Quando tutto diventa buio e ti senti smarrito, ti torna in mente un maestro che tanto ti ha insegnato negli anni della tua formazione giovanile e segui la sua strada. Ti spogli dei vestiti che ti hanno accompagnato durante la faticosa giornata, indossi gli abiti curiali, cominci a parlare con i tuoi fantasmi e a poco a poco ritrovi fiducia e speranza. Non importa che il tramonto annunci la notte. Hai aperto una via. Altri proseguiranno.
Emilia Buonacosa nasce a Pagani il 19 ottobre 1895, Abbandonata dai genitori, finirebbe tra i «trovatelli», se il caso, che a volte pareggia i conti tra ragioni e torti della vita, non le donasse l’affetto di una famiglia[1].

Sono anni di forte crisi economica, sarebbe necessaria un’imposta progressiva sul reddito, ma Crispi colpisce la povera gente con dazi e balzelli sui generi di prima necessità e l’infanzia di Emilia è una breve magia di giochi e compagni. Dopo la scuola elementare, inizia a lavorare e impara ben presto che i padroni fanno guerra ai diritti, mentre i governi rispondono con la violenza ai disperati che chiedono pane e giustizia sociale[2]. del Novecento Giolitti evita la crisi sociale, consentendo alle classi subalterne di far «valere le proprie aspirazioni e difendere i propri legittimi interessi», sicché, quando Emilia entra in fabbrica, a Nocera, una legge tutela le operaie: dodici ore di lavoro con due di pausa e nessun turno di notte. La fatica è ancora dura e il lavoro rischioso – nel 1913 un infortunio sul lavoro distrugge il cuoio capelluto della giovane donna – ma s’è fissato un limite ed è una conquista[3]. I padroni hanno ora di fronte proletari maturi e la forte Camera del Lavoro in cui milita la Buonacosa. Come accade spesso con le donne, la Questura associa l’attività politica alla «cattiva condotta morale», sicché la Buonacosa non è solo una militante attiva in una fabbrica «agitata da movimenti sovversivi a sfondo anarcoide», ma ha «contatti politicamente pericolosi» ed è «una donna di facili costumi», che si dice anarchica per compiacere l’amante libertario e giustificare una vita dissoluta.
Lette con cura, però, le note di polizia narrano un’altra storia. Emilia cresce nelle difficoltà, fa scelte autonome, lotta contro padroni reazionari, diventa anarchica e non deve ai compagni più di quanto essi debbano a lei. Non è un’esaltata capace di «azioni delittuose», né una «poco di buono». E’ un’operaia che ha scelto il suo campo. Una scelta tanto più grave per la società del tempo, quanto più radicali sono la sfida allo Stato classista e la rottura col perbenismo borghese. Il «biennio rosso» la trova a Milano, dove frequenta Federico Giordano Ustori, tipografo di «Umanità Nova». Arrestato nel 1921 per un attentato e assolto dopo un anno di carcere, nell’estate del 1922 Federico si trasferisce con Emilia a Nocera, dove, però, notabili nazionalisti e padroni camorristi hanno creato un fascismo peggiore di quello originale, che costringe Ustori a tornare con Emilia a Milano. L’8 settembre 1924, col regime in crisi per la morte di Matteotti, i due si sposano, ma il 3 gennaio 1925 Mussolini spegne le illusioni: «se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione…». Quando il regime vara le leggi «fascistissime», Federico, per evitare il confino, fugge in Francia, dove Emilia lo segue.
A Parigi l’unità nella lotta al regime non spegne i contrasti tra antifascisti. Quando Ustori denuncia la persecuzione degli anarchici nell’URSS e definisce il bolscevismo «il più infame e spietato necroforo della rivoluzione», lo scontro con gli stalinisti è duro ed Emilia è con lui in una battaglia politica che scuote il campo antifascista. Casa Ustori è un riferimento per i compagni bisognosi d’aiuto e d’asilo, sicché il 2 novembre 1930, quando un’infezione causata da un banale intervento chirurgico uccide Federico a solo 39 anni, attorno a Emilia si stringe il fior fiore dell’antifascismo[4]. Treves, che ha avuto Ustori linotipista alla «Libertà», s’inchina alla memoria «duratura, incancellabile, onorata e compianta»; Piero Montanini e i compagni della Concentrazione Antifascista promettono alla donna che riporteranno in Italia il marito nel giorno della vittoria, quando torneranno, testimoni «del sacrificio popolare, tutti coloro che lasciammo nell’esilio: da Amendola a Gobetti, da Chiesa a Ustori, da Bensi a tutti gli altri oscuri operai di cui sono ricchi i cimiteri stranieri».
Se «casa Ustori» sparisce dalla «geografia politica» di Parigi, cresce tra gli antifascisti il ruolo della donna che, colpita negli affetti, non cede, si trasferisce presso una famiglia amica del marito, poi trova lavoro presso Ettore Carozzo, un editore emigrato politico. Antifascisti gli amici, antifascista il datore di lavoro, tutto nella vita della donna ha ormai colore politico, anche i luoghi frequentati. E’ il caso di un caffè in via Diderot, ritrovo di antifascisti, dove nel 1932 incontra Pietro Corradi, l’uomo col quale andrà poi a vivere e che curerà le ferite d’una donna sofferente.
Matura e molto autonoma, la Buonacosa va col Corradi alle riunioni «Giustizia e Libertà», frequenta gli anarchici Bruno Gualandi e Renato Castagnoli e il medico Temistocle Ricciulli[5]. Interrogata su tali amicizie, anni dopo dirà di non conoscere anarchici e negherà intese politiche col Ricciulli, che nel 1935, le ha curato una congestione polmonare. In realtà, lei e Ricciulli hanno combattuto in Spagna i falangisti. Ricciulli è partito nell’estate del 1936 ed è tornato in Francia malconcio; lei è andata a Barcellona nel 1937 con l’anarchico Romano De Russo. Non è chiaro quando sia tornata a Parigi, ma a marzo del 1938 una spia rivela che la donna procura rifugi e documenti ai reduci dalla Spagna che lasciano la Francia quando non ha soluzioni, offre la sua casa. Sa di rischiare e il 2 gennaio 1940 mette in guardia la figlia d’un amico: «Ricordati solamente che sono sempre quelli che si sono seduti alla tua tavola, che si sono considerati i migliori e i più sinceri fra gli amici che oggi cercano di pugnalarti alla schiena».
L’aggressione italiana alla Francia la trova straniera in un Paese in guerra col suo e il 9 luglio 1940, come ha previsto, un «amico» la vende ai tedeschi. Tre mesi di carcere ad Aquisgrana e il 9 ottobre è in mani italiane. A novembre è a Napoli, dove rigetta ogni accusa: «emigrai clandestinamente a Parigi, ma non è vero che io abbia frequentato gli ambienti di Giustizia e Libertà. […] Giammai sono stata a Barcellona. Non ho partecipato a movimenti antifascisti. A Parigi sono stata arrestata e qui tradotta Non ho altro da dire». Il 2 dicembre 1940 quando è condotta davanti alla Commissione per il confino, l’accusa non esibisce prove e lei non ha un legale. La Commissione finge di consultare atti e documenti e la condanna seduta stante a cinque anni di confino di polizia eseguendo così un ordine inviato giorni prima da Bocchini, capo della polizia: «confino […] destinazione Ventotene». Un medico incarna poi la ferocia del regime: ignora il grave incidente e ritiene Emilia «esente da difetti ed imperfezioni fisiche e psichiche», e «idonea a sopportare il regime del confino di polizia».
Contro la sentenza la Buonacosa ricorre e ogni parola del ricorso è un dito puntato sul regime: la condanna «enorme e inumana», perché non si è giudicato «nessun atto violento», le accuse «ipotetiche e fantastiche», da «vagliare con più serenità», «l’infortunio sul lavoro e il bisogno di scrupolose ed assidue cure» ignorati. Roma respinge il ricorso e la richiesta di essere inviata almeno nei pressi di Salerno o Napoli, dove i familiari «possano di tanto in tanto venirmi a vedere e darmi le cure dovute».
Il 13 dicembre 1940, sbarcata a Ventotene in catene, ma decisa a resistere, la donna ottiene che il medico attesti ciò che la Commissione ha ignorato: è priva del cuoio capelluto per un grave incidente e deve adoperare la parrucca. Inizia così una battaglia per le regole e i diritti che sembra rendere la prigioniera più libera dei suoi carcerieri, servi d’un regime immorale in cui il diritto coincide col potere e il potere si fonda sulla forza bruta di chi lo detiene. La prima richiesta della Buonacosa – «un sussidio di vestiario» – è un’accusa al regime, chiamato al rispetto di vaghi «principi umanitari» professati in nome della inesistente «civiltà fascista»: se non ha i «mezzi più modesti» per «provvedere al suo fabbisogno indispensabile», è colpa dei fascisti che l’hanno costretta a lasciare la Francia senza le sue risorse personali. Valutata l’entità del danno, Emilia insiste: tocca al Ministero ritrovare le sue valigie perse nel carcere tedesco; quanto all’infortunio, ignorato dalla Commissione, sono i suoi carcerieri a dover rimediare, pagandole la parrucca ormai rotta.
Dietro la sfida ci sono la sofferenza e il bisogno di cure. Potrebbero trasferirla vicino ai suoi che la curerebbero, suggerisce la confinata, o condurla a Napoli per una parrucca nuova. Se non si vuole, dovrà «abitare da sola, perché è umanamente impossibile vivere insieme ad altre donne». In un primo momento il Ministero tace e non ascolta nemmeno il prefetto di Littoria, favorevole al viaggio a Napoli; invano il medico della colonia, consapevole della sofferenza di Emilia, scrive che lo «stato psicoastenico a sfondo depressivo, nell’ambiente in comune con altri confinati, peggiora fino allo scoramento» e può «sfociare in mania suicida». Emilia è stremata, ma quando il regime le nega il trasferimento, torna sul bagaglio smarrito. Non ne ha notizie, «nonostante le promesse di interessamento» ed è inaccettabile, «perché le due valigie […] contenevano tutto il mio corredo che mi è costato anni di lavoro». E al Ministero che tace, ricorda: «vivo in penosissime condizioni».
Quando da Roma chiedono di conoscere il costo della parrucca, che il prefetto di Littoria però non conosce, si decide finalmente di condurla a Napoli, ma la scorta non c’è. Per otto mesi, tormentata dal timore del «ridicolo per le deprecabili condizioni della parrucca» e «dai dolori fisici alla testa», la Buonacosa resiste e frequenta gli «anarchici più pericolosi della colonia»; il calvario termina il 10 agosto 1941, quando la donna parte per Napoli e torna il 19 con una parrucca nuova. Il 10 gennaio 1942 e il 5 febbraio 1943, il Ministero le invia un sussidio di 150 lire e le consente di scrivere al Corradi, che, pur di aiutarla, a Parigi ha svenduto parte dei suoi mobili; la Buonacosa risponde criticando l’economia fascista e le condizioni di cambio con la moneta francese così sfavorevoli, da scoraggiare ulteriori vendite. Meglio conservare e custodire, scrive al Ministero, altrimenti, terminato il periodo di confino, «mi troverei senza casa e senza possibilità di formarmene un’altra».
E’ il momento in cui il regime, deciso a demolire la resistenza della donna, prende a colpire dove i nervi sono scoperti e il dolore più vivo. Ora la guerra si sente anche sull’isola. Costretta a bere acqua di mare bollita e a mangiare foglie di fichidindia cotte, l’unica pianta che cresce abbondante, la Buonacosa peggiora e l’alterazione causata dall’infortunio al suo sistema nervoso le procura vertigini e improvvisi oscuramenti della vista. Per curare la confinata, il medico prescrive farmaci e vitto speciale, ma il direttore, Marcello Guida, ritarda l’invio delle richieste Roma. Fascista accanito, sa che il Ministero intende punire la donna e più la vede soffrire, più esercita crudelmente il suo potere. Il rifiuto più doloroso per la confinata giunge quando i genitori, l’anziana madre anzitutto, chiedono di poterla rivedere e la Buonacosa implora il duce: «La loro devozione per il Regime li raccomanda. Voi non vorrete negare una consolazione». Mussolini rifiuta, come aveva fatto tempo prima quando Emilia gli aveva scritto che la madre poteva all’improvviso mancare e «sarebbe troppo grande dolore per me e per lei, qualora non ci fosse dato di vederci almeno una volta ancora». Un rifiuto opposto dal duce alla madre, che il 29 aprile 1942 gli confida «il timore e la pena che non danno pace» per il figlio «combattente, che non scrive dal mese di novembre». Forse, prosegue la donna, «non avrò molto da vivere, perciò vorrei vedere la mia cara figlia adottiva che non ho potuto abbracciare da 16 anni».
Alla clemenza, che temono sia letta come debolezza o ammissione di colpa, spesso i tiranni preferiscono nuove crudeltà e il senso di umanità cede il passo alla ferocia. Disumana è la risposta di Mussolini: la «domanda per ottenere una breve licenza a favore della Buonacosa Emilia non è stata accolta». La confinata sopporta anche questo dolore e va avanti. Di lì a poco, invece, Guida, che sente morire il regime, abbandona la nave che affonda. Passi felpati, ma chiari: i diritti non più legati alla sottomissione faranno dell’aguzzino un «esecutore d’ordini». Il braccio di ferro con Emilia ormai non ha senso e quando Roma decide di liberare i «politici» meno «pericolosi», Guida inserisce la Buonacosa in un elenco di 140 confinati e il 27 giungo 1943 appoggia la proposta di commutare in ammonizione la pena della donna che, a suo dire, ora «vive appartata dai gruppi politici». In realtà, Emilia è stata appena testimone alle nozze di Bice Mastrogiacomo col comunista Renato Olivieri e gode della stima delle compagne.
La notizia dell’arresto di Mussolini giunge a Ventotene il 26 luglio e gli antifascisti, formato un comitato, aprono subito trattative col direttore, che tolto il distintivo fascista dalla giacca e il quadro del duce dall’ufficio, insolitamente cortese accetta le condizioni poste dai confinati. Mentre Badoglio incalzato dai partiti risorti, libera i prigionieri politici, ma «dimentica» gli anarchici, a Ventotene Emilia protesta vivacemente e in nome delle «mutate condizioni politiche» chiede la liberazione. Il 23 agosto 1943, quando lascia l’isola, crede di tornare a casa. L’attendono invece Formia bombardata coi cadaveri tra le macerie e il campo di Fraschette d’Alatri, con migliaia di internati, per lo più donne e bambini.
La Buonacosa, che ha tenuto testa a Guida, è un riferimento per le slave giunte con lei da Ventotene e a loro nome, a nome di compagne ammalate e bisognose di cure, presenta a Badoglio, vecchio fascista chiamato a garantire la continuità dello Stato, un titolo che impone rispetto: la strenua lotta al fascismo: «Noi tutte protestiamo energicamente contro questo trattamento e chiediamo la nostra immediata liberazione come confinate ed internate politiche». Umberto Ricci, però, senatore, ex prefetto mussoliniano e ministro dell’Interno di un governo pronto alla fuga di fronte ai nazisti, diffida dei «rossi» e prende tempo. Invano il 31 agosto il direttore del campo di Fraschette chiede disposizioni per la confinata politica Emilia Buonacosa, giunta al campo il 24 agosto. L’ordine di liberare la donna, che per il direttore del campo è ancora una «politica», parte da Roma il 7 settembre, mentre il governo prepara la fuga e giunge al campo il 4 novembre, quando gli eventi bellici impediscono che Emilia raggiunga Pagani.
Tornata a casa il 7 agosto del 1944, la donna abbandona lentamente la militanza attiva e il sipario sembra infine calare sulla sua vicenda politica. Se alla vigilia della Liberazione, Nenni le scrive con familiarità e promette di incontrarla a Nocera, poco dopo, però, quando chiede il passaporto per un viaggio a Parigi, il prefetto di Salerno, fermo al ventennio, scrive a Romita, socialista e ministro dell’Interno, che Emilia Buonacosa, «pericolosa alla sicurezza pubblica e agli ordinamenti dello Stato», confinata a Ventotene, si «allontanò a seguito della liberazione di detta isola da parte delle truppe alleate» e conclude con una frase terribile: «in atto, serba buona condotta in genere e non dà luogo a rilievi».
Per le autorità, quindi, Emilia, che non mai è stata liberata, è una «fuggiasca» sorvegliata. La melma in cui il prefetto rimesta per il momento non può sfiorare la «vedova Ustori», che parte per Parigi, rivede i compagni e la tomba del marito e poi torna a casa. Su quel fango, però, poggia in parte l’Italia nuova, che in anni di lotte e sacrifici migliaia di «sovversivi» hanno provato a costruire. Un fango destinato ad aumentare, se nel 1959, con Tambroni al Tesoro e Segni Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, il fascicolo di Emilia «vive» ancora. E’ il Tesoro che, per decidere sull’eventuale diritto alla pensione assegnata infine ai perseguitati politici, chiede agli uomini di Segni notizie su quanto dichiara la donna. Nella domanda Emilia ha ricordato tutto: l’espatrio, l’arresto e il confino, ma gli uffici di Segni copiano note fasciste e tutto diventa chiaro: nella vita di Emilia, come nel suo fascicolo, incredibilmente «vivo», il «passato non passa», l’antifascismo minaccia le Istituzioni e l’anarchica è ancora una «sovversiva».
La nota si ferma lì, ma tra le sue righe si legge ancora la capacità di «azioni delittuose» e l’ex confinata è in fondo la «donna di facili costumi» che «convisse per circa tre anni more uxorio con un tipo politicamente pericoloso». E’ un rapporto che conduce difilato al 12 dicembre 1969, a Piazza Fontana, agli anarchici di nuovo in manette, a Valpreda, a Pinelli, staffetta partigiana e antifascista come Emilia, al fango del ventennio che sale, mentre i morti di Milano aprono quella che Zavoli chiamò «notte della repubblica». La notte in cui, incredula, guardando la televisione, Emilia riconosce Marcello Guida, carceriere di Ventotene, fantasma d’un passato che pensava chiuso. E’ lui, Marcello Guida, il questore di Milano, che indaga sull’attentato e colpisce ancora gli antifascisti.
Emilia se ne va il 12 dicembre 1976, ancora e sempre «pericolosa» per istituzioni in cui si muove libero Marcello Guida, protetto da «omissis» e segreti di uno Stato di cui è ad un tempo simbolo di continuità e naturale nemico.
[1] La storia di Emilia Buonacosa è stata ricostruita grazie ai documenti conservati nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, fondo Confino b. 164, f. «Buonacosa Emilia», e fondo Casellario Politico Centrale, b. 2422, f. «Giordano Federico (già Ustori Federico)». Utile è stato anche il lavoro di Annunziata Gargano, Resistenze. Esperimenti di microstoria attraverso tre biografie, Edizioni dell’Ippogrifo, Sarno, 2012.
[2] L’8 luglio 1904 Orlando fissò l’obbligo all’età di 12 anni.
[3] Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano, 1982, p. 115. Nel 1902 la legge Carcano impose per le minorenni atto di assunzione, libretto, certificato medico e un orario di lavoro che non superasse le 12 ore.
[4] Per la morte di Ustori, F. Ustori, “La Lotta Anarchica”, cit.
[5] La Buonacosa è più attiva del Corradi, un comunista dissidente che non svolge attività politica. Del Corradi esiste un fascicolo nel Casellario Politico Centrale b. 1480, f. “Corradi Pietro”.
