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Posts Tagged ‘Luigi Berlinguer’


In un celebre discorso sulla formazione, Piero Calamandrei non esitò ad affermare: «La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. […] Quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue […].
La scuola […] serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente […], non solo nel senso di classe politica […], ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie».

Chi oggi prova a guardare la nostra scuola e le nostre università alla luce di queste parole, si accorge subito che esse non hanno più la funzione di creare il sangue nel nostro corpo sociale perché non offrono gli strumenti indispensabili ad assolvere con merito e dignità la capacità di valutare, scegliere e proporsi per essere scelti, quali che siano le classi sociali di provenienza. In sostanza, il principio su cui si fondava la scuola della repubblica è stato capovolto: non è scuola che conduce al merito, ma il merito che conquista la scuola. Chi ha più opportunità ha un ministro e un Ministero non a caso del merito, chi, nascendo, paga il prezzo dell’ingiustizia sociale non ha Ministero e ministro: è solo e condannato in partenza. Premiando il merito, lo Stato ignora la Costituzione perché investe per la formazione meno di quanto spende per i territori più ricchi e siamo così giunti al punto che il Ministero che fu della Pubblica Istruzione è diventato una delle tante fabbriche di ingiustizia sociale.
Il ribaltamento è la naturale conseguenza del trascorrere degli anni? I principi della Costituzione della Repubblica sono travolti dai progressi d’una società di uguali? Basta guardarsi attorno per capire che le cose non stanno così, che le riforme introdotte a partire dall’inizio di questo secolo oscurantista, a cominciare dal ‘sinistro’ Luigi Berlinguer per finire a Moratti, Gelmini e Renzi, non hanno mai mirato a migliorare il sistema formativo. Intendevano distruggerlo e ci sono riuscite, nonostante l’iniziale e coraggiosa resistenza opposta dai docenti. Esistono ancora tanti insegnanti che svolgono egregiamente il loro ruolo, ma diminuiscono sempre più, mentre a sostituirli sono chiamati quelli ‘formati’ nelle scuole e nelle Università riformate. Attorno hanno ormai un angosciante deserto e la traversata non sarà facile.

La scuola fascista generò una gioventù priva di strumenti critici, ma non riuscì a cancellare del tutto la memoria storica. Oggi siamo di fronte a una Caporetto culturale, da cui sta nascendo un popolo di “senzastoria”. Quel popolo che prima ricorda l’Olocausto, di cui fummo responsabili assieme ai fascisti, poi il dramma delle foibe, ma non si accorge di trasformare in vittime i complici dell’Olocausto. Furono i ‘titini’, si dice, ma, tra i partigiani di Tito c’era la Divisione Italia, che combatteva i nazifascisti, responsabili sia della inevitabile e sovrastimata vendetta istriana, che dell’evitabile Olocausto di cui fingiamo di non essere colpevoli.
Perché periodicamente i docenti sono sottoposti alla gogna mediatica? Non è difficile capirlo; con i limiti che nessuno nega, sono la fucina del pensiero critico. La fabbrica del consenso è incompatibile con questa loro funzione perché suo obiettivo è quello di trasformare i ceti subalterni in “bestiame votante”.
Scuola e università sulle quali si è investito e se ne è difesa la dignità non consentirebbero di togliere il pane di bocca alla povera gente per arricchire chi vende armi. Non sarebbe possibile fingere di ignorare i rischi che stiamo correndo. I giovani saprebbero che bastò un colpo di pistola esploso da uno studente nazionalista serbo per scatenare la prima guerra mondiale, di cui fu poi figlia la seconda. Saprebbero che, come oggi, anche allora una società corrotta e violenta – la chiamavano Belle Epoque! – e tutti i guerrafondai escludevano che la guerra scoppiasse e invece ci fu. Feroce come non mai. Tutti ricorderebbero l’uso delle armi proibite: i gas per cominciare, fino alle bombe atomiche sganciate sul Giappone inerme da un criminale non meno criminale di Biden. Scuola e Università avrebbero coltivato la libertà del pensiero e tanti avrebbero dubitato. Tanti si sarebbero ribellati.

C’è una lezione che è stata purtroppo cancellata dalla nostra formazione: nulla più di un sistema formativo libero ed efficiente risulta pericoloso per il potere politico fondato sul pensiero unico. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, uno zar riformatore decise di dare libertà d’insegnamento ai docenti democratici, rese gratuita la scuola di base, alla quale ebbero accesso i figli dei contadini, creò rappresentanze studentesche che giunsero a gestire le biblioteche. La riforma fu prima osteggiata dall’aristocrazia, poi cancellata. I poveri stavano imparando a valutare e a pensare con la propria testa e il rischio sembrò evidente.
In quei pochi anni, tuttavia, crebbe la generazione che scatenò la rivoluzione russa.
Non ci vuol molto a capire perché sia necessario delegittimare i docenti e distruggere il sistema formativo nato dalla Resistenza e dalla Costituzione antifascista: perché bene o male sono il primo, vero baluardo della civiltà e della democrazia. Le conseguenze ormai sono evidenti: ovunque guardi, trovi barbarie e le libertà conquistate dai nostri padri e dai nostri nonni versano in stato comatoso. Non è un caso. È un progetto politico folle che ci sta conducendo alla sparizione del genere umano.

Agoravox, 1 febbraio 2023

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Quando «Fratelli d’Italia» ha definito l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione) un inutile carrozzone, la domanda del mondo della formazione sulla sorte che l’«Unione Popolare» riserva all’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario) e all’INVALSI si è fatta pressante.
Sia pure confusamente, docenti, personale non docente e studenti, molti dei quali voteranno per la prima volta, intuiscono il rapporto diretto che lega il ruolo di questi organismi, l’inefficienza crescente del sistema formativo e la grave crisi della nostra democrazia. Per dare risposte adeguate, occorrerebbe probabilmente partire da lontano, ma in una campagna elettorale condizionata dalla mancanza di tempo, si punta il dito anzitutto sui dati macroscospici: investiamo su università e scuole pubbliche, assumiamo, cancelliamo l’aziendalizzazione e le rovinose riforme Gelmini e Renzi; basta con classi pollaio, tasse e precariato. Finisce così che, pur essendo un problema di fondo, dimentichiamo le agenzie di valutazione, delle quali non si percepisce immediatamente il ruolo negativo e lasciamo che sia la Meloni a dure che l’INVALSI è un «inutile carrozzone».
E’ un vuoto pericoloso? Sì, perché manca una riflessione sulle conseguenze prodotte dalle misure neoliberiste sul mondo della conoscenza e quindi nella società. Si può supporre che una di queste conseguenze sia, per esempio, l’origine di seri problemi di partecipazione? Penso di sì. Penso che dovremmo anzitutto capire come siamo giunti al punto in cui siamo e quali meccanismi producono l’indifferenza o addirittura l’adesione di studenti e docenti. Individuarli consente di comprendere se e quanto c’entrino con la formazione e come si possa eventualmente smontarli.
Esiste ormai almeno una generazione di giovani docenti e studenti soffocati nei confini disegnati via via da Bassanini, Berlinguer, Moratti, Gelmini e Renzi e formati in scuole e università dominate dalle agenzie di valutazione. Una generazione, forse qualcosa in più di una generazione, cui sono stati sottratti gli strumenti che formano il pensiero critico, la capacità di pensare e valutare liberamente con la propria testa, che in fondo è anche capacità di opporsi, di non rassegnarsi, di non cedere all’egoismo, all’indifferenza e al qualunquismo.
E’ vero, contano i dati materiali, ma l’aria che respiriamo non conta? Il lavaggio del cervello che parte dalla scuola, passa per la televisione e i social e non trova freni nella famiglia, un peso non ce l’ha? E che ruolo ha giocato tutto questo nella sconfitta della sinistra? Una sconfitta culturale, prima ancora che politica, come ci dicono chiaramente i milioni di voti, non solo meridionali e comunque di ceti popolari, toccati ai 5 Stelle nel 2018, che si sono poi significativamente incontrati con gli altri milioni di voti finiti alla destra leghista.
In genere si pensa a un regime anzitutto come repressione, ma è una visone miope. Un regime reprime, ma mira anche a costruire consenso. Per riuscirci, sterilizza la conoscenza intesa come potenziale arma di lotta e manipola il pensiero. Se ignoro i miei diritti, se non li riconosco nemmeno come tali, non rifiuto lo sfruttamento, ringrazio lo sfruttatore e divento addirittura ostile a chi lo combatte. All’inizio della storia del movimento operaio e socialista, gli operai e i braccianti ringraziavano i loro carnefici e se elargivano «benefici», li definivano «padri dei lavoratori».
Torniamo al punto. Sono anni che l’università è il laboratorio in cui il neoliberismo forma i futuri docenti e ne fa preziosi veicoli di quel «pensiero unico», che essi poi insegnano nelle scuole alle nuove generazioni. I contenuti di tale insegnamento sono selezionati da un sistema di valutazione che, di fatto, è uno strumento di controllo sulla cultura. E’ vero, scuole e università adeguatamente finanziate dallo Stato, sono un bene comune decisivo, in grado di consentire la crescita sociale e la realizzazione di ciò che il giovane Gramsci chiese ai suoi coetanei, quando scrisse: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza».
Le cose però non stanno così. Noi riusciamo ancora a vedere – e perciò li combattiamo – gli effetti macroscopici delle politiche neoliberiste: livelli di precarietà elevatissimi nell’area docente, sfiducia degli studenti e calo delle immatricolazioni. L’Italia, ultima in Europa per percentuale di laureati, impone restrizioni al passaggio scuola superiore-Università; benché la crescente povertà causi la rinunzia all’iscrizione e i numerosi abbandoni, la tassazione universitaria pubblica è più alta che altrove e abbiamo creato figure paradossali, quali gli «idonei non beneficiari», giovani, cioè, ai quali si riconosce il bisogno di un sostegno che però non avranno. Il diritto allo studio è ormai un’astrazione; l’università, indebolita dalla penuria dei finanziamenti e isolata dal contesto sociale, è sempre meno accessibile ai ceti subalterni. La sua decadenza è tra le cause fondamentali del decadimento culturale, etico e politico della Repubblica.
Così ridotta, l’Università va rifondata, ma è necessario che la gente capisca. Se diciamo INVALSI, c’è ancora chi sa che si tratta di assurdi criteri di valutazione e prova a boicottare. Se invece diciamo ANVUR, parliamo non solo di una inaccettabile valutazione, ma anche di meccanismi che diventano addirittura controllo sulla cultura; molti però non sanno, pochi si rendono conto e non è facile difendersi. Così com’è, la valutazione della ricerca è una galera per i ricercatori e un furto per gli studenti. Se non ne denunciamo la reale funzione, non sarà mai chiaro dove si nasconde uno dei principali nemici di una formazione critica generalizzata e di alto livello, sottratta agli interessi delle imprese e alle loro logiche di corto respiro.
La formazione ha il suo principio-guida nella Costituzione, laddove, mettendo ordine e armonia tra uomo, lavoro e società, dice che quest’ultima è fondata sul lavoro e che la sovranità non appartiene al mercato, ma al popolo. Solo seguendo questa bussola, Scuola e Università possono insegnare, per esempio, che le risorse della natura non sono un patrimonio a disposizione delle ragioni del profitto, ma fanno parte di un ecosistema che ha inviolabili equilibri; dal loro rispetto dipendono la nostra vita e quella di chi abiterà la terra dopo di noi. Tuttavia Scuola e Università non possono più farlo efficacemente, perché gli equilibri ambientali sono subordinati ormai agli interessi economici che dettano legge anche nel mondo della formazione. Occorre perciò impedire che l’ANVUR continui a costruire sacerdoti del pensiero unico e a spegnere nella maggior parte degli studenti la capacità di organizzare resistenza.

Ecco la risposta alla domanda da cui siamo partiti. L’ANVUR è un’agenzia che fa della quantità della produzione scientifica la misura della qualità di lavori che le commissioni non leggono. Per l’ANVUR, una ricerca vale se l’editore conta molto, se c’è chi la cita – gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore «produce» molto e partecipa a convegni internazionali. Grazie al criterio della «misurazione quantitativa», una commissione ha regalato una cattedra a un giovane che in tredici anni, dalla laurea al concorso, ha sfornato otto saggi e «curato» nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo, come Cristo i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista. In pratica 200 pagine all’anno per tredici anni. Non bastasse, ha organizzato undici convegni, detto la sua in quarantuno simposi, seminari, workshop e festival nazionali e internazionali, ha valutato come revisore «prodotti di ricerca» su riviste italiane e straniere, ha presentato quattro progetti nazionali e internazionali e ha partecipato ai lavori di otto comitati scientifici. Naturalmente la commissione, che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, non s’è posta la domanda cruciale: quanto tempo ha potuto dedicare alla ricerca?
Si sa che il valore della ricerca è la sua qualità, che si misura in base a metodologia, originalità, capacità innovativa e ricchezza creativa. Un progetto di qualità può richiedere anche anni di lavoro. Che credibilità ha un giudizio dell’ANVUR, che, fondata su logiche produttivistiche, impone alla ricerca vincoli temporali? E soprattutto, a che serve una simile valutazione e quali effetti produce sull’insegnamento? La risposta è semplice: l’ANVUR, che conosce il forte legame esistente tra «grandi editori» e «baroni», che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce di fatto ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se studio gli anarchici, non pubblico i risultati delle mie ricerche e non vinco concorsi. Di conseguenza studierò altro e nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Se voglio occuparmi di salute mentale e seguire la scuola di Basaglia e Piro, non otterrò cattedre con le mie ricerche, perché non troverò editori. O rinuncio, o batto la via farmacologica. La conseguenza è una salute mentale che torna a soluzioni repressive, narcotici e letti di contenzione e una università dalle quali sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e del disagio come male sociale.
Potrei continuare, ma ormai dovrebbe esser chiaro. Valutare per controllare vuol dire imporre dall’esterno «obiettivi di valore» che ispirano periodiche verifiche della qualità dell’insegnamento; significa creare docenti che tutelano potere e mercato. Significa decidere cosa diranno i libri di testo. E’ questo meccanismo che rende apatico lo studente, impreparato e subordinato il docente formato al pensiero dominante. E’ da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava sugli studenti, ma è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica.

Agoravox, 12 settembre 2022

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incuboSulla «Buona scuola» di Renzi e sulla legittimità della legge che l’ha imposta al Paese che si opponeva, non si è andati molto più in là di giudizi «tecnici» rispettabilissimi, ma centrati su aspetti singoli del provvedimento. Valga, per tutti, quello autorevole e ben fondato del giudice Imposimato, per il quale una sentenza della Corte Costituzionale ha già bocciato per l’arbitrarietà dei criteri di selezione del personale nell’amministrazione Pubblica un esperimento di chiamata diretta da parte dei presidi voluto dalla regione Lombardia, .
Giorni fa, tuttavia, e non è certo un caso, su “Fuoriregistro“, rivista on line della scuola militante che una storia ce l’ha, Enrico Maranzana ha posto il problema in termini più generali, dimostrando quale profonda ferita abbia procurato Renzi non alla scuola, ma alla legalità repubblicana. L’ha fatto con la penna lucida, caratteristica della parte migliore del mondo della formazione, e con lo «sguardo lungo» d’una rivista che non ha mai cantato nel coro.
Come l’Esecutivo dovrebbe ben sapere, ha osservato, infatti, Maranzana, «l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti». Non si tratta dell’invenzione estemporanea di un astuto avversario di Renzi; siamo di fronte all’articolo 76 della Costituzione, che superò le fondate riserve di quanti vedevano nella «delega» una menomazione del prestigio delle Camere, solo quando, dopo un’accesa discussione, si giunse a un accordo sulla formula del «tempo limitato». In altri termini, quando si decise che in tema di deleghe la Costituzione imponesse al Governo due limiti insormontabili: il rispetto dei tempi e dei criteri previsti e il principio per cui la firma del Presidente della Repubblica sulla legge che ne deriva esaurisce il valore della delega accordata. Così stando le cose, annota Maranzana, «la legge 107/2015 infrange tale principio», perché dichiara esplicitamente che la sua ragione d’essere è una legge delega: «La presente legge», scrivono infatti gli estensori, con singolare improntitudine, «dà piena attuazione all’autonomia delle istituzioni scolastiche di cui all’articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni». Essa non si propone, però, di dar vita a un «sistema educativo di istruzione e formazione» come volle la legge 53/2003, ma ad un «sistema nazionale di istruzione e formazione».
Cosa si nasconda dietro lo stravolgimento dei limiti costituzionali di ogni «legge delega» e l’inaccettabile formula delle «successive modificazioni» non è facile dire, ma ancora più difficile è capire quali siano i valori morali che ispirano l’azione politica di un Governo capace d’ignorare un dato incontrovertibile: la legge cui fa riferimento, firmata da Bassanini, non rimase lettera morta, ma consentì a Luigi Berlinguer di ottenere la promulgazione del DPR 275/99 che, di conseguenza, estinse l’efficacia della delega che il governo arbitrariamente resuscita, restituendole una falsa legittimità.
Come abbia potuto firmare un simile sconcio, il Presidente Mattarella è un mistero glorioso; sta di fatto, però, che il tema della «legittimità» domina ormai la vita politica di un Paese nel quale invano la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale da cui sono nate le Camere; le stesse che oggi «riformano» la Carta costituzionale, benché prive di una sia pur minima legittimità etica e politica. Quelle Camere – va ricordato – i cui componenti, nella inedita veste di «grandi elettori» che nessuno ha eletto, ci hanno regalato un Presidente della Repubblica che, firmando la legge sulla scuola, di tutto si è preoccupato, tranne che della sua legittimità rispetto alla libertà d’insegnamento, ai limiti imposti ai poteri dell’Esecutivo e alle regole che fissano i criteri d’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni.
A bene vedere, perciò, la domanda che, in ultima analisi, «Fuoriregistro» pone al Paese, non riguarda la scuola, ma la legalità repubblicana: come si impone la legittima sovranità popolare all’arbitrio di un Governo sempre più illegittimo?

Fuoriregistro, 2 agosto 2015; Il Manifesto, 8 agosto 2015

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Bomba d'acqua su Pisa (Stefano Degl'Innocenti)Il paese è migliore di quanto mostri il surreale duello quotidiano tra  «rottamatori» di Renzi e «rottamati» di Bersani. La scuola, per far riferimento a un pilastro fondante della società che Renzi crede di poter distruggere impunemente, è molto meno rassegnata di quanto si pensi. Basta conoscerla per sentire il fremito che muove l’aria nelle aule cadenti. E non è questione di precari, di sacrosanta amarezza per il lavoro promesso e negato, di salari, ferie o problemi per cui è facile tirare in ballo l’egoismo corporativo e i gufi conservatori. E’ ben altro: uno stato febbrile di coscienze allarmate, un’inquietudine profonda che coinvolge docenti «garantiti», personale amministrativo, studenti e famiglie più consapevoli. Chi ha memoria ricorda l’indignazione sorda, crescente e inascoltata che annunciò l’esplosione inattesa per il «concorsaccio da sei milioni» e segnò la fine di Luigi Berlinguer.
E’ vero, a quei tempi il governo non poteva contare sulla macchina da guerra che spiana la via a Renzi, ma non è meno vero che Berlinguer non si era spinto al punto da bocciare sprezzantemente una legge d’iniziativa popolare nata dall’impegno di intelligenze acute e dalla passione competente della scuola militante. Non c’è anestetico in grado di cancellare il dolore per la violenta coltellata inferta alla scuola e alla democrazia da un governo geneticamente debole, come quello di Renzi, sfiduciato alla nascita da una sentenza della Corte Costituzionale che delegittima politicamente e moralmente questo Parlamento di figuranti.
Le manifestazioni si annunciano a catena Gli argini reggeranno? Se il fiume carsico che diventa sempre più impetuoso troverà sbocco nello sciopero del 12 maggio, che minaccia di far saltare le prove Invalsi e mettere insieme i docenti, gli studenti, i genitori più consapevoli, la Cgil e il sindacalismo di base, gli argini salteranno e faranno strada a una bomba d’acqua simile a quella che travolse Berlinguer.
Benché blindata, la malaccorta consultazione sulla «Buona Scuola», voluta dal governo per dare una mano di vernice democratica a un’operazione profondamente reazionaria, non solo è naufragata pietosamente, ma si è trasformata in un boomerang micidiale, animando un’opposizione motivata e competente, che non lascia spazi ai twitter. E’ accaduto di tutto: più di duecento mozioni contrarie cestinate con infinita arroganza, l’inevitabile protesta repressa a colpi di polizia e soprattutto, inattesa, la resurrezione di Comitati agguerriti a sostegno di una Legge di iniziativa popolare che, sottoscritta da centomila cittadini è diventata un’alternativa concreta alle proposte inaccettabili del governo. Un’alternativa sprezzantemente respinta pochi giorni fa, in sede referente, da Commissioni Parlamentari formate da illustri sconosciuti che nessuno ha mai eletto. La sfida ha i connotati dell’oltraggio ed è resa più grave dai contenuti del disegno governativo che, tra annunci da venditori di tappeti e imbarazzanti rinvii, è più insolente e liberticida di quella «Legge Aprea», bloccata nel 2011 da una mobilitazione forte e corale.
In spregio della Costituzione, il governo stavolta va ben oltre la fallita sortita berlusconiana. Se la legge Aprea assegnava al dirigente scolastico potestà di chiamata diretta dei docenti, Renzi va oltre, attribuendo ai capi d’Istituito il potere di licenziare i docenti a proprio  esclusivo giudizio, anche per il mancato superamento dell’anno di prova. Se Aprea spalancava le porte della scuola ai privati e alle imprese, introducendoli nei consigli d’Istituto, Renzi, con scelta scellerata, assegna ai Dirigenti Scolastici il potere di gestire da soli e direttamente i rapporti con le forze economiche territoriali, pronte a condizionare la formazione e l’istruzione, a fare della Scuola un mercato che sdogani il lavoro minorile e al nero e offra alle imprese manodopera abbondante, gratuita e senza tutela. In una sorta di delirio di onnipotenza, Renzi, chiede per sé qualcosa come 13 deleghe, compresa quella di ispirazione fascista che dice di riformare – ma di fatto sopprime – gli Organi Collegiali.
Questa la portata dell’attacco, che non è rivolto ai docenti, come lascia strumentalmente credere il complice circo mediatico, dopo l’oscena campagna sui «fannulloni». E’ una sfida violenta, che mira a colpire le Istituzioni democratiche del paese, di cui, piaccia o no, la scuola è trave portante. D’altra parte, Renzi non ha scelta: nega la funzione costituzionale della Scuola perché la Costituzione è il principale ostacolo alla realizzazione del suo progetto reazionario e non basta stravolgerla nelle aule del Parlamento: va sradicata dalle aule scolastiche in cui si formano i cittadini, potenziali nemici di Renzi finché non saranno ridotti a bestiame votante. Di qui l’attacco alle pari opportunità, di qui le scuole di diverso livello e le risorse iniquamente distribuite.
In quanto ai docenti, non c’è dubbio: per piegare il Paese, occorre piegarne la resistenza, per debole che possa apparire. Si spiega così la scelta di creare albi regionali, abolire la titolarità di cattedra per gli insegnanti di ruolo, qualora siano costretti a ricorrere alla mobilità territoriale o professionale, e costringerli all’inferno del precariato; si spiegano così il lavoro decontrattualizzato, le valutazioni arbitrarie, affidate alla via scivolosa dei test Invalsi, frutto velenoso dell’intrusione di Confindustria nella didattica, e infine la soppressione della libertà d’insegnamento, che l’articolo 33 della Costituzione tutela, in quanto primo confine tra democrazia e regimi autoritari. Il ricatto ai precari, che l’Europa ci impone di immettere in ruolo e Renzi recluta solo a condizione che accettino la mobilità selvaggia e il demansionamento, insegnando materie per cui non sono abilitati, la distruzione della collegialità, con le diverse componenti della Scuola escluse dalla costruzione del progetto formativo, sono il prezzo che Renzi paga ai suoi sponsor: i padroni, che pretendono una scuola classista, che sia fabbrica di sfruttati e di rassegnati soldatini del capitale.
Se non trova un freno immediato, questa è la cifra reale della scuola di Renzi: non più la preziosa fucina socratica della coscienza critica, ma l’anticamera di un ufficio di collocamento.

Fuoriregistro, 17 aprile 2015 e Agoravox, 18 aprile 2015

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Non si comprende bene ciò che significa il ddl 953 (già legge Aprea), se non si hanno presenti l’articolo 3 della Costituzione, che attribuisce alla scuola il ruolo essenziale di rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno esercizio della cittadinanza, e l’articolo 5, che limita il campo delle autonomie locali alle esigenze del decentramento amministrativo. Sono questi articoli che danno valore di dettato costituzionale alla libertà d’insegnamento e all’istituzione della scuola della Repubblica per sua natura gratuita e obbligatoria.
Non ci sono dubbi: letto senza pregiudizi, il Decreto 953 si rivela del tutto incompatibile con i vincoli normativi definiti dalla Carta costituzionale. E non si tratta, come si tenta di insinuare da più parti, di un giudizio nato all’interno del mondo della scuola per ragioni puramente ideologiche, spinte conservatrici e ostilità preconcetta a non meglio identificati venti di cambiamento. E’ vero, al contrario, che il governo affronta una questione di fondamentale importanza per la società italiana come se si trattasse di una dettaglio privo di rilievo, senza coinvolgere in alcun modo né i cittadini, che non possono certo essere estranei o indifferenti nei confronti della scuola, né i docenti e gli studenti, che la scuola la “fanno” e ne vivono perciò la realtà e i bisogni. E’ inaccettabile che l’ex legge Aprea, mutata in alcuni dettagli ininfluenti, si faccia passare sotto le spoglie di un anonimo decreto, nell’ombra fidata degli incontri tra segreterie dei partiti, e si discuta “al chiuso”, in Commissione.
Nel merito, la legge, prodotta da politici piovuti in Parlamento dall’alto, cancella gli organi collegiali, nati dai decreti delegati nel 1974, sotto la spinta di un “riformismo” prodotto dal basso, e li sostituisce con organi di autogoverno che ciascuna scuola regolamenta a suo piacimento, con un suo statuto e propri regolamenti. Non bastasse questa sorta di Torre di Babele, la legge consente a privati e soci in affari di entrare in pompa magna negli organi di governo della scuola, compreso quello che si occupa della valutazione, il nuovo feticcio del neoliberismo.
All’intelligenza del ministro Profumo e dei suoi sottosegretari Rossi Doria e Ugolini, tutto questo appare materia priva di importanza nazionale.

La verità, per tornare al contesto del dettato costituzionale, è ben diversa, perché è evidente che una scuola statale affidta a una pluralità di principi soggettivi, fissati in statuti e regolamenti autonomi, l’uno diverso dall’altro e magari contrapposti, significa creare una istituzione che non ha nulla a che vedere con il sistema formativo diseganto dalla Costituzione. La legge ha una sua logica interna e produce un effetto devastante: non avremo più un sistema formativo fondato su caratteri comuni a livello nazionale, ma una miriade di “aziende”, legate a scelte discrezionali, diverse e – perché no? – divergenti. Non più una scuola della Repubblica, quindi, ma migliaia di repubbliche chiamate scuole, l’una scollata dall’altra, tutte condizionate delle più svariate ingerenze di interessi privati particolari e dal ruolo predominante del capo d’Istituto, cui corrisponde l’indebolimento di quello svolto da docenti e studenti. A ben vedere, una vera nebulosa di repubbliche autoritarie. E’ l’epilogo fatale di una concezione dell’autonomia voluta dalla sedicente “sinistra” di Berlinguer, che sin dall’inizio minacciava di stravolgere la natura di una scuola nata come patrimonio della Repubblica, chiaramente definita da una Costituzione che fissa i criteri oggi violati: il finanziamento esclusivamente statale, per vincolo di legge, della scuola della Repubblica e la sua distinzione netta da quella privata, finanziata invece esclusivamente e per obbligo di legge dalla proprietà privata, senza alcun concorso di denaro pubblico.
Così stando le cose, non ci sono dubbi: Aprea e i nominati che la sostengono, stanno disegnando una scuola che rinnega i principi su cui si fonda il sistema formativo voluto dai deputati eletti nell’Assemblea Costituente. Anche da un punto di vista puramente linguistico, che non è ovviamente formale, ma sostanziale, Aprea e Profumo si collocano agli antipodi del dettato costituzionale. Cercare nella Carta costituzionale una scuola definita “servizio”, un sistema formativo degenerato nell’indeterminatezza del “bene comune” o, peggio ancora, nell’ambigua formula della “comunità educante” sarebbe fatica vana. In quanto al linguaggio mutuato dal mercato, di cui l’esempio classico è l’offerta formativa, chiunque può da solo verificare: siamo su un altro pianeta. In un quadro di valori fatto di un merito anteposto alla solidarietà e di una qualità che sfocia nella concorrenza, Aprea volutamente nega il ruolo primario della rimozione di ogni ostacolo, sia economico che sociale, della promozione dell’eguaglianza tra cittadini come garanzia di libertà e democrazia.

Passa in Parlamento, senza discussione tra i cittadini, il frutto avvelenato di un leghismo inaccettabile nella sua ispirazione separatista, figlio di un volgare, acritico e astorico egoismo regionalista, che sacrifica il principio della pari opportunità e mette a repentaglio il ruolo di un sistema formativo che muta col mutare dei “confini” territoriali, per fare del Nord un corpo estraneo al Sud e disarticolare la Repubblica. Passa per la porta di servizio, ma non fa danni minori, un attacco alla libertà d’insegnamento, delineatosi nelle reiterate richieste di “controllo” politico sui libri di testo, nell’imposizione di una “verità storica di Stato”, che legge le foibe in senso antislavo e anticomunista, che aggredisce l’antifascismo e la Resistenza, spezza il filo della trasmissione della memoria come patrimonio comune delle diverse generazioni e apre la porta a un autoritarismo di fatto. Aprea segna così la fine della scuola della repubblica e dimostra che anche in questo delicatissimo campo della vita nazionale, la crisi si fa strumento di un progetto politico sempre più chiaramente orientato in senso classista, sempre più connotato come attacco ai diritti e alla democrazia di cui è garante per quello che può una Costituzione che non è figlia del “libro nero del comunismo”, ma del compromesso tutto sommato nobile tra forza di ispirazione antifascista, siano state esse moderate o progressiste .
In questa bufera fare scuola, difendere la libertà del pensiero critico, la trasmissione quanto più possibile corretta e pluralista della nostra memoria storica, della nostra identità culturale e del patrimonio di lotte sociali che sono garanzia di un rapporto fecondo tra le generazioni, non è impresa facile, ma sarebbe davvero un crimine rinunciare alla lotta. Un insegnante privato della libertà d’insegnamento non può più assolvere alla sua funzione docente. Si può piegare il capo, in fatto di stipendi, non si può cedere sul terreno dei principi. I titolari della scelte dei contenuti e delle impostazioni metodologiche e didattiche sono i docenti e nessuna legge può legalmente imporre a un insegnante della scuola statale di dipendere su questo terreno da soggetti e interessi privati, da finanziatori e sponsor che si statuiscono allo Stato. A scuola non possono esistere altri “datori di lavoro” se non le Istituzioni repubblicane definite e riconosciute dalla Costituzione. E’ tempo di obiezione di coscienza o, se non dovesse basta, tempo di una lotta senza quartiere della quale la responsabilità è tutta e solo di chi ha scelto la via autoritaria. Noi siamo di fronte a un dilemma tragico: ubbidire a una violenza legale – come avvenne ai tempi del fascismo – o sopportare con coraggio e fermezza le conseguenze di un no. Ed è chiaro a tutti: più numerosi saremo, più possibilità ci saranno di limitare i danni. Da Bassanini a Brunetta si è lavorato per condurci al bivio. C’è chi dice che questa legge si tiene volutamente al limite della legittimità costituzionale e si prepara alla resa mentre il Ministro Profumo programma aumenti d’orario e diminuzione di stipendi: “più bassi per chi vuole lavorare solo la mattina“, uguali a quelli attuali “per chi accetta l’aumento delle ore“. Chi è più attento coglie la portata della ferita arrecata al tessuto democratico del Paese, intuisce che un attacco eversivo viene ormai apertamente dall’alto e sa che di fronte abbiamo un bivio: ci tocca scegliere tra dignità e quieto vivere, rassegnata vergogna e orgogliosa ribellione. La sorte della democrazia, i diritti conquistati lottando e il destino stesso dei nostri figli, tutto è ancora nelle nostre mani.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 ottobre 2012

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In maniera subdola, i pedagogisti che fanno capo al PD si schierano per le prove Invalsi e non fa meraviglia. Berlusconi e Gelmini hanno solo chiuso il cerchio e non a caso quel galantuomo di Berlinguer ha elogiato più volte il ministro della distruzione. Come si può, rispondiamo tutti. Io ci ho provato così. Ma è come affrontare i tank con una cerbottana…

Si dice – e l’attenzione va alle prove Invalsi – che “il test è uno strumento di indagine finalizzato a rilevare dati oggettivi“. Si aggiunge, con rivelatrice “prudenza difensiva” – che è vero, sì sono strumenti “poveri” e ce ne sono di più “ricchi“. I “reattivi, le conversazioni mirate, certi tipi di questionari, gli elaborati scritti. Nasce così il paradosso di un riconoscimento che afferma e nega: ci sono strumenti “ricchi” ma scegliamo quelli “poveri“. Perché? Anacronistica passione proletaria? Evidentemente no. Nobile o ignobile, sono punti di vista, la ragione è un’altra. E’ che la Costituzione, sputacchiata in tema di privatizzazione del sistema formativo, guerra, uguaglianza di fronte alla legge, libertà di stampa, opinione, ricerca, diritto allo studio e chi più ne ha più ne metta, la Costituzione formalmente c’è, esiste ancora e, se qualcuno ne ha bisogno, la tira in ballo per sostenere tesi peregrine, allinearsi al potere e far la guardia armata del “pensiero unico“. Quel pensiero che sottende il sedicente “mondo globalizzato” e tiene insieme, di volta in volta, senza problemi di comune senso del pudore, Gheddafi e Berlusconi, la “democrazia” di Obama e il cinese disprezzo dei diritti umani.

La Costituzione, quindi. Ecco la colpevole del paradosso! I test Invalsi non hanno grandi pretese, ma c’è un obbligo: “verificare“. Cosa? Se si sono raggiunti finalità e obiettivi prescritti da Indicazioni nazionali e norme generali pubblicate dal Miur, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, non più pubbliche, ormai, ma qui siamo permissivi e della Costituzione antifascista … ce ne freghiamo. Lo prescrive e fa comodo stavolta rispettarla.
Si sussurra anche, ma puntuali piovono smentite, di utilizzazioni politiche improprie, che starebbero a cuore alla tecnocrazia: valutare scuole e docenti come fossero aziende e “quadri“, a fini retributivi, dividere i fedeli dagli infedeli al verbo del Capitale, “orientare” l’insegnamento verso “obiettivi formativi” cari a Confindustria e in linea con la mercificazione del sapere che impazza nel letamaio nobilmente etichettato come “Unione Europea”. Che dire? Sarebbe auspicabile, anzitutto, una verifica della competenza del Ministero, ma qui la docimologia fa posto alla politica e conta solo il consenso, che, tuttavia, non è sinonimo di competenza.

Certo, una verifica nazionale delle competenze, che non sia decontestualizzata, che punti ad accertare, in primo luogo, se stiamo tirando su intelligenze critiche e cittadini che non si rivelino poi “bestiame votante“, che investa più risorse, dove più si registrano insuccessi e problemi, una verifica nazionale di questo genere sarebbe non solo necessaria, ma auspicata da tutti gli insegnanti degni di questo nome. E sono la maggioranza, checché ne pensino Gelmini, Brunetta e Berlusconi. La resistenza non nasce dalla volontà di chiudersi in classe e fare da riferimento di se stessi. Si chiedono, piuttosto, verifiche che non abbiano fini aziendalistici, non accertino semplicemente il numero di chi sa quanto fa due più due, ma mostrino anche quanti hanno capito che la somma di due asini e due gatti non fa quattro. Verifiche che riconoscano il valore “relativo” di un risultato, perché, teorie a parte, che due più due faccia o no quattro, una cosa è che risponda bene il figlio d’un analfabeta, in una classe piena zeppa d’immigrati abbandonati a se stessi, in una scuola fatiscente che non ha un soldo da spendere, un’altra che risponda – o non risponda – chi alle spalle ha famiglia colta e benestante, in una classe “equilibrata“, con un “numero di problemi” e un rapporto numerico docenti-studenti accettabile, in una scuola attrezzata che ha risorse da investire.

A Scampia, terra di camorra, il gatto non esiste, c’è la “iatta“, femminile che comincia per i, e il topo si chiama “zoccola” maschile che comincia con zeta. I maestri, meglio se non “unici, “creeranno” gatti e topi in un percorso che non si misura coi parametri della “Milano bene”. Se l’Ispettore o l’Invalsi di turno si presentano a metà del percorso, coi loro test sul gatto e sul topo e, come accade talvolta, con le domande “à la page” sui colori dei pois della cravatta di papà, il risultato è uno e già noto e la domanda antica: chi custodirà i custodi?. Tra ragazzi e docenti, a Scampia, ci sono intelligenze lucide e valorose. E’ mancato sinora lo Stato. Se ora, si presenta per “verificare”, benvenuto. Nessuno ricordava più che esistesse, ma va bene. Per favore, però, prudenza e umiltà. Non sono i gradi a fare i buoni generali.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 marzo 2011

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Viene da Napoli e merita un commento.

Comunicato

Si chiarisce in termini sempre più gravi quello che è successo oggi a Materdei: Una piccola piazza Navona! […] Di sei-sette studenti, alcuni attacchinavano e altri seguivano coi motorini per monitorare la situazione viste le aggressioni già registrate su quel territorio. […] All’altezza di piazzetta Materdei è sbucata dal vicolo una squadra di 15 persone con caschi e mazze tricolori, nella triste re-miniscenza di piazza Navona, urlando “il quartiere è nostro!”[…]
Gli studenti sono stati aggrediti con spranghe e mazze! Con sé non avevano niente se non il secchio e la scopa per attacchinare. Il tutto è avvenuto in pieno giorno in mezzo al quartiere e quindi tanta gente ha potuto vedere coi suoi occhi quello che è successo e come sono andate le cose! […] uno degli studenti della Rete, L.T. di 19 anni, ha subito diverse botte con le mazze e in questo momento è all’Ospedale Cardarelli. I medici gli hanno riscontrato un grumo di sangue nei polmoni e un principio di enfisema (una bolla d’aria che comprime il polmone prodotta probabilmente dagli “urti” delle mazze…)
Rete antifascista e antirazzista napoletana

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A Roma, quando uccisero barbaramente un ragazzo inerme che non sapeva far male nemmeno a una mosca, l’allora sindaco Veltroni non volle sloggiare “Casa Pound“, perché – spiegò gelidamente alla madre del ragazzo – avrebbe dovuto fare altrettanto coi centri sociali. E non servì a nulla che, disperata, la donna replicasse che i ragazzi dei centri sociali non organizzano agguati, pestaggi e omicidi.
A Napoli la sindaca Iervolino, presa in mezzo tra vecchi squadristi ed ex “rivoluzionari da operetta, s’è aperta subito al dialogo, come fanno da tempo i “nominati” di Bersani. Va così ovunque: i neofascisti sprangano e accoltellano e, impassibili, vecchie e nuove reclute della “democrazia” fanno le fusa e sbandierano ai quattro venti le virtù terapeutiche del dialogo.
Non è un impazzimento. E’ molto peggio. E’ tolleranza di facciata, caccia agli scampoli di potere nella crisi di un sistema politico che, non a caso, vede nell’occhio del ciclone la Costituzione e quel sistema formativo che ne è una delle travi portanti. E’, per usare una formula sintetica, la logica conseguenza d’un calcolato stravolgimento della cultura storica: il trionfo dei “senzastoria“, direbbe amaramente Arfè.
Come si è giunti a un simile disastro? Pochi e precisi passaggi e, a ben vedere, la biografia politica di Veltroni è il modello “esemplare” di un percorso che conduce alla lunga agonia della Repubblica nata dalla Resistenza: un comunista che rinnega se stesso – “io comunista non sono stato mai” – un chierico del soviettismo che passa alla all’ortodossia vaticana, un sindaco di sinistra che, quando in gioco è il consenso – scavalca la destra più forcaiola e giunge sino alla caccia all’uomo nel caso esemplare e tragico dei “rumeni stupratori“. E’, per dirla tutta, una ricerca di identità politica che non fa i conti con la storia, non nasce dal “chi sono“, ma s’applica sul “chi non voglio sembrare“. Nulla nasce dal nulla e il passaggio dall’antifascismo all’anti antifascismo è quello cruciale. Il filo rosso della storia di “Casa Pound” parte da Violante e dai suoi “ragazzi di Salò” e giunge a Berlusconi col fazzoletto di partigiano abbruzzese. Lungo la strada c’è la sinistra alla Veltroni, quella della via di mezzo e della corsa al centro.
Casa Pound” è l’esito fatale d’una dissennata operazione d’immagine, di un “lifting” devastante che “stira” le questioni di principio, rivitalizza le dichiarazioni di fede e si esprime col laser d’una pericolosissima torsione degli strumenti semantici e lessicali.
Il naufragio del “socialismo reale“, la ritirata frettolosa del Pci, trasformatasi fatalmente in rotta disordinata, la corsa affannosa alla sigle anonime e senz’anima – Cosa uno e Cosa due, Pds, Ds, Ulivo e Pd – la stagione zootecnica e botanica della politica, persa tra querce, asinelli, garofani, ulivi e rose multicolori, hanno prodotto uno stallo. Per un po’, al branco che tornava a mordere si sono flebilmente opposti lo stanco rituale della retorica antifascista e la liturgia della solidarietà. Il processo politico vero, però, quello che marca il cambiamento e ci conduce al presente riguarda la scuola e l’università. Da Berlinguer a Gelmini non c’è distinzione che tenga: per porre mano ai principi fondanti della Costituzione, occorre battere in breccia la memoria comune e condivisa di cui è custode la scuola. “Scuola e democrazia” non è una formula vuota, ma la piattaforma di cemento su cui poggia il sistema. Piegare la scuola era ed è l’obiettivo irrinunciabile di chi intende piegare la democrazia. Non a caso, i “maître à penser” che aprono a “Casa Pound“, recitano da guitti la parte dei Montesquieu: “è utile che le leggi esigano dalle diverse fedi che non disturbino lo Stato, ma altresì che non si disturbino a vicenda“. L’apertura a Casa Pound viene da brigatisti pentiti alla Morucci, da un sessantottino come Mughini, che tira addosso al Sessantotto e all’antifascismo di cui fu portabandiera – non ci penso nemmeno a definirmi antifascista – e, dulcis in fundo, da un rispettabile reduce di “Lotta Continua” come Ugo Tassinari che s’è perso negli studi sulla “destra radicale“. Per non dire di Marco Rossi Doria, passato dall’Autonomia Operaia al “giravite” di Fioroni.
Viviamo di “gesti liberatori” e di pulsioni neopacifiste. La scuola-azienda è chiamata a spiegare a generazioni di futuri sfruttati che economisti e giuslavoristi sono tutti d’accordo: la forza lavoro è merce svalutata, l’impresa la trova sul mercato a costo zero e l’eterno esubero vive d’elemosina a carico dei pensionati; in quanto al diritto internazionale, l’insegnamento è definito; grazie all’appassionata esportazione di democrazia, ci sono finalmente due diverse specie di dittatori: i nemici che vanno processati, uccisi e suicidati come Milosevich e Saddam Hussein, e gli amici, come Gheddafi, Mubarak, e Micheletti – coi quali si fanno affari d’oro e pazienza per i diritti umani. La scuola deve imparare ad insegnare – sostiene la Gelmini – E non ha torto. Chi l’avrebbe mai detto che i massacri di civili garantiscono la pace – e se ti prendono con le mani sporche di sangue ti dimetti – e che i “Comitati di Liberazione Nazionale” sono il primo esempio di consociativismo? Questa è la nuova storia, riscritta con limpida chiarezza da liberali alla Quagliariello: in una democrazia parlamentare comanda il capo, eletto dal popolo sovrano, perciò stiano zitti parlamentri e magistrati che non elegge nessuno. E’ una storia che rimette un po’ d’ordine nel pasticcio di Calamandrei e compagni: gerarchia, scuola fatta da domestici della borghesia, università che seleziona i padroni del vapore e, a garanzia del sistema, ecco Maroni, le ronde padane e i ragazzi di “Casa Pound“.
Vico insegna che la storia ha i suoi cicli, tuttavia, per favore, non parliamo di fascismo del terzo millennio: è come confondere l’Innominato e Don Rodrigo. Persino Mssolini si rivolta nella tomba.

Uscito su “Fuoriregistro” il 28 novembre 2009.

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Ho amato molto l’insegnamento, forse perché, da studente, i miei rapporti con la scuola sono stati decisamente difficili. Nominato maestro elementare di ruolo nel 1971, passato alla scuola media dell’obbligo nel 1976, dallo scorso ottobre sono un ex 113: docente addetto a mansioni diverse dall’insegnamento per ragioni di salute. Si conclude così, in maniera impensata e malinconica il mio percorso di insegnante. In realtà – e questa è davvero la cosa più triste – ormai sto bene e, volendolo, potrei tornare in classe, ma non ho alcuna intenzione di farlo. Il rapporto con gli studenti – tutto ciò che della scuola può mancare ad un insegnante cui hanno tolto la “classe” – non si è del tutto interrotto. Prosegue all’università – dove collaboro con la cattedra di storia contemporanea – e mi basta, anche se il lavoro non ha nulla a che vedere con quello che si fa di regola a scuola e spesso vi incontro “professori” che meriterebbero un’iscrizione d’ufficio a corsi intensivi d’alfabetizzazione didattica. Sono invece – ed è inutile dirlo – tra quelli che, di norma, vengono ogni tanto a scuola ad “aggiornare” il personale docente. L’inefficienza della nostra università è un dato ormai storico, una sorta di regola fissa del nostro sistema formativo. Ma non vi fa caso nessuno ed anzi è dall’università che proviene la gran maggioranza dei “riformatori”, che cianciano di scuola senza sapere di che parlano e arrecano al paese danni incalcolabili, senza dar conto a nessuno di quello che fanno. La verità è che da noi non c’è parte politica disposta a rinunciare ai servi sciocchi.
Come che sia, potrà apparire strano, ma, per quanto mi riguarda, da quando è stato soppresso l’insegnante che era in me, non avverto più sensi di colpa e non provo più vergogna. Dico soppresso, perché di morte violenta si è trattato e alla spiaggia delle “scarpe vecchie” quel mio disgraziato ospite fu trascinato a viva forza per il suo passato di sindacalista onesto – ce ne sono, anche se sono in via di estinzione – per l’ostinata resistenza opposta alla più o meno strisciante privatizzazione e per la lotta senza quartiere e senza speranze ingaggiata in perfetta solitudine con l’ultima preside passata per la sua strada, una vecchia sbavante per i fasti promessi ad una componente di primo piano di una delle più agguerrite tribù di servi sciocchi che popolano il pianeta formazione: i disponibili “manager” della scuola d’ispirazione confindustriale. Morto l’insegnante, libero d’un tratto è ritornato l’uomo. Lo sospettai da studente e lo scopro da docente, messo, s’intende, come prescrive la norma, a vegetare nel limbo dei fuori ruolo. E perciò, non serbo rancore, né per la CGIL, che non usa difendere antichi dirigenti provinciali in odore d’eresia, né per i colleghi, spettatori passivi, e talvolta complici, della “soppressione”, né per il “manager” ambizioso, killer per elezione, modello e prototipo del braccio armato di quella tragica farsa che Berlinguer definisce “riforma”, il cui compito – immaginate quanto possa contare l’omicidio d’un modesto professore – è soprattutto quello di condurre alla morte per strangolamento le caratteristiche peculiari della scuola dello Stato e, con esse, quanto spirito critico era ancora possibile produrvi. Ciò che si vuole è, per dirla con Antonio Labriola, una bella stalla per il “bestiame votante”. E sì, votante, perché nella fatale evoluzione che i tempi impongono alle cose, anche le forme esteriori dei regimi cambiano, e sarebbe d’una rozzezza estrema e di una totale inefficacia, imporsi di nuovo con l’olio di ricino e con i manganelli. E’ questione di stile, s’intende, perché, nei fatti, la sostanza non cambia, così come non cambiano certi particolari che andrebbero attentamente valutati: è solo un caso, per fare un esempio, se, per la seconda volta in una manciata di decenni, occorre un pugno di disertori perché il veleno imposto dai poteri forti sia prescritto come un’efficace medicina alla popolazione altrimenti diffidente?

Ecco, il cittadino è libero, morto il professore, perché non è più costretto a porsi ogni giorno la domanda logorante: – Come faccio a spiegarlo ai ragazzi?
E’ una domanda che ha tormentato per anni il mio malcapitato ospite. Una condizione di difficoltà crescente, iniziata al tempo della guerra del Golfo Persico, con le “operazioni di polizia internazionale” e la Costituzione calpestata. Una difficoltà che si è fatta compagna di vita e non è più sparita, ma è anzi cresciuta di giorno in giorno, di fronte alle spettacolari – e per certi aspetti impossibili – uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino, che indagavano sui rapporti tra mafia e politica; uccisioni che, incredibile a dirsi, sarebbero state “pensate” ed eseguite da una manciata di furfanti poco più intelligenti delle capre che custodivano; una difficoltà che si è fatta sensazione di soffocamento quando un’inchiesta subito “passata alla storia” e subito americanizzata dai media scatenati, ha colpito scientificamente un’intera classe dirigente, e con essa la storia della nostra giovane repubblica, ambiguamente ribattezzata d’un tratto la “prima”, come per segnale convenuto, benché nessun’altra l’abbia preceduta né seguita. Un’inchiesta costruita soprattutto sulla base d’una accusa che si è atteso decenni per formulare, d’un reato di cui tutti conoscevano perfettamente l’esistenza, giudici compresi, e che d’un tratto alcuni “magistrati” convertitisi alla riscoperta legalità hanno preso a contestare alle vittime predestinate. E non c’è stato chi abbia mostrato fastidio o si sia insospettito per un simile ritardo e per l’improvvisa ondata d’integralismo che ha caratterizzato l’inchiesta. Né sul tutto ha gettato ombre o sollevato dubbi il fatto che contro questi “impavidi magistrati” nessun pecoraio abbia mai pensato di esercitare la sua pur sperimentata capacità di ammazzare. Hanno parlato – i giudici – da tutti i pulpiti, hanno predicato, comandano, ammanettato, ma nessun arrestato è poi stato tenuto in galera, se si fa eccezione per un tal Cusani, che non si sa perché ci è finito da solo e, ciò che più conta, ci è restato. Hanno parlato, predicato, comandato, ammanettato, i giudici integralisti e se ne sono andati in giro tranquilli senza che nessuno abbia mai seriamente provato a colpirli, benché siano stati sempre molto meno protetti di quanto erano altri, che non ebbero certo il loro successo. Liberi, come l’aria nel cielo, sono andati e venuti, vanno e vengono, liberi e intoccabili, mentre altri, chiusi in caserme e superprotetti, sono stati colpiti. I caprai che hanno fatto mirabilie con Falcone e Borsellino hanno smarrito inspiegabilmente l’acume e nessuno se ne è meravigliato.

E’ cambiata, intanto, la legge elettorale: è giunto il momento del maggioritario, contrabbandato per una grande novità e descritto come la garanzia della governabilità. Lo dicevano tutti, e bisognava crederci per fede: la governabilità è sinonimo di buon governo e per garantirla è necessario stringere sempre più gli spazi della democrazia e rinunciare alla proporzionale che, tra l’altro, consente l’esistenza di troppi partiti. Presto si è scoperto che con la nuova legge la governabilità non è garantita, che i partiti si moltiplicano e che il buon governo è uno slogan. Ma indietro non si torna e si è così posto mano alla Costituzione senza far ricorso alla… Costituzione. Non è tempo di leggi costituzionali, si è deciso, ma di bicamerali, di patti scellerati che, tuttavia, non sono approdati a nulla. Tutto ciò che ancora si poteva fare è stato, infine, fatto: si è consegnato il programma dei poteri forti ad una pseudo sinistra, cui fanno finta di opporsi pseudo destre “pericolose” per definizione. Per Berlinguer che ha avuto infine l’atteso semaforo verde, è iniziato il dettato: Confindustria ha letto con voce chiaramente minacciosa ed il ministro ed i suoi “tecnici” hanno scritto. La “qualità aziendale” è entrata nella scuola, destinata a produrre Dio sa cosa, mentre tutti in una volta centomila docenti tentavano di uscirne. La strada dei pensionamenti, com’è ovvio è stata a quel punto prontamente chiusa sicché, forti di un così palpabile consenso, i disertori ora procedono sereni. E’ un lavoro facile: distruggere è sempre più agevole che costruire. Così si fa presto.

Quando tutto questo accadeva, io non c’entravo già più nulla, ed estraneo ero ormai alla tragica farsa che Berlinguer ed i suoi servi sciocchi mettevano in scena intitolandola “riforma”: il professore in me era morto, anche se il suo ricordo è ancora così forte, che m’indigno ugualmente quando mi accorgo che i docenti, ne discutono, questo criticando, questo accettando, come fosse davvero una riforma. La riforma che non ha programmi. La rivolta che m’aspettavo imminente, però non è scoppiata. Si è sollevato debolmente il personale amministrativo, di cui ormai sono in certa misura un componente, ha tentato di organizzarsi, si è agitato, e nella scuole dove vivo il mio triste tramonto gli ATA mi hanno chiesto di rappresentarli. Ho accettato dopo una debole resistenza, ed ho colto l’occasione per vuotare il sacco, inviando a Berlinguer, ancora ministro, la seguente e- mail:

Gli Assistenti Amministrativi dell’84° Circolo Didattico “E. A. Mario” di Napoli condividono le rivendicazioni dei colleghi e ne sostengono la protesta.
Chi scrive, tuttavia, esclusivamente a suo nome, non si sperticherebbe in esaltazioni – nemmeno strumentali – del Ministro a cui gli Assistenti Amministrativi riconoscono “il grande e qualificato impegno profuso in questi anni per riformare la Scuola e portarla ai livelli di un paese moderno. A chi si rivolgono in cerca d’aiuto? A chi vive di rendita sul patrimonio d’una illustre casata? All’architetto d’un malfermo edificio, d’un contenitore vuoto, nel quale ficcare alla rinfusa paccottiglia di scarto d’origine confindustriale, esiti di patteggiamenti di dubbio profilo tra l’anima cattolica e quella laica – che tengono la poltrona sotto il Ministro – e ciò che vi può entrare d’una logica di mercato applicata ad una scuola virtuale, che non ha programmi, non ha insegnanti, se non quelli tenuti a forza dopo un tentativo di fuga in massa – centomila domande di pensione in un anno! – e non ha personale amministrativo se non quello che protesta via Intranet sul computer ministeriale, identificandosi in una categoria che è stata ghettizzata e demotivata. Ma di ciò può occuparsi il Ministro? Egli, che sa tutto di scuola virtuale e di astrologia, contempla nel globo di vetro il suo nome già inciso a caratteri in oro sugli annali della storia patria, e bada, intanto, agli alambicchi dove bollono succhi didattici e metodologici, estratti di cicli e l’essenza del sapere: i programmi che chissà quando elaboreranno commissioni di saggi e sommi teorici, scelti – s’intende – soprattutto per la scarsa esperienza concreta d’insegnamento nella scuola di oggi e di ieri e sistemati da tempo nell’empireo del pensiero puro. In che sperano? Peggio di lui fece forse Gentile, quel Giovanni, filosofo esimio, che pagò con la vita le aberrazioni sottoscritte in nome del fascismo. Il ministro, per sua buona sorte, non corre rischi del genere ed attende il trionfo solenne. I rischi, se mai li corrono i poveri studenti o, per dir meglio, gli studenti poveri ospitati nel suo malfermo edificio.
Quelli ricchi, si sa, viaggiano ormai da tempo verso i lidi ospitali della formazione privata.
Per la solidarietà, il personale amministrativo dell’84° Circolo Didattico “E. A. Mario” di Napoli. Per il resto… Giuseppe Aragno – 84° CD ‘E. A. Mario’ Napoli“.

Come mi aspettavo, non c’è stata una replica immediata. Quest’anno, però, non a caso, il Provveditore non ha voluto rinnovarmi l’incarico di funzione obiettivo, perché secondo una sua interpretazione personale, e del tutto arbitraria, del contratto nazionale di lavoro, la funzione obiettivo non comporta esonero. Come se un ex 113 potesse esser esonerato dall’insegnamento a causa della funzione obiettivo! Il collegio dei docenti, che pure mi aveva riconfermato nell’incarico, riconoscendomi la maniera del tutto estranea alla logica berlingueriana, con cui avevo svolto il mio compito, non ha avuto l’animo di reagire ed ha preferito rinunciare alle sue prerogative per non avere guai.
La sola protesta di cui gli insegnanti sono stati davvero capaci, di fronte allo scempio che si va facendo della scuola, si è concretizzata in una confusa e debole sommossa contro un principio che sarebbe invece condivisibile, se gli stipendi degli insegnanti non fossero da fame e se fossero chiari i criteri della valutazione: pagare di più chi fa meglio. Sarà stato un caso, ma per i soldi, solo per i soldi, la categoria è insorta. Il bello è che a Roma hanno fatto subito eroicamente marcia indietro. E’ stata una vittoria? Naturalmente no, anzi, è apparso chiaro che meritiamo sia la farsa che la tragedia. Una verità è emersa, questo sì, ma ha un retrogusto sinceramente amaro: è stato molto più facile di quanto si potesse pensare. Sarebbe bastato probabilmente volare più alto ed attaccare con uguale decisione l’impianto stesso del progetto, per metterlo in crisi. Invece il gioco è fatto. Passa la “riforma” che si chiuderà, affidando la scuola alle regioni, così che ognuno avrà la sua. Naturalmente saranno l’una diversa dall’altra e le regioni povere avranno le scuole peggiori. Ma di ciò cosa importa a Berlinguer. I figli che per lui contano davvero, i suoi nipoti, studieranno ovviamente altrove: all’estero probabilmente, o nelle rare oasi del privato di qualità. Una qualità che – s’intende – non è quella aziendale, prescritta dalla Confidustria alla scuola dello Stato.

Uscito su Fuoriregistro il 7 febbraio 2001

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