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Posts Tagged ‘Monti Giuliano Amato’

Se il “Popolo d’Italia” non fosse ormai modello prevalente, avremmo caratteri cubitali: da Profumo a Gelmini siamo fermi a Berlusconi. Se prima, aperta una falla, provvedeva l’Invalsi, ora che la nave affonda c’è ancora l’Invalsi. La riforma è un Moloch.
Dopo i dotti bizantinismi su tecnici e politici dei soliti pennivendoli, folgorati dalla sostanza della forma, un silenzio complice e forse persino imbarazzato accoglie l’amara verità dei fatti: Profumo sposa la tesi politica di Gelmini ed ecco le prove Invalsi, tecnicamente errate, ma illuminanti sul terreno della politica. Il fine è scandaloso: imporre valutazioni dettate da un’idea di formazione omologante, che imprigioni la libertà d’insegnamento, produca un “Casellario Politico” delle scuole con tanto di schedatura, agevolando la disgregazione di una istituzione che rinneghi i principi di inclusione e solidarietà, per far spazio a una visione aziendalistica tutta competizione, concorrenza e discriminazione. Tecnici o politici, la scuola non ha più tempo per chi presenta disturbi specifici d’apprendimento e mentre un’intera generazione di test fa da Rupe Tarpea è sempre più evidente: la Questione Meridionale, il radicamento leghista in alcune aree del Nord, le differenze metodologiche tra le diverse scuole, in una parola la complessità d’un Paese di cui si riscrive la storia cancellando gli “omissis”, sono ignote all’Invalsi e ignorate dal governo. Lo sanno tutti, la distinzione tra “tecnico” e politico è una volgare “patacca”, ai tecnici, tuttavia, s’impicca il Paese, inebetito da imbonitori fini e pericolosi, che sparano ad alzo zero gli slogan berlusconiani sul “salvaitalia”, la monotonia del posto fisso, il sindacato trincea di sfaticati, i miracoli dei supertecnici e i politici ladri che fanno sconcia e mariuola l’idea stessa della politica.

Un fotografo che volesse raccontare l’Italia d’oggi userebbe il grandangolo e le prime pagine si aprirebbero di nuovo su Bettino Craxi; a lui rimanda, infatti, la trovata di Monti, che si affida ad Amato per tirar fuori dallo stato confusionale i suoi “tecnici”, incapaci di salvarci dall’incapacità dei partiti. Se l’Invalsi è il volto statico dello scandalo Italia, la vicenda Amato-Monti rovescia la medaglia e ne svela il volto dinamico. Giuliano Amato, pensionato da oltre 1000 euro al giorno, non è solo uno schiaffo alla miseria regalata dal governo a milioni di italiani, Amato è il germe della malattia che Monti sostiene di curare: una vita nell’università allo sbando, mezzo secolo di storia dei partiti, una sconcertante comunità d’intenti col socialismo indecente del pluricondannato Craxi, due Presidenze del Consiglio, sei incarichi da Ministro e infine fasullo Cincinnato, vagolante tra presidenze alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e alla Treccani.
A ben vedere, dietro Monti si scorge il tragico filo rosso che percorre la storia di un Paese nato per “creare un mercato” e cresciuto così, malato dei mali del suo capitalismo: penuria di capitale per scarsa accumulazione primitiva, nessuna propensione al rischio, frazionamento politico e assenza di un grande mercato interno. L’Italia che Garibaldi unì non era un mercato. Mancavano investimenti e smercio e ci pensò lo Stato, in mano a un capitalismo molto interessato al controllo delle leve governative. Iniziò così una rapina costante, un travaso ininterrotto di ricchezza prodotta dal lavoro e regalata al capitale dei Lanza e dei Sella, impegnati a “pareggiare il bilancio” per risarcirsi delle spese delle guerre per l’indipendenza. I lavoratori sputarono sangue, pagarono tasse persino sul grano macinato e fu la fame. La finanza, in compenso, divenne “allegra”, e i proventi fiscali finirono alle banche, pronte a sostenere ogni avventura industriale. Quando scoppiò la bolla immobiliare, s’intravidero legami oscuri tra politica e mafia e nel 1893 si scoprì che le banche d’emissione truccavano conti e stampavano banconote false. Non pagò nessuno e cominciarono i salvataggi: le banche fallivano, i lavoratori pagavano e quando la speculazione mise piede in Africa, si andò alla guerra. Nessuno ha calcolato mai quanto c’è costata in oro, sangue e civiltà l’avventura del cattolico Banco di Roma nel mare di sabbia libica, mentre il Sud mancava d’acqua e lavoro. Da Adua all’Amba Alagi, passando per l’ignominia di Sciara Sciat, la Spagna martoriata, la tragica Siberia e da ultimo l’Afghanistan, chi cercherà notizie serie sul debito di cui ciancia Monti, dovrà andare a cercarle tra i bilanci delle banche e incrociare i dati con quelli dello Stato. Altro che welfare. Qui da noi, la storia del capitale oscilla tre avventure, salvataggi e lavoratori strangolati. Gronda sangue. Anche la Comit è stata salvata: oggi si chiama Intesa e ha ministri al governo. Non aveva torto Pietro Grifone quando, scrivendo di storia al confino di Ventotene, definì il fascismo “regime del capitale finanziario” e ricordò agli antifascisti che nulla nasce dal nulla e prima del “Duce” c’erano stati Crispi, Rudinì, Pelloux, le cannonate di Bava Beccaris e il Parlamento tradito a Londra.

La democrazia è incompatibile col capitalismo, spiegava di fatto Grifone e in quanto all’Invalsi, strumento di normalizzazione tipico di un’idea corporativa dei rapporti sociali, risponde agli scopi del capitale finanziario che ci governa. Grifone direbbe “regime”. E sarebbe difficile dargli torto.

Uscito su “Fuoriregistro” il 4 maggio 2012

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