveri, Bin Laden tornerà a lanciare un proclama. Questa è la rappresentazione mediatica. E questa diventa anche la verità in una società che mediatica e virtuale è ormai per costituzione.
Ch’è accaduto a Roma il 14 dicembre? Ti sbagli se dici che in Parlamento anche un cieco avrebbe visto che la classe dirigente non è all’altezza della drammatica situazione in cui versa il Paese? Puoi quantomeno sostenerlo con ragionevole probabilità di non dire sciocchezze: il cieco l’avrebbe visto, noi no. Noi non abbiamo visto, forse non vogliamo vederlo, ci fa male, è troppo desolante, che l’opposizione al berlusconismo è più berlusconiana di Berlusconi. Un idiota, un analfabeta della politica si sarebbe reso conto che c’è un’isola cieca e sorda in un mare in tempesta che la circonda; un’isola che non ha alcun collegamento con la terraferma e nella quale si “gioca alla democrazia“, ma si esercita di fatto un potere fuori controllo; un potere che cancella anche i diritti più elementari, in nome del mercato e del profitto. L’avrebbe visto un analfabeta della politica, noi no, noi vediamo un’isola diversa, ricca di collegamenti. Crediamo, o fingiamo di credere, che esista un dialogo tra chi affonda nella tempesta, senza speranza di toccare la terraferma, e l’isola che possiede una flotta in grado di soccorrere i naufraghi, ma le ordina di puntare le armi, stare a guardia del porto, a tutela dell’isola, e sparare a zero su chiunque s’avvicini. Anche la morte può servire alla vita e perciò, i naufraghi vadano a picco.
Roma il 14 era piena zeppa di “bamboccioni“. Così li abbiamo chiamati in maniera oltraggiosa. Da loro vorremmo senso di responsabilità, proteste pacifiche, discorsi politici, rispetto per le Istituzioni. Nel 1992, quando l’Europa delle banche prese il sopravvento su quella dei popoli, non erano nati ancora o erano bambini. Noi cominciammo a decidere che occorreva cambiare il calcolo delle pensioni e, senza domandargli come avrebbero fatto da vecchi, decidemmo di farle valere la metà delle nostre. Si sentì qualche voce di dissenso ci fu qualche battaglia – mi ricordo la mia onorata “carriera” di sindacalista finita nel fango – ma ci si disse che occorreva “realismo“. E in nome del realismo si cominciò a discutere senso e valore del lavoro a tempo indeterminato. Chi lo difese divenne subito un “conservatore“. Si misero al lavoro intelligenze sottili e cominciò la serie delle novità: co.co.co, lavoro interinale, lavoro in prestito e decidemmo insieme, senza informare i figli e i nipoti, che era ora di “piantarla coi privilegi“. Basta certezze, la concorrenza è l’anima del commercio e si fece commercio della vita. Poco ancora, poi decidemmo di spostare in avanti l’età pensionabile e cancellammo il conflitto dall’idea di sindacato. C’era lo sciopero, ma convenimmo che l’orario di un treno contava più d’un diritto violato. I treni continuarono a fare ritardo, a meno che non fossero quelli supercostosi che chi lavora non può permettersi e, tuttavia, lo sciopero s’era regolamentato. Non ci sembrò necessario chiedere un parere ai nostri ragazzi appena adolescenti. Diavolo, ne sapevamo molto più di loro, e li disarmammo, sostenendo che avremmo inventato nuove forme di lotta. Qui qualcosa si mosse e un manipolo di sindacalisti stanchi mollò la poltrona e tornò a lavorare, ma questo fu il massimo che sapemmo fare. Ci furono guerre, le chiamammo pace e le combattemmo. In verità, noi no. Noi eravamo vecchi. Andarono a morire i primi figli della nostra “rivoluzione liberale” e però fummo eroici: li decorammo. E ci giocammo la Costituzione. Se ripercorro la storia delle mie sconfitte, credo che corrisponda perfettamente al percorso che ci conduce a Roma, al 14 dicembre del 2010. Cominciò con un milione di persone condotte in piazza nella capitale contro Dini, ministro di Berlusconi passato poi con la sinistra, e ci ha portati ai centomila “black blok” che l’altro ieri hanno dato di piglio alla violenza. L’Isola dei famosi; o, se volete, Montecitorio, andava in scena in contemporanea. I docenti di ogni ordine e grado erano a casa, a casa erano i genitori e c’erano i terremotati dell’Aquila, perché feriti a morte, manipoli d’operai e qualche illuso che s’affida alle regole del gioco che non ci sono più e prende fischi per fiaschi, accusando i figli delle colpe dei padri.
La più terribile che ho ascoltato non è la faccenda dei provocatori e della violenza. Lo dico da docente. La più tremenda versione dei fatti che s’è provato a far passare è questa, onestamente incomprensibile e terribilmente fuorviante: senza il “manipolo” dei violenti brutti e cattivi, i nostri bravi giovani avrebbero salvato l’onore della scuola e dell’università. Lasciamolo perdere l’onore. Lasciamolo perdere ch’è meglio. Ognuno la legga come meglio gli pare, questa esplosione di rabbia, ma questo non è il ’68 – non si tratta di regole e nessuno si propone come classe dirigente “nel sistema“. La barzelletta dei black blok non fa ridere nessuno e quella dell’onore salvato è strumentale e autoassolutoria. Lasciamolo perdere l’onore e stiamo attenti. C’è un rischio grave. Criticando da vecchi saccenti le pratiche di lotte e chiamandosi fuori, si rischia di trasformare una battaglia contro i guasti del liberismo in un tremendo e inaccettabile scontro generazionale, col rischio fatale di un pericoloso isolamento dei nostri ragazzi. E sarebbe una catastrofe, perché in discussione ci siamo invece tutti: i cinquantenni precarizzati, gli immigrati deportati, i vecchi operai ridotti alla fame, le donne in mille modi violate e i ragazzi ricondotti a una condizione da prima rivoluzione industriale. S’è rotto un equilibrio. I giovani lottano per un futuro che abbiamo contribuito a cancellare. Delle pratiche di lotta in una realtà fortemente conflittuale, in una crisi economica e sociale che è crisi di sistema, si può discutere solo in un modo: lottando assieme, ritrovando il legame tra generazioni e lotte. Qui nascono, a un tempo, la legittimità di chi intende criticare e la possibilità di scambio tra visioni del mondo, esperienze e bisogni.
Il resto sono chiacchiere. Non tutte in buona fede.
Ecco. Ho scritto a me stesso, in una notte insonne. Quando mi leggerò, troverò che sono oscuro. Ma non è facile esser chiari, perché la storia conosce improvvise accelerazioni e brusche frenate. Questa fase come la leggi? E’ l’inizio di una sconfitta, il prezzo del passato, una di quelle “primavere della storia“; che non t’aspetti e giungono improvvise? Come fai a valutare? Tutto quello che puoi dire è che non immaginavi di doverla fare questa fatica; la fatica di misurare la tua rabbia per non innescare violenza su violenza. Non lo immaginavi. Affondano, i nostri ragazzi. Annaspano, ma vogliono riemergere e hanno ragioni da vendere. Seguirli onestamente, accompagnarli umilmente. Altro non so fare, ma credo che sia un dovere morale porgere l’altra guancia al loro ceffone. Hanno diritto di fare la loro battaglia e abbiamo il dovere di essere credibili. Poi dissentiremo, se serve, ma solo così li aiuteremo.
Uscito su “Fuoriregistro” il 16 dicembre 2010.
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