Un vecchio racconto. L’idea di metterlo assieme ad altri per farne un libro e il solito dubbio: dubbio: ne vale la pena?
Per me smoke vuol dire Forcella subito dopo la guerra, alla fine degli anni quaranta del secolo scorso.
Vuoi sapere cos’èra Forcella quand’ero bambino?
Se hai mai conosciuto una bellezza maltrattata, se riconosci un incubo ma non hai paura di sognare, mettili assieme, paradiso e inferno, e saprai cos’era Forcella negli anni di cui ti parlo.
Forcella è una strada di Napoli – Via Vicaria Vecchia c’è scritto sulle carte – una strada che scende verso un bivio e non è lontana dal mare. Il ricordo più vivo è una chiesa caduta, che non c’è più, nera di fumo e di crepe che parevano rughe. Una bomba l’aveva centrata e pareva l’occhio guercio e bendato di un bucaniere. Era lì per fare la guardia a un antico budello: Vico Sant’Agostino alla Zecca, di fronte a Via delle Zite, vico di monache forse, certamente di zitelle, che si chiamava un tempo «Capo di Vico». Le conoscevo come le mie tasche quelle viuzze senza sole. Sono nato a Vico Zuroli 45, dove c’era ancora chi conservava ciò che sopravviveva d’una scatenata «devozione» popolare e ricordava Armelinda d’Ettore, la «santa», che in una casa di quel budello aveva vissuto.
Smoke per me è la divisa bianca dei marinai americani, le loro scarpe nere, lucide di «cromatina» e i lacci che legavamo tra loro per farli inciampare, quando sedevano dal lustrascarpe e una mano svelta sfilava portafogli.
Smoke, per me, sono le bancarelle colorate del contrabbando di sigarette, pronte a sparire nell’ombra malata assieme ai cartoni variopinti delle “stecche” con le scritte inglesi storpiate dalla pronuncia scugnizza: «Pallaman! Lucstrai! Cammell!»
Questo è stato per me smoke e anch’io l’ho urlato come tanti. Urlavo, vendevo e se per caso ci piombava addosso «‘a finanza», sfidavo la paura e facevo l’eroe. Tre passi e sparivo: «‘int’e vicoli ‘a finanza non nce trase»…
Smoke vuol dire per me pallore di ragazzini fatti solo di occhi grandi, svegli e profondi.
Smoke vuol dire per me occhi tristi.
Sono stato così, me lo ricordo bene; pronto a segnalare «a polisse» e «‘a finanza», convinto che il mondo avesse i suoi confini tra Via Duomo e le mura greche di Piazza Calenda, dove il malconcio «Cinema Teatro Trianon» m’incantava. Ci aveva recitato mia madre prima della guerra e anche a me piaceva recitare; per palcoscenico avevo la strada e ci mettevo in scena la commedia del coraggio che non avevo nella sfida precoce alla vita. Il cuore in petto mi batteva forte per la paura che non confessavo e correvo, correvo senza meta, avanti e indietro, dal barbacane che accecava il vicolo e mi metteva al riparo, alla strada di fronte, l’antica Via delle Zite, che misurava la forza delle mie gambe magre negli improvvisi scatti, nei salti sempre più lunghi oltre i cumuli di verdura di scarto che si allungavano da un marciapiede all’altro.
Correvo. Oltre i banchi di frutta e di pesce, a tutta velocità verso l’antico Sedil Capuano, assieme a compagni abituati alla diffidenza e alla solidarietà della strada. Compagni senza nome, che avevano solo soprannomi pittoreschi e barbari. Me ne ricordo due più di tutti, sciupati, malaticci e subito affaticati, caratteristi per istinto, nati su quella scena improvvisata e sempre pronta a cambiare: Zé Monaco e l’inspiegato e rachitico Auccetiello. Recitavamo assieme, da artisti consumati, imitando l’andatura e i modi della gente che passava e riempiva la via di voci, colori e odore di vita; la gente che ci ignorava e scivolava via come fanno i tronchi sulla corrente dei fiumi, senza parlare, conservando gelosa i suoi segreti. Eravamo noi a decidere, a seconda dell’umore e dell’ora, se il pubblico dovesse amare o lottare, sperare o disperare. Noi, pronti a sberleffi e capriole, usavamo la gente come ispirazione, copione e pubblico d’occasione.
Smoke, per me, è Sant’Agostino alla Zecca, dove una sera scura piansi tutte le mie lacrime – avevo appena visto sparire su, verso Sedil Capuano, mia madre in lite con mio padre – e sperai di morire. Mi trascinarono via i due compagni barbari, Zé Monaco e Auccetiello, con le parole incomprensibili d’una lingua che non era mia, ma dolci, sorprendentemente dolci – sono così in ogni lingua le parole della solidarietà: dolci come una musica – e non mi lasciarono più finché non mi tornò un sorriso anemico e non ripresi a recitare l’uomo forte, come facevo sempre per paura che si scoprisse la paura. Non avevano mamma, quei due, e Vico Sant’Agostino alla Zecca li aveva adottati. Io una mamma, invece ce l’avevo e la mia guerra un giorno finì.
Me ne andai una sera d’inverno. All’angolo del vicolo, i pantaloncini corti legati con lo spago, i gambali di gomma telata, le magliette di lana consumata, slabbrate e penzoloni, gli occhi più grandi del solito, due compagni disperati mi salutarono, piangendo:
«Nce vedimme».
Non ci tornai mai più. Ora è cambiato tutto, c’è chi conta le repubbliche e dice che siamo alla terza., Se ci passate, però, li trovate. Le repubbliche cambiano, ma loro sono sempre là, sessant’anni dopo, Zé Monaco e l’inspiegato e rachitico Auccetiello.
Per loro non è mai cambiato niente.
Da Fuoriregistro, 9 agosto 2003.

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