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Posts Tagged ‘Obama’

ritratto_di_settimio_severoRiordinare libri è anche questo: avere tra le mani il mondo antico e guardare il presente alla luce del passato. Chiedersi, per esempio, che direbbero di noi Settimio e Alessandro Severo. libico il primo, libanese il secondo ed entrambi – nella buona come nella cattiva fortuna – imperatori romani. Che direbbero Filippo l’Arabo, il mauritano Emiliano e l’iraniano Valeriano?
I libri raccontano di imperatori turchi e d’un manipolo di slavi che il rozzo fascista, restauratore dell’impero sui “fatali colli di Roma”. avrebbe perseguitato. In tema di razza il mondo latino fu così avanzato, da far sembrare il nostro un nuovo e più buio Medio Evo.
Guardo i libri ma, mentre mi chiedo se anche questo mio cercare vie di comunicazione tra passato e presente sia “fare storia”, non so dare risposta a una domanda che si fa strada e diventa pressante:  che faremo di questo tempo nostro e di noi stessi, immersi in una terribile tempesta d’odio e barbarie? Sbandiereremo la superiorità culturale di un modello antico e chiederemo un presidente di colore al Quirinale, come hanno fatto gli Usa con Obama? Ci limiteremo a questo, o prenderemo atto che Guantanamo condanna Obama e che tutti, l’americano come gli africani, consentirono uno sfruttamento feroce dei bianchi e dei neri e ignorarono i diritti umani? Capiremo che il razzismo è un’atrocità, ma anche uno degli strumenti ai quali talora il potere ricorre per opprimere i popoli e armare i bianchi poveri contro quelli neri?
Se difenderemo astrattamente il diritto alla parità, mi dico, se leveremo il vessillo dell’antirazzismo, faremo il gioco dei padroni e dei suoi servi. Finiremo dalla parte del “Minniti antifascista”.
Forse, per radunare emarginati e sfruttati di ogni colore nella stessa trincea contro la barbarie, dovremo ricordare che il capitaismo non ha colore e non ha patria; ricordare che non siamo divisi in bianchi e neri, ma in  sfruttatori e sfruttati. La sinistra non parla più alla gente perché ha rinnegato la sua identità e le sue radici profonde. Non occorre cambiarle di nome, ma ritrovare la coincidenza tra teoria e pratica, partendo da un punto fermo: il neoliberismo genera sfruttamento e produce razzismo.
Se riconquisteremo i diritti sociali che ci hanno sottratto, il razzismo non sarà più al centro della scena politica.

Agoravox, 4 settembre 2018

classifiche

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2cd6d79f06654e298976fc0983e7c7df09f909348c0ccb84175d9638I confini dell’Iraq sono figli legittimi del capitalismo. Un reato e un dito puntato su moralisti e finti pacifisti che predicano guerre “umanitarie”, come un tempo la rassegnazione per i bambini schiavi nelle zolfare in attesa della provvidenza. Linee tracciate con la riga, una gabbia e dentro molte minoranze e genti inconciliabili tra loro: sciiti, curdi e i sunniti. Chi prega per la tragedia irachena chiama in causa un Dio che non c’entra. Il fondamentalismo responsabile del dramma si chiama capitalismo: ha il feticcio del mercato sull’altare e il suo corano è la legge del profitto. La vicenda dell’Iraq, metafora del nostro tempo, ha due volti: in scena istanze autonomiste, colpi di Stato, ripetuti macelli, resistenze e attentati. Dietro le quinte l’Occidente che mira al petrolio.
Senza andar troppo indietro, la successione di eventi nel secondo dopoguerra raggela. Nel 1956, con la crisi di Suez, Baghdad diventa importante base inglese e nel 1958 c’è l’Occidente dietro la caduta della monarchia. Nel 1961 gli inglesi dichiarano indipendente quel Kuwait, che Baghdad ritiene terra irachena. Karim Qãsim, primo ministro, apre trattative con partner diversi da quelli angloamericani, tra cui l’ENI di Mattei. Risultato? A ottobre del 1962 l’aereo di Mattei esplode in volo; tre mesi dopo, nel febbraio 1963, la CIA favorisce un golpe e Qãsim, che ha proibito di assegnare nuove concessioni petrolifere alle multinazionali straniere, fa la stessa fine di Mattei. La stampa si guarda bene dal dirlo, ma Tommaso Buscetta, riferì a Falcone che Mattei fu ucciso da “Cosa Nostra” su richiesta di agenti stranieri, com’era accaduto con Mauro De Mauro, il giornalista che sapeva troppo sul caso Mattei.
Si può essere ostili al movimento di Grillo – è peggiore di Forza Italia? – ma se Di Battista scrive che il caso Iraq ripete ciò che s’è già visto più volte, non sbaglia. in Irak, gli occidentali hanno prodotto presidenti fantoccio, guerra civile e miseria. Saddam Hussein, alleato di ferro degli Usa, utilizzato in funzione antiraniana e rifornito di gas tossici, li usò prima nella guerra con l’Irak , poi contro i curdi; a partire dall’11 settembre del 2001, con l’attentato alle Torri Gemelle, in Iraq non c’è stata più pace. Gli Usa e i loro alleati hanno sulla coscienza non solo il milione di morti causati dal conflitto iraniano, ma le guerre civili e gli innumerevoli golpe che hanno travagliato il pianeta. Basterebbe ricordare che nel 1954 fu la CIA ad armare mercenari dell’Honduras contro Arbenz, Presidente del Guatemala eletto legalmente, che aveva espropriato terre incolte della statunitense United Fruit Company. Stesso copione con Allende in Cile. Fanno parte della storia, per tornare all’Irak, Colin Powell e le menzogne narrate all’ONU per aggredire Saddam Hussein, inventandosi inesistenti armi di distruzione di massa. La guerra costò innumerevoli vittime civili. Noi ci scandalizziamo per le vittime dell’ISIS, ma quali sono le responsabilità dell’Occidente? Perché compriamo gli F35, che sono pane tolto di bocca ai figli dei lavoratori massacrati? Non serviranno ancora una volta per colpire “terroristi” e massacrare civili? E’ ora di finirla con scelte criminali, che hanno un’unica origine: la sottomissione della politica all’economia e la subalternità dell’Italia agli USA.
Di Battista fa scandalo? Scandalosi sono l’ipocrisia e il conformismo imperanti. Se feroce è infatti la violenza dell’ISIS, criminale e disumana fu la menzogna propinata dal Segretario di Stato USA all’ONU. “Mi chiedo per quale razza di motivo si provi orrore per il terrorismo islamico e non per i colpi di stato promossi dalla CIA”, scrive Di Battista. Bestemmia? E allora bestemmierò anch’io. Mandare gambe all’aria un governo legalmente eletto per oscene questioni di profitto, mettendo nel conto la guerra civile e le vittime che produrrà, non è forse un disegno criminale?
Invece di fare classifiche tra terroristi, chiediamoci dove ci condurrà la scelta di seguire ancora gli USA che hanno causato fame, miseria, disperazione e morte. A Roma, nel 2003, scrive Di Battista, contro l’intervento militare italiano in Iraq, dicevamo: “se uccidi un terrorista ne nascono altri 100”. Come negare che siamo stati facili profeti? Come pensare di armare i curdi sapendo che alla prima occasione useranno le armi come vorranno? Esistono vie diverse da quelle che calpestano sistematicamente il diritto internazionale. Da tempo gli USA si proclamano poliziotti del mondo e noi gli andiamo dietro, ingannando noi stessi. Che poliziotti potranno mai essere coloro che hanno sostenuto golpe in tutto il pianeta, venduto armi a tutti i dittatori fedeli e affamato mezzo mondo, pur di sfruttare la più gran parte delle risorse mondiali? Che credito può avere chi, con la scusa del terrorismo, ha invaso l’Iraq e l’Afghanistan e ha lasciato mano libera ai criminali sionisti? Come si fa a ignorare che con i loro bombardamenti terroristici gli USA hanno moltiplicato gli attentati? Di Battista ha ragione: in Irak non si è esportata la democrazia, ma “25.000 contractors […], uomini e donne armati di 24ore che lavorano in tutti i campi, dalle armi al petrolio passando per la vendita di ambulanze. La guerra è davvero una meraviglia per le tasche di qualcuno”.
Non si tratta coi terroristi, si dice. Ma dov’è scritto e chi appioppa questa terribile etichetta? Gli Usa di Hiroshima e Guantanamo? Apriamo un tavolo in cui parlare di pace in Medio Oriente; ci si seggano tutti, l‘Europa, l’Iran, la Lega Araba, il gruppo dell’ALBA, la Russia, criminalizzata senza mai esibire una prova, mentre è provato che a Kiev governano i nazisti. Pace, non subordinazione a Obama, al quale va detto che Guantanamo è un crimine atroce e Powell ha reso inaffidabili gli Usa. Niente armi, per cominciare, né ai curdi, né ad altri. Non parli di pace mentre vendi armi a chi ti pare e ti arricchisci creando povertà, immigrazione e guerra. Di Battista ricorda che nel “2012 la Lokeed , quella degli F35, ha incassato 44,8 miliardi di dollari, più del PIL dell’Etiopia, del Libano, del Kenya, del Ghana o della Tunisia”. Chi si scandalizza per i crimini dell’ISIS, quindi, è lo stesso che gli ha messo in mano le armi. “Armiamo i curdi”, si dice. Ma chi può escludere che, vinta la guerra non volgeranno le armi su altri? Non è stato così con Saddam, in Afghanistan e in Libia “dove la geniale linea franco-americana che l’Italia ha colpevolmente assecondato, ha eliminato dalla scena Gheddafi facendo cadere il Paese in un caos totale? L’Italia dovrebbe trattare il terrorismo come il cancro […] eliminandone le cause, non occupandosi esclusivamente degli effetti”, afferma Di Battista. Come dargli torto? Come negare che chi condanna Boko Aram in Nigeria, tace sull’ENI che, impoverendo i nigeriani, agevola i fondamentalisti? Perché ignorarlo? Se un drone ti bombarda la casa e ti uccide i figl, se non hai droni e non hai soldi per comprarne, fai di te stesso un’arma. Autobomba o drone, l’esito è uno: uccidi innocenti. Chi lo dice giustifica i terroristi? No. Usa la testa e fa politica, riconoscendo errori che hanno fatto crescere la violenza e provando a capire come uscirne.
Isolare i disperati vuol dire moltiplicarli. Cominciamo col riconoscere i nostri integralismi e basta con l’ipocrisia: una bomba tirata su una scuola dell’Onu piena di rifugiati è un atto terroristico. Lo è soprattutto quando l’ONU, testimone neutrale dichiara: “avevamo avvisato chi bombardava. Qui ci sono solo persone inermi, niente armi, né armati”. Cominciamo da qui, invece di scandalizzarci per parole che condannano i bombardamenti terroristici sulle città. Cominciamo col dire no agli F35, che useremo per compiere azioni terroristiche e scatenare risposte terroristiche. Sono scelte che possono fare Renzi e l’Europa delle banche? No. E allora lottiamo per liquidare Renzi e chiudere i conti con una Europa unita che non ha nulla da spartire con quella degli antifascisti che la progettarono.

Uscito il 18 agosto 2014 su Agoravox.

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rompplaatI servizi segreti mollano il Nobel per la pace più guerrafondaio che la storia ricordi? Si direbbe di sì. In Italia pennivendoli e velinari si guardano bene dal riprendere la notizia, ma esistono ancora giornalisti che badano al buon nome. Sulla Stampa, che non è certo filo Putin, il 12 agosto Maria Grazia Bruzzone, nei modi più adatti alla digestione degli Agnelli e del gruppo Fiat–Chrysler, la notizia l’ha data con ferma prudenza e – ciò che più conta – citando fonti che in gergo si definiscono «bene informate». A raccontare che lo sventurato MH17 malese l’ha buttato giù un aereo è stato, infatti, Haris Hussain il 7 agosto sul News Straits Times Online, che esce in Malaysia e non è il solito blog alternativo, ma il più importante giornale inglese del Sudest asiatico. Una voce, insomma, che non avremmo ascoltato senza il preventivo controllo del governo malese. Sarà stata poi una coincidenza, ma, guarda caso, proprio il 7 agosto il governo della Malaysia ha annunciato ufficialmente che presta sarà di pubblico dominio un primo rapporto sul disastro del 17 luglio scorso.
Perché La Stampa parli e gli altri stiano zitti è un mistero italiano, ma la notizia è a dir poco imbarazzante per Obama e i suoi untorelli e spiega perché della «scatola nera» non si parli più. Gli «analisti dell’intelligence degli Stati Uniti» – riferisce infatti la giornalista – «hanno già concluso che il volo MH17 è stato abbattuto da un missile aria-aria e che il governo ucraino ha a che vedere con la faccenda. Ciò corrobora la teoria che va emergendo tra gli investigatori locali secondo la quale il Boeing 777-200 è stato colpito da un missile aria-aria e poi finito con il cannone di bordo di un caccia che gli stava dietro”. A completare l’opera, aggiunge la giornalista, «l’esercito russo ha presentato immagini e dati dettagliati che mostrano un caccia Sukhoi-25 in coda al Boeing MH 17 prima del crash. Il regime di Kiev tuttavia nega che vi fossero caccia in volo».
L’’accusa è così precisa, che le scelte dell’amministrazione Obama, cui si è subito allineata l’UE, appaiono campate per aria, strumentali e stupidamente minacciose. Per non dire del governo italiano e della Mogherini, che Renzi vorrebbe imporre come titolare della sia pure inesistente politica estera dell’Unione. Ci sarebbe da ridere, se la vicenda non fosse tragica e non emergesse lo scellerato l’intento di colpire la Russia, inventandosi un missile terra-aria lanciato dai separatisti dell’Ucraina e accusando in malafede Putin, che invano chiedeva un’inchiesta internazionale condotta con rigore e neutralità. Eppure, ricorda la Bruzzone, sin dal 21 luglio, i russi «mostravano immagini satellitari e tracciati radar che provano la presenza di almeno un caccia ucraino Sukhoi-25 in volo a 3-5 km di distanza dal MH17. Presenza che», ripetevano, «può essere confermata dai video del centro di controllo di Rostov».
Ora, a sostegno dei russi, compaiono altre prove. C’è un monitor dell’OSCE canadese-ucraino, che ha filmato i rottami poco dopo l’abbattimento. Una testimonianza sconcertante, anche perché fa riferimento a un filmato trasmesso il 29 luglio da una televisione canadese di cui il giornale riporta il link. Un testimone afferma che «c’erano due o tre pezzi di fusoliera letteralmente crivellati da quel che sembra essere il fuoco di una mitragliatrice». Non bastasse, il tedesco Peter Haisenko, pilota in pensione della Lufthansa, dopo un’analisi molto accurata delle foto del relitto comparse sul web subito dopo l’abbattimento-e soprattutto i fori di entrata e uscita visibili su entrambi i lati del velivolo – è pronto a giurare che non c’è stato nessun missile sparato dal basso: la cabina del pilota, infatti, è stata trapassata da colpi di mitra provenienti dall’esterno, sia da destra che da sinistra.
Berdn Biederman, poi, originario della Germania dell’Est, un altro colonnello che conosce come le sue tasche la tecnologia missilistica sovietica e russa, afferma che «il boeing non può essere stato abbattuto da un missile terra-aria». Perché? Semplice e a quanto pare inconfutabile: sarebbe andato subito in fiamme grazie alla gran quantità di energia cinetica contenuta da quel tipo di missile. L’aereo malese, invece, s’è incendiato solo in seguito all’impatto tra suolo e carburante. Il News Straits Times Online, infine, a questo punto davvero credibile, accenna ai numerosi articoli usciti sul web, che fanno aperto riferimento a una Germania stanca e irritata dalla violenta campagna americana e al malumore tedesco per l’incessante propaganda Usa nei confronti dei programmi energetici della Merkel, che starebbe pensando alla creazione di «un blocco alternativo a quello americano». A parte i dettagli tecnici sulla compatibilità dei fori e sui proiettili delle armi montate sui caccia ucraini, decisamente inquietante è il caso di un controllore di volo spagnolo, che lavora a Kiev ed è stato misteriosamente rimosso dopo l’abbattimento; l’uomo, infatti, afferma che i tracciati registrati dai radar sono stati subito requisiti.
In un gioco oscuro , che invece di cancellare prove conferma certezza, proseguono intanto le rimozioni da Internet di tutto ciò che rafforza la tesi dell’attacco aereo. Il News Straits Times riferisce inoltre che Robert Parry, noto giornalista investigativo americano, si è rivolto personalmente a uomini dell’Intelligence, che dopo aver chiesto l’anonimato hanno seccamente smentito Obama: secondo questi analisti dell’Intelligence a stelle e strisce, i ribelli e la Russia non c’entrano nulla con l’abbattimento,voluto a quanto pare da un’ala estrema del governo ucraino. Di fatto, al di là di chiacchiere e minacce, il governo USA non ha mai fornito uno straccio di prova sulle responsabilità della Russia e senza Putin i ribelli non avrebbero mai potuto disporre di un sistema missilistico anti aereo in grado di abbattere l’aero malese alla quota in cui volava. Parry è sconcertato, perché mentre l’ «isteria» dell’amministrazione Obama si scatenava contro la Russia, nessun giornalista, ha mai chiesto «cosa mostrano le immagini satellitari»; un comportamento che ricorda molto da vicino la stessa «assenza di sano scetticismo professionale riscontrata sull’Irak, la Siria e altrove». Ci «saranno anche dei limiti a quel che i satelliti vedono», annota Parry, «ma i missili del sistema Buk sono lunghi 16 piedi (circa 5 metri), le batterie sono montate su un camion, e quel pomeriggio la visibilità era ottima». E’ strano che a nessun giornalista sia venuto in mente che i soli a possedere le batterie di Buk – come ben sa l’Intelligence Usa – sono i militari del governo ucraino. Per nulla intimorito dal clima creato da Obama attorno alla vicenda, Parry, concludendo, riferisce, perciò, che «l’ipotesi di lavoro degli analisti Usa è che una batteria Buk di missili SA-11 e uno o più aerei militari abbiano potuto operare insieme andando a caccia di quello che credevano fosse un aereo russo, forse addirittura l’aereo presidenziale che riportava in patria Putin dal Sud America».
Qui ci si può anche fermare, senza seguire le mille ipotesi. Volontario o involontario, l’attacco c’è stato. Volontaria è stata – e tale rimane – la violenta campagna antirussa di Obama e la vergognosa la scelta dell’Occidente di imporre sanzioni ai russi e di sostenere i crimini commessi a Gaza da Israele sotto gli occhi del mondo inorridito.

Uscito il 18 agosto su <a href=”secondo questi analisti dell’Intelligence a stelle e strisce, i ribelli e la Russia non c’entrano nulla con l’abbattimento, voluto a quanto pare da un’ala estrema del governo ucraino. Di fatto, al di là di chiacchiere e minacce, il governo USA non ha mai fornito uno straccio di prova sulle responsabilità della Russia e senza Putin i ribelli non avrebbero mai potuto disporre di un sistema missilistico anti aereo in grado di abbattere l’aero malese alla quota in cui volava. Parry è sconcertato, perché mentre l’ «isteria» dell’amministrazione Obama si scatenava contro la Russia, nessun giornalista, ha mai chiesto «cosa mostrano le immagini satellitari»; un comportamento che ricorda molto da vicino la stessa «assenza di sano scetticismo professionale riscontrata sull’Irak, la Siria e altrove». Ci «saranno anche dei limiti a quel che i satelliti vedono», annota Parry, «ma i missili del sistema Buk sono lunghi 16 piedi (circa 5 metri), le batterie sono montate su un camion, e quel pomeriggio la visibilità era ottima». E’ strano che a nessun giornalista sia venuto in mente che i soli a possedere le batterie di Buk – come ben sa l’Intelligence Usa – sono i militari del governo ucraino. Per nulla intimorito dal clima creato da Obama attorno alla vicenda, Parry, concludendo, riferisce, perciò, che «l’ipotesi di lavoro degli analisti Usa è che una batteria Buk di missili SA-11 e uno o più aerei militari abbiano potuto operare insieme andando a caccia di quello che credevano fosse un aereo russo, forse addirittura l’aereo presidenziale che riportava in patria Putin dal Sud America». Qui ci si può anche fermare, senza seguire le mille ipotesi. Volontario o involontario, l’attacco c’è stato. Volontaria è stata – e tale rimane – la violenta campagna antirussa di Obama e la vergognosa la scelta dell’Occidente di imporre sanzioni ai russi e di sostenere i crimini commessi a Gaza da Israele sotto gli occhi del mondo inorridito.”

Uscito il 18 agosto 2014 su

Uscito il 18 agosto 2014 su Agoravox.

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Abu_Ghraib_17aGli aerei a stelle e strisce bombardano l’Irak per “prevenire un genocidio”. Che miserabili! A quanto pare a Gaza il massacro è autorizzato e non c’è politico o giornalista capace di dirlo: l’hanno cominciato gli Usa il genocidio in Irak, quando un lungo embargo impedì l’arrivo di medicinali e uccise una generazione di bambini poveri. Poi s’inventarono prove false sulle “armi di distruzione di massa” in possesso di Saddam Hussein e le presentarono all’Onu, per metter mano al macello iracheno e aprire la serie delle guerre “umanitarie”. Non lo so con quale faccia un delinquente come Obama parli di genocidio, ma è certo che più schifo di lui fanno i nostri “grandi giornalisti”, felicemente ridotti al rango di pennivendoli e velinari.

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ghettoGaza noi la conosciamo bene tutti da più di settant’anni: è il terrore di un bambino che un mitra nazista minaccia di morte, è il ghetto di Varsavia con gli ebrei polacchi massacrati dai lanzichenecchi di Hitler, è Napoli messa a ferro e fuoco della divisione Goering, col litorale sgombrato e la popolazione costretta a vivere in condizioni subumane.
Nessuno lo dice, ma lo sappiamo tutti: la tragedia va in scena a ruoli invertiti e c’è una banalità del male di stampo israeliano.

Noi conosciamo bene la verità che l’Europa targata Merkell pretende dai russi: è una verità messa in catene ed è prigioniera di Obama a Guantanamo. La verità che Obama, Cameron e Merkel pretendono da Putin, dopo la Baia dei Porci e l’embargo che ha strangolato Cuba, dopo Pinochet e il Cile violentato, le menzogne sulle armi di distruzione di massa e mezzo milione di iracheni ammazzati, la Jugoslavia fatta a pezzi, la verità la conosciamo tutti: è stuprata ogni giorno nei barconi dei migranti nel Mediterraneo

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Per anni abbiamo pensato che un modello di stato sociale – sanità, formazione, pensioni – fosse un’idea di società figlia di un tempo della storia fecondato da un sistema di valori e, come tale, non potesse nascere per partenogenesi. bet_33_672-458_resize[1]Della mia generazione, per esempio, chi militò a sinistra da giovane fece i conti con una visione della formazione nata da un inestricabile intreccio tra modo di produzione, ragioni del mercato e rigide gerarchie sociali, Un modello egemonico di classe, fondato su criteri di selezione che bloccavano ogni ascensore sociale.
Parlo di tempi lontani, quando si diceva «democrazia borghese» perché in mente si aveva quella socialista. Di tempi in cui c’era un mondo che pensava di «normalizzarci» e noi lo mettemmo sottosopra. Le identità erano irriducibilmente alternative: destra e sinistra erano campi contrapposti separati da barriere ideali. «Ideologie», si dice oggi con tono sprezzante. E’ vero, la sinistra aveva «anime diverse» e i nostri padri erano scesi a compromessi che noi rifiutavamo, ma c’era un terreno comune: i valori dell’antifascismo. La guerra era stata messa al bando, sulla legislazione sociale, sul lavoro e sulla sua tutela ci si poteva scontrare ma anche incontrare perché, per le sinistre, la repubblica era fondata sul lavoro. Se parlavi di studio, sulle finalità ci si intendeva: la formazione del cittadino tocca alla collettività, al popolo sovrano che ha la responsabilità di fornire strumenti critici per consentire di scegliere tra parti in lotta; è il popolo che ha l’autorità per «realizzare il bene comune, far rispettare i diritti inviolabili della persona, assicurare che famiglia e corpi intermedi compiano i loro doveri e formino i ragazzi al rispetto della legge costituzionale». La famiglia, quindi, cedeva il posto alla collettività, riunita nel «patto sociale» sottoscritto dopo la Liberazione, e riconosceva che l’unica tutela degli interessi particolari deriva dalla difesa assicurata ai diritti collettivi. Negli anni Sessanta del Novecento, questa visione della vita sociale – e l’idea di sistema formativo che ne derivava – non era figlia del bolscevico Zinoviev e nemmeno un prodotto del provincialismo italico: la sosteneva, infatti, persino il cattolico «Ufficio Internazionale per l’Infanzia». Oggi quel mondo è sparito. Destra e sinistra viaggiano unite e il punto d’intesa si riassume in un logoro slogan liberista: «troppo Stato». Non è la critica anarchica al principio di autorità, ma la rivendicazione di una sconcia «libertà» che tuteli manipoli di privilegiati a spese della giustizia sociale. La crisi che attraversiamo, ci spiegano, infatti, è figlia dei nostri errori. Un Sistema Sanitario al limite della decenza fa all’economia danni più seri di quelli causati dall’attacco terroristico alle Twin Towers e Obama è avvisato: se la crisi metterà in ginocchio gli USA, sarà per colpa sua che importa dall’Italia quell’idea di riforma sociale che ci sta rovinando. In un loro libro a quattro mani – Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia Giuliano Amato, ideologo del craxismo, e lo storico Andrea Graziosi l’hanno teorizzato proprio in questi giorni di spese militari senza limite, di privatizzazioni senza liberalizzazioni e di banchieri che si tengono i profitti e socializzano le perdite: i «diritti costosi come quelli sociali» hanno «una natura diversa dai diritti politici e civili» e non sono «perciò sempre e comunque esigibili». E’ il più pesante attacco portato in Italia a quella che l’ex colonnello di Craxi chiama «l’irrealistica ideologia dei diritti», tenuta in vita ovviamente dal «cortisone del debito pubblico» grazie al “fanatico” provincialismo dei difensori della giustizia sociale, fermi a Keynes, mentre il mondo si inchina ai disastri di Hayek.
Applicato alla storia romana, questo «realismo» ideologico alla Fukuyama accollerebbe la crisi dell’impero a Menenio Agrippa e al suo celebre apologo sui diritti dei lavoratori; poiché si tratta, però, di fatti contemporanei, per quadrare i conti non si fa cenno a Grecia, Spagna e Portogallo, alla Francia vacillante, all’Inghilterra fuori dall’euro – è ovunque colpa dei diritti? – si ignorano i moti turchi, il terremoto nordafricano, il Medio Oriente in fiamme e, per difendere i privilegi di sparute minoranze parassitarie, si riducono i diritti a una volgare «illusione» e si fa della storia la scienza dei fatti che prescinde dagli uomini e dai loro bisogni. Occorre cambiare, ci dicono i severi giudici della repubblica, ma è l’antica bandiera del rinnovamento all’italiana: si cambia tutto perché nulla cambi. Intanto, scuole, università e ospedali, diventate aziende, sono alla rovina e i servizi, piegati alle logiche del profitto, sono solo riserve di caccia per manager. Nella crisi di identità di un popolo di senza storia, la dottrina di Amato e Graziosi confonde le cause con gli effetti e non serve a un insegnante che, in terra di camorra, deve spiegare agli studenti cosa tenga assieme la legalità costituzionale, nemica della guerra, e il cacciabombardiere abbattuto in volo dalla difesa irachena ai tempi della prima guerra del Golfo o quelli che, acquistati mentre non ci sono soldi per gli esodati, mandano in fumo quanto basta per dar da vivere a tutti i pensionati. L’insegnante però lo sa e per questo si mettono a morte scuola e università, perché non dica ciò che gli storici fingono di non sapere: per ingrassare i padroni del vapore, si spende e si spande nelle guerre che vuole il capitale, si gira il mondo armati fino ai denti per ammazzare amici e nemici con l’uranio depotenziato e si inventa una Costituzione materiale che è l’esatto contrario di quella su cui fonda la repubblica. L’insegnante lo sa: il lavoro ormai non si paga, le riforme cancellano diritti e stato sociale, la scuola è privatizzata, gli immigrati finiscono in campi di concentramento, la Val di Susa è militarmente occupata come la Libia nell’Italia liberale, la Magistratura usa l’eterno codice Rocco per trasformare in terrorismo il conflitto sociale, un Parlamento di nominati manomette la Costituzione e ci lega a filo doppio a un’Europa che di Costituzione non vuol nemmeno sentir parlare. Sovversivismo delle classi dirigenti. Altro, ben altro che una «irrealistica ideologia» dei diritti.

Uscito su Report in line il 20 agosto 2013 e sul Manifesto il 23 agosto 2013

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Morirò combattendo”. Gheddafi l’aveva detto e l’ha fatto. Sono i paradossi della storia che giunge alla verità per vie sconosciute e non consente dubbi: il dittatore oggi appare un gigante al paragone coi nani vigliacchi che hanno fatto pollice verso. Stavolta non serve mobilitare l’intelligence, sguinzagliare cani,  e organizzare la caccia all’uomo come vanno facendo da giorni i “galantuomini” nostrani, indignati per San Giovanni, il diritto violato, un furgone bruciato e qualche sassaiola. Stavolta è tutto chiaro e i black bloc, i nemici della civile convivenza, i violenti, gli aggressori e i boia, li conosciamo veramente bene. Nome cognome e indirizzo, marchio d’origine controllata. Sarkozy, Cameron, Obama, la Clinton, Berlusconi, Bersani, tutti ben noti alle questure e all’Interpol, non saranno inchiodati da servizi speciali e non troveranno giudici pronti a processarli. Continueranno indisturbati il loro lavoro contro la giustizia sociale, contro i popoli e contro il diritto internazionale. La buffonata per gli incidenti romani si chiude qui, con un linciaggio in diretta rivendicato come l’ennesima, grande “vittoria della democrazia“.
No alla violenza“ insisteranno ancora pennivendoli e gazzettieri, ma giorno dopo giorno la violenza stupida e feroce del capitale colma la misura della storia e la saggezza dei popoli lo sa: chi semina vento raccoglie tempesta.

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Bocce ferme. Dopo risse, aggressioni e concerti, tacciono finalmente i candidati, ma il rantolo della politica vive nel delirio di Berlusconi: “Mister Obama, ho una nuova maggioranza”. Dietro le luci psichedeliche, due liberismi a confronto; a Milano Pisapia, un ex comunista, si volge ai “moderati” e una sinistra tutta belle maniere e società civile promette di sterilizzare il conflitto e ripristinare le regole del gioco. A Napoli, la voglia di riscatto si affida a De Magistris, un magistrato messo fuori dalla magistratura, una sorta di “perseguitato politico” che fa da argine allo strapotere della criminalità organizzata, ma non va oltre le cicliche e storicamente sterili “campagne morali” d’una borghesia sorpresa dalla sua stessa miseria morale. A completare il quadro, le bandiere rosse, che non hanno scelta, dopo la storica Caporetto della sinistra alternativa, si schierano a mezz’asta sul terreno del liberismo progressista.

Se questo è al momento il terreno dello scontro, ben venga la disfatta della destra reazionaria e golpista. Il “popolo sovrano”, fonte della legittimità del potere, s’è diviso e frantumato nell’illusione del “benessere” che ha superato gli antichi confini delle classi. Qui la vittoria della società industriale avanzata è innegabile, tuttavia, sotto la calma paludosa che rassicura i grandi gruppi di potere, qualcosa si muove e sfugge alla lettura “classica” borghese. E’ un terremoto che ricorda Marcuse e il suo “sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili”.

Si fa un gran parlare di democrazia. C’è chi la colora di ciclamini e chi l’utilizza per far la guerra, ma un dato su cui riflettere si coglie: mentre la crisi blocca l’ascensore sociale, più il tempo passa, più cresce la massa dei disperati che rimane fuori dal processo della “democrazia” e più si moltiplicano i segni di aperta insofferenza per l’inganno liberista. La politica si perde tra il Pil e gli indici economici e predica il contenimento della spesa, ma la vita, che si spende tutta in una volta sola, si rifiuta di spegnersi nelle astratte ragioni di burocrati e ragionieri. E qui il corto circuito può accendere l’incendio.

Non è questione di regole, riformismo o conservazione. E’ che le intollerabili ragioni dell’economia di mercato cozzano contro quelle insopprimibili della volontà di vivere, sicché le piazze che si riempiono di giovani si collocano fuori dal sistema e da fuori lo attaccano perché lo sentono nemico. Forse i giovani non ne hanno ancora una coscienza chiara, ma la loro opposizione è di fatto rivoluzionaria. E torna in mente Marcuse con la sua “forza elementare che viola le regole del gioco e così facendo mostra che è un gioco truccato”. Quando masse di sfruttati levano la bandiera dei diritti violati, si raccolgono repentine in strada e occupano la piazza senza armi, sapendo di rischiare lo scontro fisico, l’assalto delle forze dell’ordine addestrate a reprimere, la galera, l’internamento e forse la morte, c’è qualcosa che si muove nel profondo del corpo sociale.

Nessuno conosce il futuro e dallo scontro che s’annunzia potrebbe anche nascere una barbarie che spezzi il percorso della pretesa civiltà occidentale. Tuttavia, quando una genrazione non si riconose nel gioco e non si piega alla violenza legalizzata dello Stato, nulla proibisce di pensare che barbaro oltre misura sia diventato il potere e la spinta al cambiamento delinei, invece, il quadro d’un crollo che ha dalla sua le ragioni della storia. E’ già accaduto e grandi imperi sono caduti quando gli estremi si sono toccati, saldando la forza degli sfruttati alla lucida protesta della avanguardie prodotte dalla coscienza dei diritti negati. E’ accaduto, quando l’impossibilità del riscatto sociale s’è incontrata con la consapevolezza dell’arretramento civile e l’utopia, che muove la storia, ha trasformato in coscienza rivoluzionaria un generico desiderio di cambiamento. Non aveva torto Marx: “il vero regno della libertà […] può fiorire soltanto sulle basi del regno della necessità”.

Uscito su “Fuoriregistro” il 28 maggio 2011

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In maniera subdola, i pedagogisti che fanno capo al PD si schierano per le prove Invalsi e non fa meraviglia. Berlusconi e Gelmini hanno solo chiuso il cerchio e non a caso quel galantuomo di Berlinguer ha elogiato più volte il ministro della distruzione. Come si può, rispondiamo tutti. Io ci ho provato così. Ma è come affrontare i tank con una cerbottana…

Si dice – e l’attenzione va alle prove Invalsi – che “il test è uno strumento di indagine finalizzato a rilevare dati oggettivi“. Si aggiunge, con rivelatrice “prudenza difensiva” – che è vero, sì sono strumenti “poveri” e ce ne sono di più “ricchi“. I “reattivi, le conversazioni mirate, certi tipi di questionari, gli elaborati scritti. Nasce così il paradosso di un riconoscimento che afferma e nega: ci sono strumenti “ricchi” ma scegliamo quelli “poveri“. Perché? Anacronistica passione proletaria? Evidentemente no. Nobile o ignobile, sono punti di vista, la ragione è un’altra. E’ che la Costituzione, sputacchiata in tema di privatizzazione del sistema formativo, guerra, uguaglianza di fronte alla legge, libertà di stampa, opinione, ricerca, diritto allo studio e chi più ne ha più ne metta, la Costituzione formalmente c’è, esiste ancora e, se qualcuno ne ha bisogno, la tira in ballo per sostenere tesi peregrine, allinearsi al potere e far la guardia armata del “pensiero unico“. Quel pensiero che sottende il sedicente “mondo globalizzato” e tiene insieme, di volta in volta, senza problemi di comune senso del pudore, Gheddafi e Berlusconi, la “democrazia” di Obama e il cinese disprezzo dei diritti umani.

La Costituzione, quindi. Ecco la colpevole del paradosso! I test Invalsi non hanno grandi pretese, ma c’è un obbligo: “verificare“. Cosa? Se si sono raggiunti finalità e obiettivi prescritti da Indicazioni nazionali e norme generali pubblicate dal Miur, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, non più pubbliche, ormai, ma qui siamo permissivi e della Costituzione antifascista … ce ne freghiamo. Lo prescrive e fa comodo stavolta rispettarla.
Si sussurra anche, ma puntuali piovono smentite, di utilizzazioni politiche improprie, che starebbero a cuore alla tecnocrazia: valutare scuole e docenti come fossero aziende e “quadri“, a fini retributivi, dividere i fedeli dagli infedeli al verbo del Capitale, “orientare” l’insegnamento verso “obiettivi formativi” cari a Confindustria e in linea con la mercificazione del sapere che impazza nel letamaio nobilmente etichettato come “Unione Europea”. Che dire? Sarebbe auspicabile, anzitutto, una verifica della competenza del Ministero, ma qui la docimologia fa posto alla politica e conta solo il consenso, che, tuttavia, non è sinonimo di competenza.

Certo, una verifica nazionale delle competenze, che non sia decontestualizzata, che punti ad accertare, in primo luogo, se stiamo tirando su intelligenze critiche e cittadini che non si rivelino poi “bestiame votante“, che investa più risorse, dove più si registrano insuccessi e problemi, una verifica nazionale di questo genere sarebbe non solo necessaria, ma auspicata da tutti gli insegnanti degni di questo nome. E sono la maggioranza, checché ne pensino Gelmini, Brunetta e Berlusconi. La resistenza non nasce dalla volontà di chiudersi in classe e fare da riferimento di se stessi. Si chiedono, piuttosto, verifiche che non abbiano fini aziendalistici, non accertino semplicemente il numero di chi sa quanto fa due più due, ma mostrino anche quanti hanno capito che la somma di due asini e due gatti non fa quattro. Verifiche che riconoscano il valore “relativo” di un risultato, perché, teorie a parte, che due più due faccia o no quattro, una cosa è che risponda bene il figlio d’un analfabeta, in una classe piena zeppa d’immigrati abbandonati a se stessi, in una scuola fatiscente che non ha un soldo da spendere, un’altra che risponda – o non risponda – chi alle spalle ha famiglia colta e benestante, in una classe “equilibrata“, con un “numero di problemi” e un rapporto numerico docenti-studenti accettabile, in una scuola attrezzata che ha risorse da investire.

A Scampia, terra di camorra, il gatto non esiste, c’è la “iatta“, femminile che comincia per i, e il topo si chiama “zoccola” maschile che comincia con zeta. I maestri, meglio se non “unici, “creeranno” gatti e topi in un percorso che non si misura coi parametri della “Milano bene”. Se l’Ispettore o l’Invalsi di turno si presentano a metà del percorso, coi loro test sul gatto e sul topo e, come accade talvolta, con le domande “à la page” sui colori dei pois della cravatta di papà, il risultato è uno e già noto e la domanda antica: chi custodirà i custodi?. Tra ragazzi e docenti, a Scampia, ci sono intelligenze lucide e valorose. E’ mancato sinora lo Stato. Se ora, si presenta per “verificare”, benvenuto. Nessuno ricordava più che esistesse, ma va bene. Per favore, però, prudenza e umiltà. Non sono i gradi a fare i buoni generali.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 marzo 2011

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