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Posts Tagged ‘Nenni’

Quando tutto diventa buio e ti senti smarrito, ti torna in mente un maestro che tanto ti ha insegnato negli anni della tua formazione giovanile e segui la sua strada. Ti spogli dei vestiti che ti hanno accompagnato durante la faticosa giornata, indossi gli abiti curiali, cominci a parlare con i tuoi fantasmi e a poco a poco ritrovi fiducia e speranza. Non importa che il tramonto annunci la notte. Hai aperto una via. Altri proseguiranno.

Emilia Buonacosa nasce a Pagani il 19 ottobre 1895, Abbandonata dai genitori, finirebbe tra i «trovatelli», se il caso, che a volte pareggia i conti tra ragioni e torti della vita, non le donasse l’affetto di una famiglia[1].

Emilia Buonacosa

Sono anni di forte crisi economica, sarebbe necessaria un’imposta progressiva sul reddito, ma Crispi colpisce la povera gente con dazi e balzelli sui generi di prima necessità e l’infanzia di Emilia è una breve magia di giochi e compagni. Dopo la scuola elementare, inizia a lavorare e impara ben presto che i padroni fanno guerra ai diritti, mentre i governi rispondono con la violenza ai disperati che chiedono pane e giustizia sociale[2]. del Novecento Giolitti evita la crisi sociale, consentendo alle classi subalterne di far «valere le proprie aspirazioni e difendere i propri legittimi interessi», sicché, quando Emilia entra in fabbrica, a Nocera, una legge tutela le operaie: dodici ore di lavoro con due di pausa e nessun turno di notte. La fatica è ancora dura e il lavoro rischioso – nel 1913 un infortunio sul lavoro distrugge il cuoio capelluto della giovane donna – ma s’è fissato un limite ed è una conquista[3]. I padroni hanno ora di fronte proletari maturi e la forte Camera del Lavoro in cui milita la Buonacosa. Come accade spesso con le donne, la Questura associa l’attività politica alla «cattiva condotta morale», sicché la Buonacosa non è solo una militante attiva in una fabbrica «agitata da movimenti sovversivi a sfondo anarcoide», ma ha «contatti politicamente pericolosi» ed è «una donna di facili costumi», che si dice anarchica per compiacere l’amante libertario e giustificare una vita dissoluta.
Lette con cura, però, le note di polizia narrano un’altra storia. Emilia cresce nelle difficoltà, fa scelte autonome, lotta contro padroni reazionari, diventa anarchica e non deve ai compagni più di quanto essi debbano a lei. Non è un’esaltata capace di «azioni delittuose», né una «poco di buono». E’ un’operaia che ha scelto il suo campo. Una scelta tanto più grave per la società del tempo, quanto più radicali sono la sfida allo Stato classista e la rottura col perbenismo borghese. Il «biennio rosso» la trova a Milano, dove frequenta Federico Giordano Ustori, tipografo di «Umanità Nova». Arrestato nel 1921 per un attentato e assolto dopo un anno di carcere, nell’estate del 1922 Federico si trasferisce con Emilia a Nocera, dove, però, notabili nazionalisti e padroni camorristi hanno creato un fascismo peggiore di quello originale, che costringe Ustori a tornare con Emilia a Milano. L’8 settembre 1924, col regime in crisi per la morte di Matteotti, i due si sposano, ma il 3 gennaio 1925 Mussolini spegne le illusioni: «se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione…». Quando il regime vara le leggi «fascistissime», Federico, per evitare il confino, fugge in Francia, dove Emilia lo segue.
A Parigi l’unità nella lotta al regime non spegne i contrasti tra antifascisti. Quando Ustori denuncia la persecuzione degli anarchici nell’URSS e definisce il bolscevismo «il più infame e spietato necroforo della rivoluzione», lo scontro con gli stalinisti è duro ed Emilia è con lui in una battaglia politica che scuote il campo antifascista. Casa Ustori è un riferimento per i compagni bisognosi d’aiuto e d’asilo, sicché il 2 novembre 1930, quando un’infezione causata da un banale intervento chirurgico uccide Federico a solo 39 anni, attorno a Emilia si stringe il fior fiore dell’antifascismo[4]. Treves, che ha avuto Ustori linotipista alla «Libertà», s’inchina alla memoria «duratura, incancellabile, onorata e compianta»; Piero Montanini e i compagni della Concentrazione Antifascista promettono alla donna che riporteranno in Italia il marito nel giorno della vittoria, quando torneranno, testimoni «del sacrificio popolare, tutti coloro che lasciammo nell’esilio: da Amendola a Gobetti, da Chiesa a Ustori, da Bensi a tutti gli altri oscuri operai di cui sono ricchi i cimiteri stranieri».
Se «casa Ustori» sparisce dalla «geografia politica» di Parigi, cresce tra gli antifascisti il ruolo della donna che, colpita negli affetti, non cede, si trasferisce presso una famiglia amica del marito, poi trova lavoro presso Ettore Carozzo, un editore emigrato politico. Antifascisti gli amici, antifascista il datore di lavoro, tutto nella vita della donna ha ormai colore politico, anche i luoghi frequentati. E’ il caso di un caffè in via Diderot, ritrovo di antifascisti, dove nel 1932 incontra Pietro Corradi, l’uomo col quale andrà poi a vivere e che curerà le ferite d’una donna sofferente.
Matura e molto autonoma, la Buonacosa va col Corradi alle riunioni «Giustizia e Libertà», frequenta gli anarchici Bruno Gualandi e Renato Castagnoli e il medico Temistocle Ricciulli[5]. Interrogata su tali amicizie, anni dopo dirà di non conoscere anarchici e negherà intese politiche col Ricciulli, che nel 1935, le ha curato una congestione polmonare. In realtà, lei e Ricciulli hanno combattuto in Spagna i falangisti. Ricciulli è partito nell’estate del 1936 ed è tornato in Francia malconcio; lei è andata a Barcellona nel 1937 con l’anarchico Romano De Russo. Non è chiaro quando sia tornata a Parigi, ma a marzo del 1938 una spia rivela che la donna procura rifugi e documenti ai reduci dalla Spagna che lasciano la Francia quando non ha soluzioni, offre la sua casa. Sa di rischiare e il 2 gennaio 1940 mette in guardia la figlia d’un amico: «Ricordati solamente che sono sempre quelli che si sono seduti alla tua tavola, che si sono considerati i migliori e i più sinceri fra gli amici che oggi cercano di pugnalarti alla schiena».
L’aggressione italiana alla Francia la trova straniera in un Paese in guerra col suo e il 9 luglio 1940, come ha previsto, un «amico» la vende ai tedeschi. Tre mesi di carcere ad Aquisgrana e il 9 ottobre è in mani italiane. A novembre è a Napoli, dove rigetta ogni accusa: «emigrai clandestinamente a Parigi, ma non è vero che io abbia frequentato gli ambienti di Giustizia e Libertà. […] Giammai sono stata a Barcellona. Non ho partecipato a movimenti antifascisti. A Parigi sono stata arrestata e qui tradotta Non ho altro da dire». Il 2 dicembre 1940 quando è condotta davanti alla Commissione per il confino, l’accusa non esibisce prove e lei non ha un legale. La Commissione finge di consultare atti e documenti e la condanna seduta stante a cinque anni di confino di polizia eseguendo così un ordine inviato giorni prima da Bocchini, capo della polizia: «confino […] destinazione Ventotene». Un medico incarna poi la ferocia del regime: ignora il grave incidente e ritiene Emilia «esente da difetti ed imperfezioni fisiche e psichiche», e «idonea a sopportare il regime del confino di polizia».
Contro la sentenza la Buonacosa ricorre e ogni parola del ricorso è un dito puntato sul regime: la condanna «enorme e inumana», perché non si è giudicato «nessun atto violento», le accuse «ipotetiche e fantastiche», da «vagliare con più serenità», «l’infortunio sul lavoro e il bisogno di scrupolose ed assidue cure» ignorati. Roma respinge il ricorso e la richiesta di essere inviata almeno nei pressi di Salerno o Napoli, dove i familiari «possano di tanto in tanto venirmi a vedere e darmi le cure dovute».
Il 13 dicembre 1940, sbarcata a Ventotene in catene, ma decisa a resistere, la donna ottiene che il medico attesti ciò che la Commissione ha ignorato: è priva del cuoio capelluto per un grave incidente e deve adoperare la parrucca. Inizia così una battaglia per le regole e i diritti che sembra rendere la prigioniera più libera dei suoi carcerieri, servi d’un regime immorale in cui il diritto coincide col potere e il potere si fonda sulla forza bruta di chi lo detiene. La prima richiesta della Buonacosa – «un sussidio di vestiario» – è un’accusa al regime, chiamato al rispetto di vaghi «principi umanitari» professati in nome della inesistente «civiltà fascista»: se non ha i «mezzi più modesti» per «provvedere al suo fabbisogno indispensabile», è colpa dei fascisti che l’hanno costretta a lasciare la Francia senza le sue risorse personali. Valutata l’entità del danno, Emilia insiste: tocca al Ministero ritrovare le sue valigie perse nel carcere tedesco; quanto all’infortunio, ignorato dalla Commissione, sono i suoi carcerieri a dover rimediare, pagandole la parrucca ormai rotta.
Dietro la sfida ci sono la sofferenza e il bisogno di cure. Potrebbero trasferirla vicino ai suoi che la curerebbero, suggerisce la confinata, o condurla a Napoli per una parrucca nuova. Se non si vuole, dovrà «abitare da sola, perché è umanamente impossibile vivere insieme ad altre donne». In un primo momento il Ministero tace e non ascolta nemmeno il prefetto di Littoria, favorevole al viaggio a Napoli; invano il medico della colonia, consapevole della sofferenza di Emilia, scrive che lo «stato psicoastenico a sfondo depressivo, nell’ambiente in comune con altri confinati, peggiora fino allo scoramento» e può «sfociare in mania suicida». Emilia è stremata, ma quando il regime le nega il trasferimento, torna sul bagaglio smarrito. Non ne ha notizie, «nonostante le promesse di interessamento» ed è inaccettabile, «perché le due valigie […] contenevano tutto il mio corredo che mi è costato anni di lavoro». E al Ministero che tace, ricorda: «vivo in penosissime condizioni».
Quando da Roma chiedono di conoscere il costo della parrucca, che il prefetto di Littoria però non conosce, si decide finalmente di condurla a Napoli, ma la scorta non c’è. Per otto mesi, tormentata dal timore del «ridicolo per le deprecabili condizioni della parrucca» e «dai dolori fisici alla testa», la Buonacosa resiste e frequenta gli «anarchici più pericolosi della colonia»; il calvario termina il 10 agosto 1941, quando la donna parte per Napoli e torna il 19 con una parrucca nuova. Il 10 gennaio 1942 e il 5 febbraio 1943, il Ministero le invia un sussidio di 150 lire e le consente di scrivere al Corradi, che, pur di aiutarla, a Parigi ha svenduto parte dei suoi mobili; la Buonacosa risponde criticando l’economia fascista e le condizioni di cambio con la moneta francese così sfavorevoli, da scoraggiare ulteriori vendite. Meglio conservare e custodire, scrive al Ministero, altrimenti, terminato il periodo di confino, «mi troverei senza casa e senza possibilità di formarmene un’altra».
E’ il momento in cui il regime, deciso a demolire la resistenza della donna, prende a colpire dove i nervi sono scoperti e il dolore più vivo. Ora la guerra si sente anche sull’isola. Costretta a bere acqua di mare bollita e a mangiare foglie di fichidindia cotte, l’unica pianta che cresce abbondante, la Buonacosa peggiora e l’alterazione causata dall’infortunio al suo sistema nervoso le procura vertigini e improvvisi oscuramenti della vista. Per curare la confinata, il medico prescrive farmaci e vitto speciale, ma il direttore, Marcello Guida, ritarda l’invio delle richieste Roma. Fascista accanito, sa che il Ministero intende punire la donna e più la vede soffrire, più esercita crudelmente il suo potere. Il rifiuto più doloroso per la confinata giunge quando i genitori, l’anziana madre anzitutto, chiedono di poterla rivedere e la Buonacosa implora il duce: «La loro devozione per il Regime li raccomanda. Voi non vorrete negare una consolazione». Mussolini rifiuta, come aveva fatto tempo prima quando Emilia gli aveva scritto che la madre poteva all’improvviso mancare e «sarebbe troppo grande dolore per me e per lei, qualora non ci fosse dato di vederci almeno una volta ancora». Un rifiuto opposto dal duce alla madre, che il 29 aprile 1942 gli confida «il timore e la pena che non danno pace» per il figlio «combattente, che non scrive dal mese di novembre». Forse, prosegue la donna, «non avrò molto da vivere, perciò vorrei vedere la mia cara figlia adottiva che non ho potuto abbracciare da 16 anni».
Alla clemenza, che temono sia letta come debolezza o ammissione di colpa, spesso i tiranni preferiscono nuove crudeltà e il senso di umanità cede il passo alla ferocia. Disumana è la risposta di Mussolini: la «domanda per ottenere una breve licenza a favore della Buonacosa Emilia non è stata accolta». La confinata sopporta anche questo dolore e va avanti. Di lì a poco, invece, Guida, che sente morire il regime, abbandona la nave che affonda. Passi felpati, ma chiari: i diritti non più legati alla sottomissione faranno dell’aguzzino un «esecutore d’ordini». Il braccio di ferro con Emilia ormai non ha senso e quando Roma decide di liberare i «politici» meno «pericolosi», Guida inserisce la Buonacosa in un elenco di 140 confinati e il 27 giungo 1943 appoggia la proposta di commutare in ammonizione la pena della donna che, a suo dire, ora «vive appartata dai gruppi politici». In realtà, Emilia è stata appena testimone alle nozze di Bice Mastrogiacomo col comunista Renato Olivieri e gode della stima delle compagne.
La notizia dell’arresto di Mussolini giunge a Ventotene il 26 luglio e gli antifascisti, formato un comitato, aprono subito trattative col direttore, che tolto il distintivo fascista dalla giacca e il quadro del duce dall’ufficio, insolitamente cortese accetta le condizioni poste dai confinati. Mentre Badoglio incalzato dai partiti risorti, libera i prigionieri politici, ma «dimentica» gli anarchici, a Ventotene Emilia protesta vivacemente e in nome delle «mutate condizioni politiche» chiede la liberazione. Il 23 agosto 1943, quando lascia l’isola, crede di tornare a casa. L’attendono invece Formia bombardata coi cadaveri tra le macerie e il campo di Fraschette d’Alatri, con migliaia di internati, per lo più donne e bambini.
La Buonacosa, che ha tenuto testa a Guida, è un riferimento per le slave giunte con lei da Ventotene e a loro nome, a nome di compagne ammalate e bisognose di cure, presenta a Badoglio, vecchio fascista chiamato a garantire la continuità dello Stato, un titolo che impone rispetto: la strenua lotta al fascismo: «Noi tutte protestiamo energicamente contro questo trattamento e chiediamo la nostra immediata liberazione come confinate ed internate politiche». Umberto Ricci, però, senatore, ex prefetto mussoliniano e ministro dell’Interno di un governo pronto alla fuga di fronte ai nazisti, diffida dei «rossi» e prende tempo. Invano il 31 agosto il direttore del campo di Fraschette chiede disposizioni per la confinata politica Emilia Buonacosa, giunta al campo il 24 agosto. L’ordine di liberare la donna, che per il direttore del campo è ancora una «politica», parte da Roma il 7 settembre, mentre il governo prepara la fuga e giunge al campo il 4 novembre, quando gli eventi bellici impediscono che Emilia raggiunga Pagani.
Tornata a casa il 7 agosto del 1944, la donna abbandona lentamente la militanza attiva e il sipario sembra infine calare sulla sua vicenda politica. Se alla vigilia della Liberazione, Nenni le scrive con familiarità e promette di incontrarla a Nocera, poco dopo, però, quando chiede il passaporto per  un viaggio a Parigi, il prefetto di Salerno, fermo al ventennio, scrive a Romita, socialista e ministro dell’Interno, che Emilia Buonacosa, «pericolosa alla sicurezza pubblica e agli ordinamenti dello Stato», confinata a Ventotene, si «allontanò a seguito della liberazione di detta isola da parte delle truppe alleate» e conclude con una frase terribile: «in atto, serba buona condotta in genere e non dà luogo a rilievi».
Per le autorità, quindi, Emilia, che non mai è stata liberata, è una «fuggiasca» sorvegliata. La melma in cui il prefetto rimesta per il momento non può sfiorare la «vedova Ustori», che parte per Parigi, rivede i compagni e la tomba del marito e poi torna a casa. Su quel fango, però, poggia in parte l’Italia nuova, che in anni di lotte e sacrifici migliaia di «sovversivi» hanno provato a costruire. Un fango destinato ad aumentare, se nel 1959, con Tambroni al Tesoro e Segni Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, il fascicolo di Emilia «vive» ancora. E’ il Tesoro che, per decidere sull’eventuale diritto alla pensione assegnata infine ai perseguitati politici, chiede agli uomini di Segni notizie su quanto dichiara la donna. Nella domanda Emilia ha ricordato tutto: l’espatrio, l’arresto e il confino, ma gli uffici di Segni copiano note fasciste e tutto diventa chiaro: nella vita di Emilia, come nel suo fascicolo, incredibilmente «vivo», il «passato non passa», l’antifascismo minaccia le Istituzioni e l’anarchica è ancora una «sovversiva».
La nota si ferma lì, ma tra le sue righe si legge ancora la capacità di «azioni delittuose» e l’ex confinata è in fondo la «donna di facili costumi» che «convisse per circa tre anni more uxorio con un tipo politicamente pericoloso». E’ un rapporto che conduce difilato al 12 dicembre 1969, a Piazza Fontana, agli anarchici di nuovo in manette, a Valpreda, a Pinelli, staffetta partigiana e antifascista come Emilia, al fango del ventennio che sale, mentre i morti di Milano aprono quella che Zavoli chiamò «notte della repubblica». La notte in cui, incredula, guardando la televisione, Emilia riconosce Marcello Guida, carceriere di Ventotene, fantasma d’un passato che pensava chiuso. E’ lui, Marcello Guida,  il questore di Milano, che indaga sull’attentato e colpisce ancora gli antifascisti.
Emilia se ne va il 12 dicembre 1976, ancora e sempre «pericolosa» per  istituzioni in cui si muove libero Marcello Guida, protetto da «omissis» e segreti di uno Stato di cui è ad un tempo simbolo di continuità e naturale nemico.


[1] La storia di Emilia Buonacosa è stata ricostruita grazie ai documenti conservati nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, fondo Confino b. 164, f. «Buonacosa Emilia», e fondo Casellario Politico Centrale, b. 2422, f. «Giordano Federico (già Ustori Federico)». Utile è stato anche il lavoro di Annunziata Gargano, Resistenze. Esperimenti di microstoria attraverso tre biografie, Edizioni dell’Ippogrifo, Sarno, 2012. 
[2] L’8 luglio 1904 Orlando fissò l’obbligo all’età di 12 anni.
[3] Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano, 1982, p. 115. Nel 1902 la legge Carcano impose per le minorenni atto di assunzione, libretto, certificato medico e un orario di lavoro che non superasse le 12 ore.
[4] Per la morte di Ustori, F. Ustori, “La Lotta Anarchica”, cit.

[5] La Buonacosa è più attiva del Corradi, un comunista dissidente che non svolge attività politica. Del Corradi esiste un fascicolo nel Casellario Politico Centrale b. 1480, f. “Corradi Pietro”.

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download (1)Nella nostra storia ci sono anche le foibe, vicenda minore di scarso significato, che ha radici nella «grande guerra», tragedia ben più grave, in cui su seicentomila «caduti», centomila li fecero la fame e il governo, che li lasciò al loro destino, prigionieri di Germania e Austria che non potevano alimentarli. Perché? Solo perché la resa fu ritenuta diserzione. Giovanna Procacci lo ha dimostrato documenti alla mano ed è strano che il Parlamento non li ricordi e «dimentichi» i prigionieri dei tedeschi, lasciati morire di stenti a migliaia, complice Salò, perché non aderirono alla Repubblica Sociale.
Radici lontane, quindi, nate dalla rottura del fronte interventista, quando i fascisti appiopparono a Bissolati il titolo di «croato onorario» e Salvemini divenne «Slavemini». Ciò che facemmo agli slavi fu vera barbarie. Si dirà che la violenza fascista non assolve la reazione, ed è vero, però la spiega ed è questo il compito della storia. Ciò che non si spiega, invece, è la speculazione politica che usa la memoria storica delle foibe per rovesciarne il senso, processare l’antifascismo e fare dei capi della Resistenza i protagonisti di una «congiura del silenzio» in un Paese in cui altri e ben più gravi e reali silenzi pesano sulla coscienza collettiva.
Per anni Gasparri e i suoi camerati hanno chiesto alla sinistra di dire fino in fondo la verità sulla nostra storia, ma non hanno mai incluso tra le verità da svelare le bombe di Piazza Fontana, Brescia, Bologna e quelle esplose nei treni e nelle piazze funestate dai neofascisti. Verità e silenzio sono temi obbligati quando si parla di foibe, ma non è chiaro chi avrebbe taciuto. A sinistra c’è una tradizione critica del comunismo che va da Malatesta a Salvemini, ma si finge d’ignorarlo. Galli Della Loggia e Giuliano Ferrara strepitano per i presunti silenzi, ma stanno zitti sul fatto che per decenni la grande stampa, tutta borghese e figlia del capitale, non diede spazio a chi aveva in tasca tessere rosse e solo di rado chi era di sinistra vinceva concorsi nella scuola, negli archivi e nelle biblioteche. Chi avrebbe taciuto, quindi, se l’editoria era in mano a borghesi, se Laterza era dominio di Croce e la Feltrinelli non era nata? Einaudi, da solo, fu il silenzio d’Italia?
Tacquero i politici. E quali? Quelli dell’area “atlantica” sì, perché vedevano di buon occhio il Tito antistalinista. Per la sinistra di classe, ministro degli esteri nel Governi Parri e poi in quello De Gasperi, fu Pietro Nenni, ex interventista, che sentì con forza il problema dei confini orientali e si batté per impedire che l’Italia subisse gli accordi di Malta tra Roosevelt e Churchill del febbraio del ’45, poi formalizzati da una proposta francese per la creazione di un territorio libero di Trieste. Nenni peregrinò per le cancellerie europee – Oslo, Amsterdam, Londra, Parigi – ma ottenne solo impegni generici. Fu lucido, chiese trattative dirette con la Jugoslavia e capì che dalla soluzione della questione non dipendevano solo i rapporti con Tito, ma anche la possibilità di autonomia da Mosca e dagli Occidentali. Quando si rese conto che il confine non sarebbe mai passato per la linea etnica, chiese che il territorio libero di Trieste comprendesse Parenzo e Pola e che i punti più delicati fossero risolti da referendum. Fu Nenni, ancora lui, per la sinistra, che, firmata la pace nel febbraio 1947, domandò a De Gasperi di attendere che l’Urss approvasse il trattato prima di chiederne la ratifica al Parlamento. Eravamo, però, un Paese vinto e il contesto internazionale non ammetteva scelte. Anche a Tito, che chiese infine trattative bilaterali, si oppose un rifiuto. Il piano Marshall, la crisi di governo voluta da De Gasperi e la guerra fredda chiusero la partita.
Verità e silenzio. Ma chi avrebbe taciuto e cosa? Gli storici di sinistra? Cortesi, Arfè, che non furono certo teneri con Togliatti, per non dire di Merli e Bosio, avevano davanti milioni e milioni di morti e l’immane catastrofe che fu la seconda guerra mondiale. Era impensabile cominciare a scrivere di storia, partendo dalla classifica degli orrori; l’orrore era stato tema dominante della guerra: Coventry, Dresda, le città fucilate, le fosse di Katin, i lager, la Shoa, Hiroshima, Nagasaki Nessuno volle fare elenchi – e le foibe sarebbero comunque sparite nel mare di sangue causato dai nazifascisti. A tutti sembrò più serio e urgente ricostruire la storia stravolta dalla lettura fascista. E non a caso si partì da studiosi che non provenivano dall’accademia, compromessa col regime – la scuola di Croce, Salvemini, archivisti come Arfé – e si tornò a maestri come Gramsci, Gobetti e Rosselli. Per gli orrori bastava la nausea. Intanto occorreva capire com’era stato possibile cadere nell’abisso e conoscere l’Italia dei partiti, del movimento operaio, dell’antifascismo e della Resistenza. Nessun silenzio voluto.
La storiografia però è revisione continua e c’è sempre chi torna a Cesare e alla Repubblica romana. Il bisogno di approfondire e rivedere il quadro complessivo, tuttavia, incappò nel berlusconismo e nella crisi politica divenne propaganda. C’erano mille verità non dette cui sarebbe stato necessario dar rilievo: i gas sugli etiopi, i massacri libici, l’ignominia jugoslava e buon ultime quelle foibe, su cui le destre battono per presentare conti a croati e sloveni – senza badare a quelli ben più salati che loro potrebbero presentarci – e riesumare un anticomunismo grottesco, anacronistico, postumo, col metodo Goebbles: ingigantire i fatti e insistere sulla menzogna, perché diventi verità.
Come si è giunti all’uso politico di una vicenda storica secondaria? Ha ragione Gianpasquale Santomassimo: per un secolo la politica ha cercato legittimazione nella storia, vantando radici nel passato. Mussolini creò il mito della romanità, la sinistra, a giusta ragione, rivendicò le lotte del movimento operaio e l’antifascismo. Poi sono venuti l’89, il crollo del socialismo reale e il ’92 con Tangentopoli; a qualcuno il passato è parso ingombrante e il processo s’è capovolto. Ora nessuno cerca legittimità nella storia, perché essa è vergogna, lutto, dolore, violenza e c’è bisogno del «nuovo» che processi la storia e la separi dalla politica. I fascisti non sono più mussoliniani, il Pci si è autosciolto e i cattolici non sono più democristiani. Per non essere invischiati nel passato, i partiti prima hanno cercato casa al mercato ortofrutticolo, con largo spreco di rose nel pugno, garofani, ulivi e margherite – poi hanno preso nome dai leader e, infine, dopo la «Cosa», partito dei «senza storia» ecco quello “Nazionale” di Renzi. Su tutto si leva, comoda, la categoria del totalitarismo, che esalta le affinità a danno della differenze, come comanda il pensiero unico. Orwell aveva ragione: chi controlla il passato governa il futuro e chi controlla il presente gestisce il passato. Quello che conta è avere in mano il giorno che vivi.
Questo però non è fare storia.

Uscito su FuoriregistroAgoravox il 10 febbraio 2015

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Auguri non ne faccio. Questa Pasqua è segnata a lutto. Il codice Rocco fa strage di dissidenti e c’è chi sconta 14 anni di carcere per aver danneggiato un bancomat. Tanto consente ai giudici della GL-settimanale-gramsci-morto1Repubblica nata dalla Resistenza il codice del fascista Rocco e nessuno pensa di metterlo al bando, mentre un governo senza mandato elettorale e un Parlamento nominato con una legge elettorale illegale stravolgono la Costituzione, pensano di sospendere il diritto di sciopero, difendono forze dell’ordine che a Roma si sono comportate come milizia privata del capitalismo e minacciano chi dissente: “proibiremo le manifestazioni nel centro storico di Roma”.
Auguri non ne faccio, ma voglio ricordare a chi ha memoria corta un uomo come Fernando De Rosa, che oggi sarebbe un “terrorista”. Pochi sanno di chi parlo, ma il 25 aprile, piaccia o no, è anche la sua festa. Come tanti giovani del suo tempo, Fernando De Rosa era stato fascista, ma presto rifiutò lo squadrismo. Da studente incontrò uomini del valore di Garosci, Paietta e Geymonat, frequentò la casa di Gobetti, morto in seguito alle percosse dei fascisti, passò ai gruppi clandestini e tenne i contatti con gli esponenti dell’antifascismo rifugiato all’estero. Presto il regime di Mussolini prese a temerlo e a perseguitarlo. La polizia, infatti, che lo riteneva “giovane ardito, dotato di fascino personale, colto ma privo di scrupoli, orgogliosissimo, pronto ad ogni atto e vero avventuriero”, lo segnalava come uno dei capi del comitato della Concentrazione antifascista di Torino. Quando il fascismo gli rese la vita impossibile e capì che sarebbe finito in carcere, come accade ogni giorno ormai ai nostri giovani, espatriò in Francia.
A Parigi fece sue le critiche di Nenni e Pertini alla Concentrazione antifascista, che aveva rinunciato ad agire in Italia e alle parole fece seguire i fatti: rimpatriò, girò clandestinamente il Paese e provò a capire quale fosse la reale situazione politica. Incontrò in varie città studenti, operai e intellettuali e si convinse che ormai, contro la rassegnazione, occorreva un gesto clamoroso che riportasse al centro della pubblica opinione nazionale ed estera il problema della dittatura. Fu Rosselli ad accompagnarlo al treno che lo condusse a Bruxelles, dove il 24 ottobre 1929, in nome di Matteotti e dell’Italia libera, sparò al principe ereditario Umberto di Savoia, giunto in Belgio in visita ufficiale. L’attentato fallì, incontrò critiche e perplessità dei gruppi antifascisti e fu condannato dai comunisti e da alcuni socialisti, soprattutto perché temevano le reazioni del regime.
Al processo si giunse nel settembre de 1930, ma sul banco degli imputati, di fatto, salì il regime fascista. De Rosa fu difeso dal Paul Henri Spaak, noto esponente della socialdemocrazia, e in suo favore testimoniarono e personalità tra le più note del campo antifascista come Marion Rosselli, Filippo Turati, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti. De Rosa non esitò a rivendicare con fierezza il suo gesto, affermando di aver “voluto uccidere il principe ereditario di una casa regnante che aveva ucciso la libertà di una grande nazione”. I giudici del Tribunale belga – è qui la prima grande lezione che ci viene dal passato – diedero al mondo un esempio di grande civiltà giuridica riconoscendo al De Rosa ogni possibile attenuante. La legge non consentiva di considerarlo parte lesa, ma la condanna a cinque anni, di cui solo tre scontati, è ancora oggi un esempio ignorato da quei giudici che qui da noi non provano ribrezzo nel ricorrere ai reati previsti dal codice Rocco per infliggere decine di anni di carcere a un giovane che rompe un bancomat. I nostri giudici oggi avrebbero giudicato De Rosa con leggi terroristiche, pretendendo prove di pentimento e delazioni e l’avrebbero sepolto vivo in un “carcere di massima sicurezza”. Nel Belgio antifascista il giovane uscì invece dalla prigione nel 1932 e imboccò deciso la sua strada.
Quando i socialisti rifiutarono la sua proposta di istruire militarmente i giovani per contrastare il fascismo, se ne andò nelle Asturie, dove appoggiò gli scioperi del 1934 e fu perciò arrestato. I giudici spagnoli lo condannarono a diciannove anni di galera, ma ben presto, con la vittoria del Fronte Popolare, tornò libero e fu accolto dall’entusiasmo dei lavoratori ai quali mostrato coi fatti cosa significhi amore di libertà e lotta per i diritti delle classi lavoratrici. Nella Spagna rivoluzionaria organizzò militarmente i giovani socialisti e ottenne che si unissero ai comunisti in quella “Gioventù socialista unificata” da chi nacque il battaglione “Octobre n. 11”. Alla sua testa De Rosa lottò a Madrid contro i falangisti in difesa della Repubblica aggredita dai franchisti e dai nazifascisti e morì combattendo valorosamente. Cadde nella Sierra Guadarrama e fu salutato dai rivoluzionari e dagli antifascisti madrileni in una manifestazione di popolo che diede al suo sacrificio il valore di un esempio politico e di un prezioso testamento morale. Il seme era gettato, come tanti altri in quegli anni dolorosi, e le piante germogliarono rapidamente, sicché dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, tanti giovani presero le armi e combatterono fino alla sollevazione generale del 25 aprile 1945 che schiacciò il fascismo.
In questa Pasqua che cade a ridosso di un anniversario della Liberazione mai così buio, mentre le istituzioni repubblicane sono aggredite, la Costituzione è stravolta e i lavoratori privati dei loro diritti, non ci sono auguri da scambiarsi. Per quanto mi riguarda, ricordo ai giovani un loro coetaneo di un tempo che non è lontano come pare e credo sia giunta l’ora di riflettere sugli esempi che ci vengono dal passato, per cominciare a pensare al futuro. La Spagna ieri, come l’Ucraina consegnata oggi ai neonazisti, la Grecia ridotta in servitù, i blindati e le cariche violentissime di Roma riportano in vita uomini come Fernando De Rosa e indicano la via già imboccata da Nenni, Pertini, Longo, Parri e Rosselli: quella di uomini che non si piegarono. Per male che possa fare, serenamente va detto: non è più tempo di parole e non sono giorni in cui scambiarsi auguri. Si può solo ripetere con Rosselli, quello che non è un augurio, ma una certezza senza retorica che ha radici profonde nella storia: “non vinceremo in un giorno, ma vinceremo”.

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Pietro Raimondi operaio ucciso a Napoli durante la Settimana RossaProbabilmente è vero: la storia è l’apologia dei vincitori. Non a caso Edward Carr, replicando ai sacerdoti della “histoire événementielle” e alla pretesa oggettività del fatto, provocatoriamente scrive che è lo studioso a decidere quali sono gli eventi “storici”, sicché la storiografia spesso si fa specchio deformante, restituendo l’immagine che il potere dà di se stesso. Non meraviglia perciò se nell’immaginario collettivo l’amor patrio è la foglia di fico del nazionalismo, il feroce cozzo tra imperialismi diventa l’eroismo del fante nella “grande guerra” e dietro l’ipocrisia dell’ordine pubblico si cela di norma la violenza assassina della sbirraglia. Se si eccettuano i leader, la storia diventa così cronaca di fatti in cui scompare l’uomo. Tra qualche mese ricorre il centesimo anniversario della Settimana Rossa, l’ultima, grande lotta dei lavoratori per l’unità internazionale di classe contro il militarismo e l’imperialismo, prima che la bufera della guerra aprisse la via alla crisi dell’Italia liberale e all’avventura fascista. Di quei giorni eroici, di quella umanità palpitante, del sangue versato invano, poco o nulla si sa e si è detto e spesso si l’accento è caduto sulla “rozzezza” degli immancabili anarco-insurrezionisti. Dopo la Resistenza, la storiografia marxista dimostrò a Croce e a i crociani che esiste un “ethos” politico delle classi subalterne che nobilita la storia del movimento operaio. Oggi, in un clima di dilagante revisionismo, quell’ethos si perde in una sorta di limbo e alla memoria delle lotte di fabbrica si sostituisce l’erudita curiosità dell’archeologia industriale. Eppure gli archivi custodiscono tesori inesplorati.

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Quando la ritrovai, chiusa in una busta ingiallita, la foto di Pietro Raimondi, sedici anni, operaio alle “Cotoniere Meridionali” a Poggioreale, incupì per un attimo la mia piccola vittoria personale di studioso alle prese con la fatica d’una ricerca puntigliosamente condotta fuori dagli schemi prefissati sui quali ricostruiamo la storia.
La Settimana Rossa a Napoli – narravano la foto e le note di polizia che l’accompagnavano – non fu sommossa di lazzaroni, ma lotta operaia. Era come se il palcoscenico della storia mutasse la scena e i protagonisti. Per incanto, spariva dalla ribalta la città plebea quasi per vocazione, prigioniera dell’eterno malcostume, del ricatto clientelare, e di una ideologia subalterna che fa di tutte le classi un popolo indifferenziato nel quale si perdono nuclei sparuti di proletari smarriti e inevitabilmente sconfitti dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione.
La mostrai all’archivista, come un trofeo:
Ha visto? – esclamai – Altro che furti e rapine, come lei sosteneva. Queste carte sono preziose!
Ero eccitato, come sempre quando la scrigno della storia si lascia violare e dal mio presente appare l’umanità che palpita sull’incerto confine del tempo, dove il futuro è ormai passato e non c’è passato che non sia stato futuro. L’umanità, sempre uguale a se stessa ma ogni volta diversa, che chiede solo di capire, raccontare e farsi raccontare.
Era lì davanti a me, in quei fascicoli scovati col fiuto dei cani, la Settimana Rossa che tra il 9 e il 12 giugno 1914 insanguinò le vie di Napoli e smentì lo stereotipo del “popolo lazzarone”, che tanto sta a cuore ai padroni del vapore, sempre più compromessi col dramma del Sud. Una città in cui, se la storia la scrivono studiosi attenti anzitutto alle variabili dello sviluppo capitalistico, i ceti operai non hanno rilievo nemmeno quando scoprono il sindacato e il partito politico, e se a mettervi mano sono studiosi meccanicamente marxisti, i lavoratori finiscono su bilance da farmacisti, che pesano diversità tra operai e proletari di fabbrica e valutano solo la capacità di esprimere istanze radicali di antitesi al “sistema”. Ne nasce una città in cui accadono fatti ma non ci sono persone.
La foto tirata fuori dalla vecchia busta conduceva agli uomini, che la storia la “fanno”, ma mille volte spariscono dalle nostre paludate ricostruzioni. Magnetica e angosciante, essa riportava alla luce il volto giovanissimo di un operaio disteso in una povera bara scoperchiata, bruno, i capelli neri e folti sull’arco degli occhi socchiusi, come sorpresi nel sonno da un lampo improvviso, un’ecchimosi sul viso e un rivolo di sangue rappreso che scendeva fino al mento dall’angolo della bocca. Dietro la foto, un mondo, un evento tragico e allo stesso tempo epico, Napoli operai nel giugno 1914 con le tabacchine in sciopero, gli anarchici in fermento, le elezioni alle porte e i lavoratori insorti contro l’ennesimo eccidio proletario: ad Ancona stavolta, per mettere a tacere Malatesta e Nenni.
Avevo davanti uno dei lavoratori insorti contro un militarismo cupo, pronto ad esplodere nell’atroce carnaio che gli storici chiameranno Grande Guerra: fiumi di sangue nelle trincee del Carso, ripetuti massacri sull’Isonzo, feroci decimazioni di soldati ribelli o terrorizzati, anarchici e socialisti mandati al macello dove il rischio era più grave. Dietro la foto, la repressione violentissima della protesta, che l’11 giugno del 1914 un lampo al magnesio fissò sul volto del ragazzo ucciso in Vico Croce Sant’Agostino alla Zecca dal fuoco aperto senza preavviso dalla truppa, poco più in là di Vico Spicoli, dove un altro lavoratori sedicenne era stato freddato dai bersaglieri che gli spararono alle spalle. La repressione di uno sciopero legalmente dichiarato – denunciò un manifesto – contro uno “Stato fucilatore e tiranno”. Il giorno prima, carabinieri a cavallo lanciati alla carica, avevano già ucciso un operaio dell’Ilva e artiglieri posti a guardia della ferrovia avevano abbattuto a fucilate un carbonaio.
Emergeva, da quella foto, il momento dello scontro decisivo tra lavoratori e borghesia nazionalista, alla vigilia d’un conflitto – una nuova guerra dei trent’anni – che spianerà la via alla furia fascista e alla ferocia nazista. Uno scontro disperato, con la cavalleria che bivacca in piazza, la squadra navale che punta sul porto, “macchine avanti tutta”, e truppe da sbarco in coperta, pronte a intervenire in una città in cui gli anarchici con le loro bandiere rosse e nere portano in giro i caduti incitando alla rivolta. Una città in cui molte fabbriche scioperano e ovunque la truppa mette mano alle armi, lascia sul terreno quattro morti e centinaia di feriti e riempie gli ospedali e le carceri di lavoratori, mentre nazionalisti e “galantuomini” organizzano la caccia all’uomo. E’ lo scontro di classe, il muro contro muro che la borghesia ha cercato dopo aver liquidato Giolitti e la sua odiata mediazione.
Giugno da allora è tornato tante volte e ormai viviamo un tempo senza storia. Non ricordiamo più, non cerchiamo e troviamo segni della disperata resistenza: non un marmo che rammenti caduti, non un cippo, un necrologio, un’epigrafe che opponga la verità dei vinti a quella dei vincitori. “Caduti per la patria”, mentono in mille piazze gli eterni guerrafondai, sotto i nomi dei lavoratori poi caduti in guerra. Traditi dalla patria dovrebbe replicare un popolo che non ha memoria, identità e radici.
Dietro la foto – la storia parla ancora, benché l’indifferenza ammutolisca i fatti – c’è il dolore d’una madre. Maria Isaia, operaia delle Cotoniere, come lo sventurato ragazzo, che nei giorni atroci dello scontro smarrì le tracce del figlio e lo rivide quando le mostrarono il ritratto che ora è custodito in archivio; Pietro, col torace aperto da un colpo che gli aveva spaccato il cuore, era stato nascosto al cimitero ebraico del Trivio; vedendolo, temeva la questura, la città di Bakunin, Merlino, Malatesta e Bordiga si sarebbe di nuovo sollevata.
Il bagliore dell’incendio s’era spento, la partita era persa. Per Maria Isaia, che non andò mai più a lavorare in fabbrica col suo Pietro, la guerra era già iniziata e del figlio, soldato caduto, rimaneva la foto scattata all’obitorio. La foto che, disperata, chiese invano al questore, con parole sgrammaticate e straziate che la pignola burocrazia ci ha conservato:

ll’ustrissimo Sig. Questore.
La sottoscritta Maria Isaia madre desolata del disgraziato figlio pietro Raimondi di Francesco; trovato ucciso a S’Agostino alla zecca domanda all’illustre Sig. Questore se ci vuole dare la fotografia come memoria della detta desolata madre unico figlio di buona condotta giovanotto a 16 anni non compiuti. Era operaio al Cottonificio al macello ed ora trova al Camposanto ucciso a sbaglio uscì e non ritornò più. Sperando che la signoria sua si accorderà questa grazia i morto abbitava in via Parma n° 99 al vasto. Napoli 18 giugno 1914.
Maria Isaia
“.

Di tutto questo non c’è più memoria e Claudio Pavone, storico insigne, ha potuto tranquillamente scrivere – e non è vero – che Napoli, città di plebe, ha dovuto attendere gli scugnizzi delle Quattro Giornate perché una volta almeno, ragazzi cresciuti troppo presto, andassero a morire dalla parte giusta. Quella parte in cui – fa male dirlo – è raro trovare gli “studiosi dei fatti”, che troppo spesso dimenticano la gente, senza la quale i fatti non hanno vita o interesse. Ma qui conviene fermarsi. Questa è un’altra storia.
Quando la ritrovai, chiusa in una busta ingiallita, la foto di Pietro Raimondi, sedici anni, operaio alle Cotoniere a Poggioreale, incupì per un attimo la mia piccola vittoria personale di studioso alle prese con la fatica d’una ricerca puntigliosamente condotta fuori dagli schemi prefissati sui quali tessiamo la storia. La Settimana Rossa a Napoli – narravano la foto e le note di polizia che la seguivano – fu lotta di lavoratori, non sommossa plebea in una città sanfedista quasi per vocazione.

Uscito su Fuoriregistro l’11 giugno 2005, su Report on Line l’8 luglio 2013 e su Liberazione il 22 luglio 2013.

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Intervistato nel 1971, Nenni non ebbe dubbi: “Ho vi­sto crescere sotto i miei occhi ben tre generazioni, […] ora mi accingo a vedere quella dei miei pronipoti. Guardandoli penso: non so­no stati inutili questi decenni di lotta, oggi si sta tanto meglio di quanto si stesse ai tempi miei. Sì: la vita è infinitamente meno dura, oggi. Non c’è paragone col mondo in cui erano na­ti mio padre e mio nonno”.
La citazione è lunga, ma il sottosegretario Paolillo onnipresente ospite televisivo, pronto a metter mano allo Statuto dei Lavoratori, la merita; di socialisti straparla, ma pare ignorare ciò che pensava Nenni e quanto presto si capì che squilibri gravi e costosi si facevano strada, con il carico doloroso di nuove marginalità, nuovi stenti e un capitalismo animato dalle peggiori scelte ideologiche.
In termini assoluti il miglioramento c’era stato, lo coglievano gli anziani se ricordavano l’alimentazione da fame, di classe, uniforme e malaticcia del Sud e di rare terre del Nord; per il resto, era chiaro che sviluppo e spostamento nelle città creavano bisogni nuovi e non me­no immediati: la casa, anzitutto, poi i beni di consumo legati all’urbanizzazione e alla produzione come elettrodomestici, automobile e televisore. All’alba degli anni Settanta, De Rita, con una sintesi felice, spiegò che la domanda di beni sociali riconduceva a “bisogni collettivi”: casa, servizi, trasporti. In poche parole, diritti e democrazia. Quando si dice che vivevamo al di sopra delle nostre possibilità è questo che si pone in discussione: diritti e democrazia. Una filosofia della storia e una storia di lotte, di costi e di sacrifici. Tutti a carico dei lavoratori, tutti contro una ottusa e statica modalità di intervento, che oggi trova il contraltare nella “dinamica” e disumana flessibilità. Sono i limiti del “miracolo economico”, non il tenore alto di vita dei lavoratori, il punto di frattura sociale ed economico da cui partire per capire la crisi e le soluzioni da ricercare. Le voci critiche – un economista non può ignorarlo – si fecero sentire, ma ebbero contro tragiche buffonate, come il governo Tambroni e il goffo tentativo di un gollismo tutto tecnocrazia autoritaria e potere di notabili, cui seguirono minacce di golpe del peggior capitalismo d’Occidente. Atterrita dall’autunno caldo e dall’esplosione della contestazione, la reazione puntò sin da allora alla creazione di un esercito di riserva. E’ in quegli anni – e a partire da quegli anni – che si discute di “età opulenta”, da quando il “miracolo economico” ci ha condotti a fare i conti con gli “occupati precari”. L’economia che non sa di storia e sociologia del lavoro può chinarsi alla bibbia liberista, ma non siamo nati ieri: Scalfari, disegnando una mappa del potere in Italia, nel settembre del ‘69 scriveva già di un Autunno del­la Repubblica. Preti parlò di Italia malata  nel ‘72, e La Caporetto economica di La Malfa risale al ‘74, quando Rosario Romeo parlava da tempo di “soluzione dei problemi del paese in chiave di riformismo demo­cratico nel quadro di una società libera […] con carattere alternativo […] al mero immobilismo conservatore”.
Il fantasma di un incompiuto “sviluppo europeo”, di una fragilità economica mai superata, di una moderniz­zazione insidiata dalla re­cessione non lo scopriamo ora. Sylos Labini nel ’75 fu chiarissimo: un terzo della popolazione era povero, ma gli facevano da contraltare due terzi in cima alla scala sociale: uno, quello medio, faceva da scudo al ceto medio-alto con un’aliquota che si arricchiva fortemente ed era chiusa e selezionata. Era lì che si produceva e si produce debito e si immiseriscono i ceti sottostanti. La linea riformista e, quindi, lo Statuto dei lavoratori, mediava il conflitto. Bene o male, è andata così sinora. Questo governo che spalleggia la “società opulenta” non salva l’Italia. Dimezza il peso e il valore della democrazia e riproduce un’atmosfera sociale “chiusa” da anni cinquanta. Si apre così una fase di scontro sociale che è il vero salto nel buio.

Uscito sul Manifesto il 7 gennaio 2012 col titolo Lo satuto dei lavoratori e i nipotini di Nenni

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Se il silenzio può essere prigione, tutto ciò che lo rompe – parole, discorsi, libri – può servire a chiudere una cella meglio d’un catenaccio e, non di rado, più che del silenzio, siamo prigionieri del rumore suscitato ad arte da un uso strumentale della parola. D’altro canto, parole occorrono per mentire e parole servono a raccontare la verità: la guerra è una barbarie, certo, ma c’è chi la vuole santa e chi umanitaria. Se è stata partigiana, fu guerra comunista ed oggi, che regna il capitale, si dice terrorista. Sull’antifascismo non c’è chi non dica la sua: Galli Della Loggia piange la “morte della patria”, Violante saluta con rispetto la Decima Mas e, stando a Pansa, gli antifascisti furono solo banditi comunisti. Se chiedi nomi, è un coro: Longo, Nenni, Pertini, Togliatti. Gli assassini di Mussolini e i fondatori della partitocrazia. Eppure la resistenza al fascismo durò oltre vent’anni e visse nel silenzio: un silenzio che ebbe un’etica e rese carcerati i carcerieri.

Umberto Vanguardia

Nell’elenco degli iscritti alla sezione napoletana del Partito Socialista, sequestrato dalla polizia nel novembre del 1893, Umberto Vanguardia è inserito nella sparuta pattuglia degli “impiegati” [1]. In realtà è solo un ragazzo che frequenta il ginnasio. L’età è quella dei sogni e delle passioni egualitarie e Napoli, “con le sue grandi miserie materiali, brulicante di pitocchi, di scugnizzi, di camorristi e di prostitute, e con le sue grandi miserie morali, […] sorridente di sole e purulenta di piaghe” è “un invito permanente a rivoltarsi, ad insorgere, a levarsi contro tutti” [2].
Ripudiato Mazzini per lo scudo sabaudo, ridotta l’esperienza garibaldina a Bixio e ai contadini fucilati a Bronte [3], l’Italia che conta è con Crispi e non sogna, sicché è quasi fatale: il 9 agosto del 1894, Vanguardia, a meno di sedici anni, finisce in manette [4]. La storia della democrazia passa solitamente per tribunali e celle.
Nel maggio del 1898, coinvolto nei tumulti generati dal prezzo insostenibile del paneil giovane, che continua a sognare un mondo migliore, è incluso in un elenco di “sovversivi” responsabili dei moti, sicché, a soli diciannove anni, benché non esista uno straccio di prova che lo accusi, sperimenta il domicilio coatto. Evaso, si consegna a novembre, quando lo stato d’assedio è finito, e torna libero dopo una breve reclusione [5]. Fa le prime prove tra i socialisti, riunendo in lega di resistenza i camerieri di caffé e ristoranti , ma ai primi del Novecento, negli anni dell’idillio tra Giolitti e Turati, passa agli anarchici [6]. Attivo propagandista e redattore di numerosi fogli “sovversivi” [7], nell’estate del 1907 entra a far parte della redazione della “Protesta Umana” e va a vivere a Milano, da dove parte spesso per giri di propaganda contro il domicilio coatto e il militarismo. Ce n’è quanto basta perché il 22 febbraio 1908 la questura di Milano lo rispedisca “in patria” con foglio di via e con l’etichetta di “anarchico pericoloso” [8].
Tornato a Napoli, dà vita al “Sorgete”, un gruppo che si attesta sulle posizioni del “comunismo libero, sintesi sicura di quanto si chiede dall’umanità all’alba della storia: la libertà economica e la libertà politica” e attacca gli “autoritari”, che chiamano “organizzazione” ciò che, in realtà, è solo una “gerarchia che legifera e funziona in vece di tutti gli altri, oppure fa seguire, in nome della massa, una rappresentanza” [9]. E’ un rifiuto netto del “partito politico”, che, tuttavia, non esclude la partecipazione all’attività sindacale, intesa come “quell’accordo, che si forma, in base d’interessi, tra gli individui unitisi per terminare un’opera comune” [10]. Sono i temi di fondo della cultura libertaria, che animano il dibattito tra militanti ed in cui si inserisce a pieno titolo la polemica del Vanguardia contro il “Teatro di Montecitorio” che, “unico nel suo genere di produzione, desta negli animi […] un senso di nausea e di disprezzo” e limita “sfacciatamente ogni libertà, dalla riunione […] al pubblico comizio”, sicché, di sopruso in sopruso, si è giunti al “sequestro preventivo dei giornali, alla loro soppressione, all’arresto dei cittadini per delitto di pensiero, alle fucilate date alle plebi affamate che hanno avuto il torto di chiedere […] a viva voce un loro diritto” [11].
Cresciuto nel fuoco della lotta, il Vanguardia non si limita però alla “battaglia delle idee” e il 13 ottobre del 1909, mentre in città i comizi di protesta per la condanna a morte di Francisco Ferrer fanno i conti con la violenza delle cariche di polizia, rischia il linciaggio, facendo esplodere a scopo dimostrativo un petardo “nella chiesa parrocchiale di Montesanto […] e dandosi poi alla fuga rincorso dai presenti e da Guardie di Città”. Non vi sono feriti – annota il prefetto – ma la “bomba”, che “ha prodotto un po’ di sgomento e nient’altro”, costa al Vanguardia quasi un anno di carcere [12]. Una condanna che non gli impedisce di passare al gruppo dell'”Aurora Libertaria”, e di tornare all’attività sindacale [13]. L’occasione viene dall’aspra vertenza dei tessili della “Wenner” di Scafati dalla quale, però, dopo violenti scontri con la polizia, l’anarchico esce con una denuncia per lesioni e mancato omicidio ai danni d’un delegato di PS [14]. Anima dei “comitati di quartiere” sorti tra gli operai in lotta per il caro-casa, Vanguardia guadagna la fiducia dei compagni e nell’aprile del 1912 diventa segretario della “Lega dei lavoratori dell’Arte bianca”, guidandoli abilmente in una dura vertenza [15]. La guerra, che nel 1914 sconvolge l’Europa, lo vede impegnato nella propaganda antimilitarista, fino a quando la “cartolina precetto” non lo spedisce in prima linea, nel carnaio delle trincee e nell’orrore dei campi di battaglia, tra i fanti del 125° Reggimento [16]. Finita la guerra, riprende il suo posto alla Camera del Lavoro, torna alla testa della “Lega dei panettieri”, che conduce alla vittoria in una difficile vertenza, e dà vita ad un “Circolo popolare” e ad una “Lega Inquilini” che, col “pretesto di combattere le pretese esorbitanti dei proprietari di case”, tenta di “trarre profitto dal pubblico malcontento” per opporre alla marea fascista il lavoro di propaganda e l’attività sindacale [17]. Il primo maggio del 1924, quando la partita appare irrimediabilmente persa, si reca con alcuni compagni in una bettola, sale su un tavolo e canta l’Internazionale [18]. Puntuali scattano ancora una volta le manette e non fa meraviglia se il 22 novembre del 1926, solo pochi giorni dopo l’approvazione delle leggi “fascistissime”, giungano la condanna a quattro anni di confino, l’arresto e la tortura di un viaggio inumano, che lo conduce a Pantelleria, sfinito, incatenato e ammanettato ad altri confinati [19]. L’impatto con la colonia è durissimo. Separato fisicamente da qualsivoglia contatto con la realtà del Paese, sottoposto all’arbitrio delle guardie e ad un’azione di controllo che, prima ancora degli atteggiamenti concreti, tende a colpire un’astrazione – la pericolosità sociale e politica – della quale, agli occhi dei suoi aguzzini, egli rappresenta il modello, Vanguardia, pur di sottrarsi all’inferno in cui sente di precipitare, lascia che la sorella inoltri al duce una domanda di grazia che, di fatto, non ha alcuna speranza di essere accolta. Al regime e al suo “duce”, “che il mondo giustamente onora” e che gli italiani sono “orgogliosi di chiamare Salvatore”, la donna “unica e sola al mondo e derelitta, che vive solo del fratello disgraziato”, non ha nulla da offrire. Io, scrive a Mussolini, “ho solo la speranza che mio fratello alla luce del miracolo che V. E. ha operato per la salute d’Italia, si costruisca una nuova coscienza” [20]. La speranza, però, non rientra nella logica disumana della repressione; Castelli, Alto Commissario per la Provincia di Napoli “non ritiene che il Vanguardia […] abbia fatto ammenda del suo passato” ed esprime “pertanto parere contrario a che l’istanza della Vanguardia Concetta venga per ora presa in considerazione”.
Di fatto, la lettera della sorella non è ancora giunta a destinazione, e già il confinato, tornato in manette e catene, ha ripreso il mare per raggiungere la nuova sede di confino: Ustica, dove il regime prova a seppellire alcuni dei suoi più temuti avversari e dove più spietato è il regime di polizia [21].
L’isola, in cui un delinquente comune giungerà ad assassinare un “politico”, gode di una fama sinistra: vi impazza, rammenterà anni dopo Aldo Garosci, “un famoso aguzzino, brutale e neuropatico, il tenente Guasco, del quale si ricordano parecchi episodi selvaggi. Prigionieri politici e […] comuni (sfruttatori di donne, mafiosi, strozzini) convivono con le guardie in quei quattro palmi di terra […] e tutte queste circostanze, quando anche non vi fosse stata la volontà malvagia di incrudelire, delle guardie, sarebbero già bastate a rendere il soggiorno nell’isola difficile da sopportarsi per dei nervi meno che solidi” [22]. Come non bastasse, Cesare Mori, il “prefetto di ferro” inviato a Palermo da Mussolini con pieni poteri per risolvere il problema dei rapporti tra regime e mafia [23], ritiene che la colonia, in cui “sono tenuti insieme in media 360 confinati politici (tra i più pericolosi sovversivi del Regno) e 160 confinati comuni”, si possa trasformare nel “centro propulsore di un pericoloso movimento” che, avendo “rapporti clandestini col sovversivismo clandestino italiano e straniero”, riesca “di grave nocumento al Regime”. Per “accertare riservatamente” l’eventuale attività politica dei confinati “e poterla tempestivamente stroncare”, il Mori si è affidato a Vincenzo Picone, graduato della milizia, che è “andato a Ustica quale volontario di confidenze alle autorità”, ed è confinato come “politico”. Al servizio di Mori e all’insaputa del Picone, fa da provocatore un comunista confinato, Riccardo Fidel, “capace di commettere atti inconsulti e di palesare fatti o addirittura di inventarli” [24].
Pur agendo separatamente – Picone non si fida affatto di Fidel – i due convincono Alberto Memmi, centurione della Milizia, a muoversi con la massima rapidità perché, a loro dire, i confinati politici di Ustica non solo hanno tra loro oscuri contatti, ma vanno perfezionando pericolose intese con i “sovversivi” che operano in Italia e all’estero e tutto lascia credere che intendano giungere ad una rivolta che agevoli un tentativo di fuga [25]. Dopo indagini inizialmente caute, le autorità di polizia raggiungono la convinzione che i confinati ricevono “regolarmente somme per il Soccorso Rosso”, che nell’isola si appresta “un movimento insurrezionale, allo scopo di permettere ai confinati dei evadere, servendosi di una nave che fu vista accostarsi […] e che poi si allontanò per una direzione insolita, tenendo una falsa rotta” [26]. La notte del 30 settembre 1927, Mori mette a soqquadro l’isola con una serie di perquisizioni negli alloggi dei confinati e dei residenti ritenuti loro complici [27]. Di lì a pochi giorni, questore e prefetto, che intendono soprattutto fiaccare il morale dei confinati, danno corpo alle ombre e formulano i capi di accusa: tra i confinati, sostiene Mori, si sono “costruite clandestinamente, organizzazioni di partito ed una di fronte unico in rapporto con i sovversivi del Regno e dell’estero, aventi lo scopo di evasione e di ribellione contro i poteri dello Stato” [28]. Quanto basta perché, oltre al Picone, invischiato nella vicenda dal Fidel, siano arrestati e denunciati al Tribunale Speciale 56 confinati, tra cui Umberto Vanguardia e antifascisti della statura di Amadeo Bordiga e Giuseppe Berti, degli ex deputati socialisti Giuseppe Romita e Luigi Fabbri, di Giuseppe Massarenti, leader di quello che fu il più forte movimento cooperativistico dei braccianti agricoli, dei libertari Guglielmo Boldrini e Fioravante Meniconi, che ha tradotto e diffuso in Italia Emile Armand, e di Mario Angeloni, che sarà poi segretario del partito repubblicano in esilio, comanderà in Spagna la colonna Rosselli e sarà mortalmente ferito combattendo a Monte Pelato [29].
Arrestato a Ustica il 10 ottobre 1927, Vanguardia è tradotto in catene “alle carceri di Palermo a disposizione del Tribunale Speciale di Roma, siccome imputato ai sensi della legge sulla difesa dello Stato” [30]. Carcere duro per mesi, un’istruttoria che sembra interminabile, la brutalità degli interrogatori, poi di nuovo catene, in viaggio per un ritorno a Napoli che, a giugno del 1928, lo conduce in cella al carcere di Poggioreale. Ancora atti istruttori, ancora l’estenuante pena degli interrogatori, ancora la necessità di difendersi e di non prestare ascolto alla tentazione dei “vantaggi” offerti in cambio di una qualche “collaborazione”. Vanguardia “però tiene”, resiste alla tentazione fortissima di chinare la testa, per riaquistare una libertà ormai indispensabile ad una condizione di salute sempre più precaria, e va avanti con immensa fatica e dignità. Negli anni delle prime battaglie, quando lo soccorreva l’entusiasmo giovanile, aveva orgogliosamente affermato: “Non varranno prepotenze e violenze contro di noi […]; non abbiamo paura e respingeremo senza esitazione qualsiasi mezzo voi adotterete” [31]. E’ stanco e malato allorché, assolto per insufficienza di prove dal Tribunale Speciale, dopo quasi di un anno di carcere è trasferito a Ponza, dove la salute peggiora di giorno in giorno e ne piega progressivamente la resistenza fisica [32].
Quando torna libero, Vanguardia è molto malato e non ha nulla da rimproverare a se stesso, nemmeno l’istanza di grazia firmata per poter morire a casa [33]. Come ogni tiranno, Mussolini, ha un’inconfessabile paura delle sue vittime e non è disposto a fare dell’anarchico un eroe; stavolta, perciò, non ha dubbi: l’ora della liberazione non può, non deve coincidere con quella della morte. La pratica va chiusa. L’uomo che il primo febbraio 1930 lascia i compagni a Ponza, diretto a Napoli, è stanco e sofferente; ha lottato sin quando ha potuto, si è piegato ai suoi limiti, alle sue debolezze, a una fatica che non riesce più a sostenere, ma non ha tradito i suoi ideali. Il 28 dicembre 1931 muore nella sua abitazione al n. 45 di via Bernini, là dove non una lapide ricorda ai giovani la sua passione politica e il suo impegno civile [34].

NOTE

1 – Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASN), Gabinetto di Questura (da questo momento GQ), seconda serie, 1888-1901 (da qui in poi IIS), busta (da questo momento b.) 86 bis, fascicolo (da qui in poi f.) “Fascio dei Lavoratori”, elenco degli iscritti.

2 – Arturo Labriola, Spiegazioni a me stesso, Centro studi sociali problemi del dopoguerra, Napoli, 1945, p. 18.

3 – Sui fatti di Bronte, Benedetto Radice, Nino Bixio a Bronte, con introduzione di Leonardo Sciascia, S. Sciascia, Caltanissetta 1963; Emanuele Bettini, Rapporto sui fatti di Bronte del 1860, Sellerio, Palermo, 1985; Maria Sofia Messana Virga, Bronte 1860: il contesto interno e internazionale della repressione, S. Sciascia, Caltanissetta, 1989; Pasquale Iaccio (a cura di), Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Un film di Florestano Vancini, Liguori, Napoli, 2002.

4 – Nel corso di una perquisizione, fu rinvenuta una lettera indirizzata alla madre in cui il giovane asseriva di voler diventare un “santissimo Caserio”. Interrogato sul significato di quelle parole, rispose che, dopo aver seguito sulla la stampa il processo politico al socialista Giuseppe De Felice e ai suoi compagni, “aveva concepito in mente l’idea di uccidere S. E. Crispi, causa della rovina della famiglia De Felice e delle sofferenze di migliaia di uomini. Soggiunse che tale sua idea delittuosa non sarebbe passata dallo stato intenzionale a quello di esecuzione”. Archivio Centrale dello Stato di Roma, (da questo momento ACS), Ministero dell’Interno (di qui in poi MI), Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale (d’ora in avanti CPC), b. 5312, f. “Vanguardia Umberto”, cenno biografico al 12-11-1895. Sante Caserio, panettiere anarchico e antimilitarista, uccise il Presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Intendeva così vendicare il compagno di fede Auguste Vaillant, al quale Carnot aveva rifiutato la grazia, benché la marmitta esplosiva da lui lanciata in Parlamento non avesse avuto conseguenze mortali. Al processo il Vaillant dichiarò di aver scelto di “ferire un gran numero di deputati piuttosto che uccidere qualcuno. Se avessi voluto uccidere – spiegò – avrei caricato la bomba con dei pallettoni. Ho messo dei chiodi; ho voluto quindi solo ferire”. Turati, che aveva conosciuto Caserio e non fu mai indulgente coi terroristi, scrisse di lui che fu “mite, pensoso, taciturno, notoriamente affettuoso e laboriosissimo”. Filippo Turati, Il loro duello. L’assassinio di Carnot, “Don Chisciotte”, 26 giugno 1894. Su Caserio c’è oggi la voce curata da Maurizio Antonioli per il Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, diretto da Maurizio Antonioli, Biblioteca Serantini, Pisa, 2003, vol. I, pp. 333-335, che contiene anche un’ottima bibliografia, e il recente Rino Gualtieri, Per quel sogno di un mondo nuovo: i brevi anni di un anarchico lombardo, Euzelia, Milano, 2005.

5 – Cronaca da Napoli, “Avanti!”, 9-7-1898. ASN, GQ, IIS, b. 86 ter, f. “Federazione Socialista Napoletana”, e b. 128, f. “Socialisti”, elenco dei socialisti più pericolosi del Circondario alla data del 12-5-1898. Sul Vanguardia si veda la voce curata da Giuseppe Aragno per il , cit., vol. II, pp. 648-49.

6 – Il comizio d’oggi, “Il Pungolo Parlamentare”, 5/6-12-1901; I camerieri d’alberghi, restaurants e caffé, “La Propaganda”, 5-12-1901; ASN, GQ, IIS, b. 110, f. “Camerieri di Caffé e Ristoranti”, dispacci telefonici del 4 e del 5-12-1901; e ACS, CPC, b. 5321, f. Vanguardia…”, cit., nota 20622 del 31-7-1901 e 4205 del 22-5-1903 da MI a Prefetto di Napoli (di qui in poi Pna).

7 – Nel 1899 fu redattore de “La Giovane Italia, giornale politico democratico che uscì per qualche tempo a Napoli. Ivi, b. 198, f. “La Giovane Italia”, nota 4758 del 2-6-1899. Il 25 marzo 1906 pubblicò a Napoli “La Voce dei Ribelli”, cui seguirono il 15 e il 25 agosto “Ribelli” e il 20 settembre “I Picconieri”. Il 3 agosto del 1906 uscì “Sorgete” che, diventato poi “Sorgiamo!”, pubblicò l’ultimo numero il 12 giugno del 1910. Fu redattore dei fogli milanesi “Agitiamoci”, “Diritto alla Vita” e “La Protesta Umana”. Nel 1915, infine, fondò e diresse a Napoli il periodico “La Battaglia”. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., nota 7694 del 22-8-1906 dal Pna a MI; 3179 del 6-11-1907 dal Console italiano in Canton Ticino a MI; note n. 8405 del 22-2-1909 e n. 6347 del 16-6-1915 da Pna a MI; Leonardo Bettini, Bibliografia dell’anarchismo, vol I, tomo 1, Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia (1872-1971), Crescita Politica, Firenze, 1972, pp. 196 e 223-24.

8 – A giugno del 1907 è a Roma, al Congresso nazionale degli anarchici; il 3 novembre parla al comizio di Milano per le vittime politiche ed è poi segnalato a Pavia, Vigevano, Biella, Santhià e Lugano, dove frequenta la “Cooperativa Umanista” diretta da Dante Marchesi. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., note 5229 del 18-6-1907, da Pna a MI, 4932 del 13-11-1907 da Prefetto di Milano (da qui in poi Pmi) a MI, 7618 del 6-12-1907, 1039 del 18 febbraio 1908, 2125 del 22 febbraio 1908, da Pmi a MI; 1328 del 27-2-1908 da Pna a MI, e lettere 3179 del 6-11-1907 e 9936 del 7-11-1908 da Consolato Generale nel Canton Ticino a MI.

9 Il Propagandista, “Sorgiamo!”, 7-10-1909. Il giornale intitolato inizialmente “Sorgete” era espressione del gruppo costituito dal Vanguardia. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., Telegramma espresso di Stato 4937 del 28-81909 da Pna a MI.

10 – Silvia Sortys, Organizzazione e autorità, “Sorgete”, 3-8-1909.

11- Umberto Umberti (pseudonimo di Umberto Vanguardia), Comedianti, “La Voce del Ribelle”, 25-5-1906.

12 – Col Vanguardia furono arrestati anche gli anarchici Michele Balsamo, Carlo Melchionna e Gennaro Mariano Pietraroia. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., fonogramma 8782 del 13-10-1909 da Pna a MI, telegramma 1749 del 14-10-1909 dal Comando Carabinieri, Divisione Napoli Interna a MI, telegrammi 5872 e 5873 del 13-10-1909, nota n. 9445 del 16-10-1909, note 14396 del 5-11-1910 e 1671 del 16-12-1910 e telegramma 5089 del 18-8-1912 tutti da Pna a MI.

13 – Libro dei verbali della Sezione napoletana del Psi, Riunione del 10-9-1910. L’esistenza dei verbali, raccolti in due quaderni, mi fu segnalata anni fa da Gaeatano Arfè, che li aveva ricevuti dal padre Raffaele, segretario della sezione. Arfè ricavò il saggio Per la storia del socialismo napoletano, Atti della sezione del Psi dal 1908 al 1911, in “Movimento Operaio”, 1953, n. 2, pp. 291-293 poi diede i preziosi documenti a Luigi Mascilli Migliorini, il quale cortesemente mi consentì di fotocopiarli. Ne trassi poi, a mia volta, Il saggio I socialisti napoletani a inizio secolo tra intransigenza e blocco popolare, ne “Il Corriere Calabrese”, anno III, n. 3 e 4, luglio dicembre 1993, pp. 29-53.

14 – ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit.., note 12586 del 5-10-1910, 13126 del 12-10-1909 e telegramma n. 3939 del 29-10-1910, tutti da Pna a MI.

15 – Ivi, nota 3735 dell’8-4-1912, telegramma 5089 del 18-81912 da Pna a Mi, e “Roma”, 7-1 e 21-5-1914.

16 – Prima di partire per il fronte il Vanguardia, che era iscritto al gruppo anarchico “Amilcare Cipriani” e fu fermato per propaganda antimilitarista. Ibidem, note 1157 del 2-2-1915, 3776 del 13-4-1915, 6347 del 15-6-1915, 2066 del 25-2-1917 e 2868 del 24-3-1917 da Pna Menzinger a MI; ASN, Qustura, Polizia Amministrativa e Giudiziaria, b. 428, f. “Minieri Giovanni” nota 9705 del 3-9-195 da PS Vomero a Questore.

17 – Ivi, GQ, IIS, b. 672, F. “Panettieri. Lavorati”, Memoriale inviato dal Vanguardia al Questore con le rivendicazioni su orario, salario e funzionamento del Collocamento e fonogramma urgente del 5-12-1919. I lavoranti panettieri proclamano lo sciopero, “Il Mattino”, 6/7-11-1919; Lo sciopero dei panettieri continua, ivi, 7/8-12.1919; I lavoranti panettieri e l’organizzazione, “Il Mezzogiorno”, 28-11-1919; Gli scioperi del giorno. I panettieri, ivi, 9/10-12-1919; L’agitazione dei lavoranti panettieri, “Roma” 5-12-1919 e Una lettera dei negozianti panettieri. Minaccia di serrata, ivi, 15-12-1919. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit, note 3752 dell’8-5 e del 7-11-1924, da Pna a MI.

18 – Ivi, nota n. 3752 dell’8-5-1924, da Pna a MI.

19 – Ibidem, nota 6388 dell’1-12-1926 da Alto Commissariato per la Provincia di Napoli a MI. I condannati al confino non erano mai preventivamente avvisati. L’arresto era effettuato nel pieno della notte e la traduzione in carcere era immediata e brutale. Il detenuto, costretto a vivere poi in una cella malsana, di piccole dimensioni, non aveva alcuna possibilità di parlare con i familiari o con un avvocato. Non poteva leggere – erano vietati tutti i libri – spesso era picchiato e sottoposto ad angherie e torture. Per sgombrare il campo da rinnovate sciocchezze e dichiarazioni in “stile Longanesi” sul “regime temperato” e sul confino inteso come “villeggiatura”, cui si lasciano andare neofascisti travestiti da liberarli, val la pena di riportare alcune testimonianze dirette ed inequivocabili sulla realtà della repressione fascista. Si prenda, ad esempio, l’ingenua denuncia dall’ormai settantatreenne anarchico Giovanni Bergamasco, naturalista, insegnante nelle scuole statali, giornalista e dirigente politico: “Voglio solo richiamare l’attenzione della stampa e delle autorità – scrive il Bergamasco – sui locali immondi, indecenti, sudici, dove vengono trattenuti gli arrestati politici. Mi limiterò, per esser breve, alla Camera di sicurezza del Commissariato di Celio, dove sono stato rinchiuso or ora, in occasione dell’anniversario della nascita di Roma. Il locale è capace di 27 metri cubi e quasi tutto il suo spazio è occupato da un tavolaccio. Vi mancano luce ed aria e fa freddo ed umido. In un angolo è posto un puzzolente recipiente di legno per i bisogni naturali. Non si esce all’aria. Per cibo si ha un poco di pane con companatico. Ma ciò che è peggio, è che il tavolaccio e le coperte son pieni zeppi di schifosi parassiti, che come si sa sono propagatori d’una quantità di malattie contagiose. […] E’ questo forse il modo civile di trattare i politici?”. Ibidem, b. 515, cit., Lettera aperta, mai pubblicata, inviata al “Messaggero”, alla “Tribuna” e al “Giornale d’Italia”, il 28 aprile 1936. In quanto al confino, a ristabilire un minimo di verità, penso basti riportare quanto scrive prima al re e poi a Mussolini Pasquale Ilaria, condannato a cinque anni di confino, per aver spinto la popolazione di Caposele ad inscenare una dimostrazione ostile al regime. Volontario in Libia, capitano nel primo conflitto mondiale, l’Ilaria, che è mutilato, invalido e decorato al valor militare, è così duramente colpito dalle penose condizioni di vita cui è costretto a Tremiti, che chiede a Vittorio Emanuele “di convertire l’arbitraria tortura del suo confino con la pena più umana e più vantaggiosa per l’erario della fucilazione. […] Che Iddio – aggiunge poi – salvi Vostra Maestà, la vostra grande Stirpe e l’Italia”. Ibidem, Confino Politico, b. 531, f. “Ilaria Pasquale”. Il re ovviamente non si degna di rispondergli; anni dopo, contando sulla sua disperazione, Mussolini gli offre la grazia in cambio di un ravvedimento. Una proposta che Ilaria rifiuta perché, scrive, la coscienza, “sua tiranna e sua consigliera implacabile non gli ha mai permesso che il desiderio di liberazione dal tormentoso confino prevalesse sul dovere e sulla dignità di modesto patriota legalitario, cristiano, ch’egli con grandi sacrifici ha cercato di essere”. Ivi, Confino Politico, b. 541, f. “Ilaria Pasquale”, lettere a Vittorio Emanuele III in data 27-10-1937 ed a Benito Mussolini del 15-10-1941, entrambe da Tremiti. Sulle condizioni di vita dei detenuti si vedano AA. VV., Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Editori Riuniti, Roma, 1962 e Ferdinando Cordova e Pantaleone Sergi, , Regione di confino. La Calabria (1927-1943), Bulzoni, Roma, 2005.

20 – ACS, CPC, b. b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit, domanda di grazia inviata il 9-4-1927 da Concetta Vanguardia a Sua Eccellenza il primo Ministro Benito Mussolini; nota 6529 del 6 luglio 1927 dall’Alto Commissario per Napoli Castelil a MI e nota 22697 da Mi a Castelli.

21 – Ivi, nota 4187 del 5-4-1927 dal Pna a MI. Nell’isola furono confinati, tra gli altri, Filippo Turati, Ferruccio Parri, Carlo e Nello Rosselli, Randolfo Pacciardi, Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, arrivato sull’isola tra i primi, il 7 dicembre 1926. Interessanti notizie e una bella foto di gruppo di numerosi confinati sono nel sito internet del Centro studi e documentazione Isola di Ustica, per il quale si veda http://www.centrostudiustica.it.

22 – Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Vallecchi, Firenze, 1973, I, p. 102.

23 – Sul Mori si possono vedere Salvatore Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 2000 (I ediz. 1994) e Christopher Duggan, La mafia durante il Fascismo, prefazione di Dennis Mack Smith , Rubettino, Soveria Mannelli (CZ).

24 – Centro studi e documentazione Isola di Ustica; Ministero della Difesa. Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico, Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Decisioni emesse nel 1928, Tomo II, Roma, 1981, Sentenza n. 223, pp. 1073-1077; ACS, CPC, b. 1983, f. “Fedel Riccardo Giovan Battista” e b. 3953, f. “Picone Vincenzo”.

25 – Ministero della Difesa. Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico, Tribunale Speciale…, cit. pp. 1075-77.

26 – In istruttoria si fece di tutto per dare un nome alla fantomatica imbarcazione e si giunse ad interessare anche il console italiano a Marsiglia. Pur non potendo escludere che una nave si fosse avvicinata all’isola, i giudici raccolsero “prove serie”, che escludevano “che essa potesse servire per l’invasione dei confinati”. Ivi.

27 – Alfredo Misuri, ex liberale, poi deputato fascista, che denunciò i crimini dello squadrismo e finì anch’egli a Ustica nel 1927, ha lasciato una descrizione vivace di quella notte, ricordando: “il paese posto in stato d’assedio, le mitragliatrici sui tetti” e poi “pattuglioni, […] arresti nelle case e nei cameroni; scene indescrivibili […], mariti strappati dalle braccia delle mogli; mogli minacciate con le pistole; bambini, come quelli del Bordiga, interdetti dall’ultimo abbraccio paterno”. Si seppe poi, egli ha scritto, “che la penosa traversata durò dieci ore e che, all’arrivo a Palermo, i sessanta arrestati furono rinchiusi nel carcere dell’Ucciardone, ove cominciò per loro un’odissea di molti mesi, pel processone che s’istruì, e che si sgonfiò, dopo la loro dispersione in vari carceri, sino alla definitiva liberazione”. Alfredo Misuri, Ad bestias. memorie d’un perseguitato, Edizione delle catacombe, Roma, 1944, passim.

28 – ACS, CPC, f. “Vanguardia…”, cit. nota 4187 del 17-10-1927 da prefetto di Palermo (d’ora in avanti Ppa a MI, e Tribunale Speciale…, cit. pp. 1073-1074.

29 – Sotto processo finirono 24 comunisti, 13 socialisti, 11 anarchici, tra i quali il Vanguardia, 1 repubblicano e 6 confinati di cui non ho potuto accertare il “colore politico”, Tribunale Speciale…, cit., e ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., nota 4187 del 17-10-1927, cit. (che però fa riferimento solo a 39 denunce). Oltre a Giorgio Angeloni, davanti al Tribunale Speciale furono condotti anche altri tre futuri combattenti di Spagna: gli anarchici Lanciotto Corsi e Italo del Proposto e il socialista Luigi Romanelli. Ivi, b. 137, f. “Angeloni Mario”, b. 1486, f. “Corsi Panciotti”, b. 1703, f. “Del Preposto Italo” e b. 4382, f. “Romanelli Luigi”; Associazione italiana combattenti volontari antifascisti di Spagna, La Spagna nel nostro cuore: 1936-1939. Tre anni di storia da non dimenticare, Tipografia Botti, Milano, 1996, ad nomen, e Dizionario Biografico degli anarchici…, cit., voci curate da Fausto Bucci e Gianfranco Piermaria, per il Corsi (I, pp. 448-49) e Ilaria Del Biondo per il De Proposto (I, pp. 514-15). Su Guglielmo Boldrini, che sostenne con Malatesta la libertà dei lavoratori di iscriversi ai sindacati, e Fioravante Meniconi, Ivi, I, pp. 207-210, e II, pp. 158-159, voci curate rispettivamente da Mattia Granata e Giorgio Sacchetti, e ACS, CPC, b. 697, f. “Boldrini Guglielmo” e 3230, f. “Meniconi Fioravante”. Sulla figura di Mario Angeloni si possono vedere Leo Valiani, Antifascisti italiani nella guerra di Spagna: ricordo di Mario Angeloni, Centro stampa del Comune, Cesena, 1979; Velio Lorenzini, Mario Angeloni, la lotta contro il fascismo e la guerra di Spagna, sl, sn, 1986 e Giuseppe Galzerano, Vincenzo Perrone, Vita e morte, Galzerano, Casalvelino (Salerno) 1999, passim. Sul Massarenti si vedano Luigi Arbizzani (a cura di), Giuseppe Massarenti capolega di Molinella, con un’intervista di Palmiro Togliatti all’organizzatore socialista, Arte Stampe, Bologna, 1967; Sante Violante, Massarenti Giuseppe, in Alberto Mortara (a cura di), I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, Franco Angeli, Milano, 1984; Giovanni Ferro, Massarenti il riformista, Opere nuove, Roma, 1990: Gianna Mazzoni, Un uomo, un paese: Giuseppe Massarenti e Molinella, Bologna, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, stampa 1990.

30 – ACS, CPC, b. 5312, fascicolo “Vanguardia…”, cit., nota 4187 del 19-10-1927 dal Ppa a MI.

31 – Umberto Vanguardia, Ai detentori del potere, “La Voce del Ribelle”, 25-5-11906.

32 – Al termine del processo il Tribunale Speciale non poté fare a meno di rilevare la “scarsissima credibilità dei testi di accusa” e ritenere “di molto dubbia consistenza probatoria e di scarsissima efficienza giuridica” l’impianto accusatorio, messo su con lo scopo evidente di infliggere colpi alla resistenza degli antifascisti. La formula assolutoria, tuttavia, non risparmiò agli imputati il peso delle “incapacità giuridiche perpetue” che, per i sopravvissuti, sarebbero state abolite solo molti anni dopo, con la caduta del regime. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., nota 19870 del 24-8-1928 da Alto Commissario per la Provincia di Napoli a MI e Tribunale Speciale…, cit. 1077.

33 – Ivi, Promemoria del 3-2-1930.

34 – Ibidem, nota 8431 del 29-12-1931 da Alto Commissario per la Provincia di Napoli a MI.

 
Uscito su “Fuoriregistro” il 16 dicembre 2006

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