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Posts Tagged ‘Giovanni Bergamasco’


Giovanni Bergamasco nasce a Pietroburgo il 1° gennaio 1863 da Carlo e Maria Paulowna. Grazie al talento con cui usa la fotocamera, il padre è diventato vice Presidente della Società fra gl’italiani di Pietroburgo e fotografo dello zar. La nascita di Giovanni coincide con una riforma che apre la scuola ai poveri, agevola l’accesso delle donne alle superiori e garantisce libertà d’insegnamento. Prima di essere ucciso nel 1881, Alessandro II, temendo che la riforma allevi «sovversivi», l’abolisce. Bergamasco giunge all’università quando il nuovo zar, Alessandro III, cancella la rappresentanza studentesca e l’autonomia universitaria e vieta agli studenti di gestire le loro biblioteche e la stampa manoscritta, ma li spinge così a fornire i primi militanti alla rivoluzione. Nel clima di cospirazione che vive all’università, Bergamasco si avvicina alle frange estreme del movimento e nel 1884, segnalato come «ardente nichilista», fugge prima in Svizzera, poi a Napoli, dove vive una sorella sposata.
Giunto in città con la fama di nichilista «fanatico» e «violento», il giovane, che parla in russo, francese e tedesco, suscita mille sospetti. Ha una casa in fitto a Mergellina, ma non vi dorme e vive  con Barbara Walbery Tourenen, una donna incinta, considerata un’amante finché non si accerta, carte alla mano, che è davvero la moglie. Benché esca pochissimo e trascorra le serate a casa della sorella, gli si crea attorno un alone di mistero, alimentato dalla sua audacia – una sera giunge a fermare un agente per chiedere conto del pedinamento – e dalle difficoltà dei poliziotti, che affermano di non riuscire a stargli dietro perché è troppo veloce. Per mesi l’enigma Bergamasco agita i sonni del questore, finché non si scopre che alla fine del 1885, volontario in cavalleria, ha portato in caserma idee libertarie e dopo il congedo ha stretto rapporti con gli internazionalisti.
La sorveglianza si stringe – stavolta si bada anche alla moglie, la «druda socialista» – e a fine agosto 1887, in vista di una visita a Napoli di Guglielmo II, la polizia scopre che Bergamasco è tra i più attivi promotori della campagna antimilitarista. In effetti, l’anarchico vive giorni di intensa attività. A settembre, infatti, fonda «Il Demolitore», organo del circolo «Il Lavoratore», che incita a colpire «con odio implacabile […] l’attuale ordinamento». Nel mirino obiettivi precisi: lo sfruttamento, anzitutto, offesa alla dignità degli

«operai, i quali, costretti dalle dure esigenze della vita, piegano il collo ai voleri di chi comanda, senza speranza di poter sollevare la loro misera condizione».

Una condizione figlia della superstizione, dell’ignoranza e della rassegnazione, che spengono il pensiero libero, sicché, schiavo dello Stato, «avvincolato dalla religione» e «pieno di pregiudizi», il lavoratore 

«conformemente alla legge darviniana di selezione naturale, […] di generazione in generazione, si degrada, e, ciò ch’è peggio, diviene incapace, di­sadattato alla ribellione, abituato a piegar la testa ed a sottomettersi».

In queste condizioni, conclude il giornale, c’è una sola via: la ribellione. Se da Platone a Saint-Simon, i nuovi «sistemi di organizzazione […] sono riusciti vani», affermano Bergamasco e i suoi compagni, non «approderanno a nulla anche le nuove fantasticherie. Al contrario, 

«l’ordine anarchico, l’armonia nasceranno da sé, naturalmente, dalla spontanea volontà degli uomini affrancati. […] Come diceva Ba­kunin, tutti i ragionamenti sull’avvenire sono criminosi, poiché impedi­scono la distruzione pura ed impastoiano il cammino della rivoluzione».

L’invito a lottare diventa perciò perentorio e pressante: «all’opera, compagni, alla ribellione!». 

E’ con questo spirito che Bergamasco entra nel comitato per la liberazione di Emilio Covelli dal manicomio, ma nella lotta per salvare il compagno c’è l’inconsapevole presagio d’una minaccia: la psichiatria come strumento di annichilimento della personalità, che Bergamasco sperimenterà col fascismo. L’anno si chiude con l’apertura della «Lega delle arti meccaniche», una cooperativa di produzione che ha però vita breve.

A ottobre del 1888 l’anarchico è tra i fondatori del circolo «Miseria», di cui scrive il programma, inserendo accanto ai temi classici dell’operaismo e dell’anticlericalismo un elemento di modernità: la necessità che la donna,

«emancipata dalla tirannia dell’uomo, rivendichi la sua libertà, sicché nessuna legge […] torturi il suo povero cuore, violenti la sua libertà e calpesti la dignità sua con l’assurdo comando d’imporre l’amore verso un uomo anche quando egli la disprezzi, l’insulta e brutalmente la calpesta».

E’ un segnale di cambiamento profondo. Sia pure confusamente, Bergamasco tenta di allargare gli orizzonti, superare i confini «eroici dell’anarchismo più spinto» predicato dalla vecchia guardia internazionalista e far crescere la coscienza di classe. Non c’è foglio anarchico o circolo sovversivo in cui non ci sia traccia dello slancio innovativo che egli dà al movimento dei lavoratori. Punto di riferimento per la stampa clandestina che giunge da Londra, per la natura libertaria della sua formazione, il profugo evita rigide scelte ideologiche, sicché attorno a lui prende a muoversi un mondo: Ferdinando Colagrande, tipografo e uomo di punta della «Società Generale dei Lavoratori», Cetteo De Falco e la sua attiva «Unione Emancipatrice» dei calzolai, Gaetano Balsamo, raffinatore di guanti, col «Fascio delle Associazioni Indipendenti», il calzolaio Giacomo Reginella, punto di riferimento di un’associazione che ha in programma lo sciopero, e Giuseppe Serena, un sarto che guida una lega di resistenza. Sono operai anarchici e socialisti che intendono rifiutare la divisione in «caste separate, le quali rendono impossibile lo sciogli­mento dei problemi d’interesse generale» e si rendono conto della necessità di dar vita a un sindacato di classe. E’ un processo lento, che però guarda avanti.
Non a caso, quindi, ai primi del 1889, Bergamasco firma un telegramma di solidarietà con le lotte dei disoccupati romani assieme al calzolaio Giacomo Reginella che, intanto, invita a liberare le società operaie dall’influenza di quanti approfittano per prendere i loro voti:

«operai e operaie […], affratelliamoci in una causa comune. Non si dica più han fatto sciopero i cocchieri, han fatto sciopero le sigaraie. Dovrà dirsi han fatto sciopero gli operai e le operaie. Allora sì che saremo invincibili».

Nel 1889 Bergamasco è socio del circolo «L’Operaio Emancipato» e a giugno si fa espellere dal congresso delle mazziniane «Società Affratellate». Di lì a poco, ai primi del 1890, è redattore del «Combattiamo!» di Genova e si fa due mesi di carcere per violazione del­le leggi sulla stampa. Tornato a Napoli ed eletto segretario del Circolo «L’Emancipazione So­ciale», il 30 aprile 1890 è arrestato con i membri di un Comitato accusato di voler dare carattere violento alla manifestazione del I Maggio. A gennaio del 1891 è in Svizzera, al con­gresso di Capolago; di lì a poco pubblica il «I Maggio» e il 15 aprile 1891 partecipa a una riunione che, secondo la polizia, intende organizzare «un primo maggio rivoluzionario», in linea con le scelte del congresso di Capolago. Da quelle scelte nasce un appello alla disobbedienza rivolto ai soldati, per il quale Bergamasco è arrestato. Tornato libero, il 22 aprile 1892 subisce un’altra condan­na, stavolta a 14 mesi di carcere. Secondo l’accusa, dal novembre 1890 all’aprile 1891 non solo ha ripetutamente incitato all’odio tra le classi sociali, ma ha preso parte

«attivissima anche al movimento del 1° maggio 1892, promuovendo riunioni di suoi confratelli, nei quali portava sempre i consigli più disperati, tanto che aveva stabilito col noto Gino Alfani, di organizzare delle bande armate che nei punti eccentrici della città, […] si sarebbero precipitati all’interno per far insorgere la popolazione e devastare e saccheggiare la città».

Uscito in libertà provvisoria, ad agosto del 1892, a Genova, al congresso di fondazione del PSI, si schiera con gli anarchici. Arrestato ancora dopo i tumulti che sconvolgono la città nell’agosto del 1893, esce quasi subito, ma il 9 dicembre torna in carcere e ci resta. Con Crispi al governo, in Africa si spara e la «guerra dei commerci» con la Francia accresce la povertà, scatenando proteste cui  Crispi risponde con leggi speciali e tribunali di guerra. Nulla di strano, perciò, se le condanne sospese consentono infine di spedire Bergamasco a domicilio coatto per quattro anni. Il 21 febbraio 1895 l’anarchico giunge in catene a Porto Ercole. Lo zar sarebbe stato meno duro, ma il detenuto non cede. Lacero, scalzo, brulicante d’insetti, senza assistenza medica, asciugamani, lenzuola e materassi, il 18 marzo 1895,

 «per l’anniversario della Comune, issa coi compagni la bandiera rosso-nera sul castello di Monte San Filippo, mentre in cielo volteggiano palloni di carta con i colori dell’anarchia».

Bergamasco si rivela così «il vero capo» dei coatti politici ed è Crispi in persona ad inviare una torpediniera che lo prelevi con ottanta tra i più pericolosi coatti, per disperderli nelle colonie di pena. Finito a Lipari e poi di nuovo a Porto Ercole, il 18 aprile 1896 torna a Favignana. Pochi giorni e il 24 maggio, con alcuni compagni, beffa la vigilanza ed evade, «prendendo imbarco in qualche navicella per ignota direzione». Benché inseguiti da navi da guerra, i fuggitivi sbarcano a Tunisi, ma la ragion di Stato piega il diritto d’asilo e la Francia li consegna all’Italia. Spedito a Lampedusa, vi sta fino al 18 novembre 1896, quando è «prosciolto condizionalmente dai vincoli della coattiva dimora».
Il 1897 di Bergamasco, tornato a Napoli a pezzi dopo tre anni di feroce repressione, non ha colore politico. Timore e isolamento sono la nota dominante, perché, non più coatto, di fatto è ancora prigioniero. Gliel’ha ricordato la polizia appena tornato, fermandolo senza motivo, minacciando di ritirargli la «carta di permanenza» e intimandogli di «tener buona condotta, con avvertenza che in caso contrario sarebbe inviato alla coattiva dimora». Buona condotta, quindi. Ma quali garanzie offre una formula così vaga a chi passa per «rivoluzionario professionale», è obbligato a rispondere a ogni chiamata della polizia e a tenere «sempre indosso il libretto di permanenza» per «esibirlo ad ogni richiesta», servo dei capricci della squadra politica? Buona condotta o ricatto?
A ben vedere, un «sorvegliato di polizia» vive sul filo del ricatto, tenuto ad avere «stabile lavoro»e a «farlo constatare all’ufficio di PS», quando alla Questura basta poco per farlo licenziare; sul filo del ricatto vive evidentemente un ex coatto che non deve «dar luogo a sospetti», quando di sospetti vivono i rapporti dei confidenti ed è sempre a rischio: se un intoppo lo tiene fuori casa, perché non «può ritirarsi la sera più tardi di un’ora di notte», se incontra un amico, perché gli sono vietati i quasi inevitabili rapporti con «pregiudicati in materia politica» e persino se è solo e oppresso dai ricordi, perché non può «frequentare […] osterie ed altri esercizi pubblici, […] riunioni, spettacoli e  trattenimenti».
Poiché la vita sa essere feroce, in un momento così amaro giunge dalla Russia la notizia della morte del padre, che se n’è andato proprio mentre una violenta tempesta investe il figlio Giovanni. All’ansia per l’incerto futuro, si sommano così il lutto, il senso di colpa per le scelte estreme e gli anni di lontananza, i dubbi inesorabili e le domande amare: perché voler cambiare il mondo, se il prezzo è il dolore di chi ami? Quali assurdi sogni ha rincorso, se ne è nato un inferno? E la ricchezza improvvisa giunta con la morte del padre non finirà col separarlo dagli operai tra i quali vuol vivere? E’ l’uomo di sempre, ora che ha ereditato un patrimonio di oltre 400.000 lire italiane» e, calcolando la «parte dell’avere paterno che di diritto gli tocca, teme la malafede nella divisione fatta» ed è «preoccupato […] di far valere legalmente le proprie ragioni verso i parenti?». 
Un anno di silenzio è quanto resta della crisi. Un anno in cui l’ex coatto sistema la vistosa eredità ricevuta, «segregandosi dai compagni, ad alcuni dei quali ha anche rifiutato qualche soccorso». Se i rapporti con la Questura si chiudessero qui, l’esito della vicenda sarebbe quello «classico» di tante «militanze estreme» e di lui ricorderemmo ciò che si dice spesso dei giovani «disertori della borghesia»: come ogni buon conservatore, fu inizialmente un milite della rivoluzione. A febbraio del 1898, però, una nota di polizia riferisce che le cose non stanno così; pare, infatti, che «in un abboccamento […] abbia promesso di tornare a spiegare attività in favore del partito» e assicurato un forte sostegno economico all’«Avanti!» in difficoltà e agli operai socialisti che organizza­no a Napoli una nuova Camera del Lavoro. Benché non vi siano prove di una sua responsabilità nei moti di maggio del 1898, il Tribunale Militare ne ordina l’arresto, ma Bergamasco si rende latitante, poi si ammala, evita di tornare al domicilio coatto ed esce infine allo scoperto:

«Non ho preso parte a riunioni e a dimostrazioni, non mi sono ascritto ad alcun circolo o gruppo che sia, non sono uscito dalla stretta legalità. […] Mi si perseguita perché sono socialista? E sia […]. Viva il socialismo!».

Nel 1899 lavora nell’ombra per riorganizzare la Camera del Lavoro di Napoli. Ad aprile fitta alcuni locali al giornale socialista «La Propaganda», che, grazie al suo sostegno economico, esce l’1 maggio 1899 e diventa in breve un riferimento per il movimento socialista meridionale. Acqua n’è passata sotto i ponti e all’animo ribelle fanno ora argine l’esperienza della repressione e la volontà di fermarla. Il Novecento di Bergamasco non è il secolo «breve» della storiografia; ha il respiro lungo delle vicende esemplari, parla agli uomini di ogni tempo e insegue un’utopia che muove la storia: la giustizia sociale.
Diventato figura di spicco del socialismo locale, ai primi del 1900 entra nella Commissione Esecutiva e nel Consiglio Direttivo della Sezione Napoletana del PSI. A ottobre è a Roma, al congresso nazionale del partito e nonostante le divergenze sull’uso dei fondi de «La Propaganda», parla ai lavoratori di solidarietà, narrando una metafora: la vittoria delle api laboriose unite contro la prepotenza dei calabroni. L’opuscolo circola per vie clandestine e piace ai lavoratori, che il 10 novembre 1901 eleggono l’autore consigliere comunale per i socialisti. Un successo personale, ma anche la risposta popolare alla stretta repressiva dei «liberali» che, però, profittando delle condanne da lui riportate, ottengono che Bergamasco sia dichiarato ineleggibile. L’ex coatto si presenta però in Comune ugualmente e cede solo quando il «caso» esplode e la folla invade le tribune del Consiglio municipale per ascoltare la discussione dell’interpellanza Bergamasco e salutare il consigliere che esce dall’aula. Bergamasco perde la partita ma pone la questione della repressione del dissenso alla coscienza del paese:

«ai condannati politici siano essi clericali, monarchici, repubblicani, socialisti, anarchici, spetti d’essere elettori ed eleggibili».

Nel 1902, in rotta con i  compagni sulla irrisolta questione della gestione economica del giornale e sulla distanza tra intellettuali del gruppo dirigente e base operaia, esce dal partito e raccoglie un gruppo di lavoratori nell’«Unione Socialista». Fa scalpore e termina in modo tragico l’attacco a Pietro Rosano, ministro di Giolitti, che Bergamasco accusa di avergli estorto 4.000 lire nel 1898 per evitargli il domi­cilio coatto. Travolto dallo scandalo, Rosano si uccide, lasciando una lettera in cui si dice innocente e scatenando così moralisti ed eroi da burletta, che di sé danno puntualmente il peggio ogni volta che occorre il meglio. I «liberali», ciechi e sordi quando un’infamia diventa ragion di Stato, sparano a zero sul «sovversivo ingrato», che compra la libertà e vende chi gliel’ha venduta. In quanto ai rivoluzionari «duri e puri», solitamente prudenti nel fuoco dello scontro, non hanno dubbi:

«Noi ammiriamo Bergamasco accusatore, ma non possiamo che deplorare Bergamasco compratore di libertà. Innanzi alla legge morale Rosano e Bergamasco si equivalgono».

Su moralisti, maramaldi borghesi e campioni d’ipocrisia rivoluzionaria, il «traditore» vola alto. «In politica, scrive, non c’è pietà», ma se solo avesse temuto il suicidio del ministro, gli avrebbe «scritto una lettera senza pubblicarla, perché il suo intento era di allontanare Rosano […] dal potere». Quanto alla gratitudine, «sopra di essa vi è il dovere. Ebbi la libertà e pagai. E tacqui, benché premuto da ogni parte, finché il tacere non era colpa».
Benché scosso, nel 1902 Bergamasco si laurea in scienze naturali e di lì a poco, nel 1903, anima la protesta contro la visita dello zar in Italia e pubblica l’opuscolo intitolato «Per l’arresto di alcuni socialisti russi in Napoli». Pur tornando nel Psi, ha col partito rapporti sempre difficili, perché gli riesce difficile conciliare la formazione sostanzialmente anarchica, con le regole e le scelte di un partito politico. Dopo la strage di Pietroburgo, nel 1905, quando Nicola II scatena la repressione, dalla Russia giungono numerosi profughi. Per Bergamasco sono anni irripetibili. Bandito dalla Russia e accolto a Napoli dai socialisti, Gorky fa scuola di partito a Sorrento e la «cerchia dei sovversivi» è in subbuglio. Tra scontri e arresti, Bergamasco dà vita a un «Comitato pro Russia», che apre una sottoscrizione per le vittime delle rivoluzione e riunisce i profughi e le loro compagne in una sezione dell’Unione del Lavoro. Giovani, spesso sopravvissute a feroci «pogrom», le rivoluzionarie sono accompagnate dall’aureola del martirio, dalla letteratura sovversiva russa e dalla loro musica appassionata, suonata dal «compagno Sormus», artista di «potenza meravigliosa» che ricorda col violino la rivoluzione sconfitta. «Noi vi vediamo serene muovere al vostro destino», recitano i giovani a memoria, ricordando versi di Pascoli alle Kursistky.
Nel 1906, Bergamasco lascia il partito e la redazione de «La Propa­ganda», ma vi torna a ottobre, in tempo per rappresentare al congresso di Roma la Sezione di S. Stefano di Aspromonte. Nel 1908 al congresso Nazionale di Firenze, rappresenta la sezione socialista di Londra. Quando lo zar sembra allentare la stretta e i profughi ripartono, molte ragazze hanno sposato socialisti e il 25 ottobre 1908, alla festa d’addio, quando Sormus intona le note della Marcia Funebre dei Rivoluzionari russi e le «piccole profughe scattano in piedi», nessuno sa trattenere le lacrime. L’agitazione contro la visita dello zar si riaccende però a giugno del 1909 e il 24 settembre Bergamasco lancia «una lettera istigatrice di agitazione» da «un palchetto del cinematografo Roma […] contro la venuta dello Czar» che, però, il 23 ottobre giunge in Italia nonostante le proteste.
Il 21 ottobre 1910, dopo aver partecipato al congresso di Milano, Bergamasco lascia di nuovo il partito. Vi torna nel 1914, quando, in contatto con Mussolini, ne condivide inizialmente il bisogno di «uomini nuovi pieni di carattere», per tornare «all’opera di propaganda e di organizzazione» e la polemica contro il parlamentarismo «che corrompe, uccide lo spirito rivoluzionario, […] e troppo spesso anche la dignità personale». L’attacco al Belgio neutrale e il mito della «guerra per la rivoluzione» inducono Bergamasco a chiedere l’intervento contro i tedeschi, «minaccia perenne alla pace mondiale». Presto però, la cruenta realtà del conflitto, «le decimazioni metodiche per domare i ribelli, i giovani socialisti inviati nelle trincee di prima linea, per essere più facilmente eliminati», tutto dimostra che la barbarie non è tedesca. Barbara è la guerra. Non a caso, perciò, il 26 novembre 1916, è con Bordiga, che al Teatro Tarsia tenta insistentemente di parlare contro la guerra.
L’adesione all’Unione Socialista Italiana, nell’agosto 1918 è l’ultimo atto politicamente rilevante d’una lunga militanza. L’avvento del fascismo segna il ritorno definitivo all’anarchia e la rovina economica. Per Bergamasco, la crisi del mondo liberale, il bolscevismo e il fascismo si profilano all’orizzonte rapidi e devastanti, con l’andamento delle svolte epocali che, come spesso  accade, si fanno tragedia personale: un fratello ucciso nella bufera dei Soviet, la sconfitta della rivoluzione libertaria, i beni di famiglia confiscati dai «compagni» bolscevichi, la miseria. Del patrimonio nato dall’intraprendenza di Carlo tutto è perso, i cospicui fondi liquidi e due fabbricati a Pietroburgo, nella centralissima via Marskaia. Scoppiata nella Russia da cui è fuggito da giovane, la rivoluzione non è quella sognata. Per una beffa della storia, Bergamasco non solo non l’ha fatta, ma ha dovuto subirla impotente, così come nulla ha potuto di fronte alla Caporetto di un socialismo che agitava lo spauracchio dei Soviet, mentre attraverso la breccia aperta dalla guerra dilagava il fascismo.
Tra i gerarchi, c’è chi, provenendo dalle file socialiste, come Ferdinando Giannini, ricorda che «è’ stato compagno e amico del Capo del Governo e ha […] sovvenuto l’Avanti! quando vi erano gli uomini che hanno fondato il fascismo». Poiché ha insegnato Scienze Naturali e pubblicato studi in materia, Giannini suggerisce di dargli «l’incarico al Gabinetto di Storia Naturale dell’Università». Il calvario sembra finito. La durezza dello scontro, il peso dell’isolamento, la disparità delle forze, tutto consiglia di non trascinare le figlie alla rovina, cercando inutili eroismi. L’eroe ha il coraggio estremo di un istante. Eroe è Niso, che si salva fuggendo, vede l’amico Eurialo circondato, torna e in un attimo brucia coraggio e vita. Quell’attimo lo consegna alla storia, non una scelta ripetuta più volte nella consapevolezza di una resistenza dall’esito fatalmente tragico. Se il rischio di esagerare non dettasse prudenza, penseresti a Giordano Bruno e al martirio, ma sarebbe retorica.
Né eroe, né martire, Bergamasco fa i conti con la vita, cerca un compromesso, medita la resa, ma si rivolta contro se stesso d’istinto e non cede, benché gli costi caro, perché la dimensione in cui si sente vivo è quella della dignità. «Non ho chiesto l’elemosina, risponde, ma di poter vivere lavorando», invece «ho perso la cattedra di professore medio governativo, ed ora, per […] continui ed arbitrari arresti, mi si fanno perdere le lezioni private».
Stessa sorte ha l’offerta di un sussidio di 2.000 lire. Qualcuno prova a trovargli una cattedra in una scuola, ma tutto si riduce a un incarico per «materie speciali nelle scuole serali di disegno applicato alle arti, purché egli sia fornito del titolo che lo abiliti». Un lavoro che non gli assicura nemmeno «il necessario sostentamento», sicché l’anarchico punta il dito sul regime «che in quanto alla tattica copia quella maledetta leninista» e rompe col funzionario che si occupa di lui:

«Perché fingere che mi si voglia aiutare […] quando si è fatto e si fa di tutto per rovinarmi? Le sarò grato se ella vorrà lasciarmi in pace e nella santa indigenza.
G. Bergamasco, prof. al R. Istituto Tecnico, oggi boicottato».

Per due anni fa vita ritirata ed è «aiutato dalle due figlie nubili, Maria, ricamatrice, ed Eleonora, insegnante privata». In occasione delle elezioni del 1929, però, scrive al «Mezzogiorno» una lettera coraggiosa e mai pubblicata, che induce a riflettere sul «consenso» al fascismo. Gli è stato impedito di votare, ma se avesse potuto, dichiara, avrebbe «gettato nell’urna la scheda no. E’ facile riportare vittorie usando i mezzi… che si sono usati».
Finché scrive ai giornali lettere censurate contro il regime che perseguita «i comunisti nostrani», però riconosce l’URSS e non difende i propri connazionali, l’anziano dissidente è «un grafomane che non sembra nel pieno possesso delle facoltà mentali». Il cenno alla pazzia si fa però manicomio, quando la critica diventa propaganda attiva. Se a gennaio del 1932, durante la cerimonia per il decennale della nascita della Milizia, Bergamasco, fermato mentre urla lo sdegno di quanti, «spogliati in Russia […] chiedono giustizia», se la cava con poco danno, il 7 febbraio, quando manifestini antifascisti scritti a mano riempiono mercatini rionali e cabine telefoniche, finisce all’ospedale psichiatrico provinciale. Due mesi di manicomio, però non lo piegano. Dimesso il 25 maggio, scriverà con orgoglio: «S’era voluto […] farci passare per morti, ma noi siamo vivi e gridiamo alto ai quattro venti le nostre giustissime ragioni e rivendicazioni». In realtà, è iniziato l’incubo degli arresti preventivi.
Il 10 dicembre 1933, nel porto c’è la flotta russa e nessuno bada a Bergamasco, mentre aspetta una motobarca che gli approda accanto. Chiamare i militari nella lingua che è stata sua e lanciare manifestini è un attimo; compagni, ha scritto,

«sotto la bandiera del partito Socialista Rivoluzionario, lottavate per la libertà e il benessere della patria ed oggi il popolo è schiacciato. Svegliatevi, finalmente, e cercate di rovesciare con tutti i mezzi i bolscevichi».

Il gesto gli costa un breve arresto, poi gli sfratti, la ricerca affannosa di un tetto per la notte, il trasferimento a Roma dalla figlia Elvira nel maggio 1935, tutto si perde in gelide note trimestrali: «non ha dato motivo a speciali rilievi». Il 27 luglio 1935, però, quando a denunciare un «individuo sedicente di Leningrado», che ha ingiuriato il governo sovietico e tirato sassi contro la sua sede è l’ambasciata russa, Bergamasco, «pericoloso a sé ed agli altri», finisce in manicomio. Uscito il 29 settembre, a marzo 1936 scrive «W la libertà» sulla saracinesca di un negozio sfitto ed è di nuovo ricoverato. Esce rapidamente, ma il regime infierisce: ora è uno «squilibrato» da «fermare in determinate circostanze». Bergamasco denuncia la persecuzione, ma la lettera inviata alla stampa è consegnata alla polizia:

«i fascisti mi tolsero il permesso d’armi, il voto politico ed amministrativo, mi cancellarono dall’elenco dei professori governativi, m’impedirono di continuare la mia carriera di giornalista […]. Tre volte mi mandarono al manicomio […] e tre volte uscii dopo pochi giorni sano di mente. Una ventina di volte venni arrestato […]. Dove sono stato rinchiuso or ora in occasione dell’anniversario della nascita di Roma […] mancano luce ed aria e fa freddo ed umido. In un angolo è posto un puzzolente recipiente di legno per i bisogni naturali. Non si esce all’aria, per cibo si ha un poco di pane con qualche microscopico companatico. Ma quel che è assai peggio, è che il tavolaccio e le coperte son pieni, zeppi di schifosi insetti».

Il 22 ottobre 1937, dopo l’ennesima irruzione notturna della polizia, Bergamasco  si rivolge direttamente a Mussolini:

«Sì, sono in disaccordo […] con la politica fascista, […]; ma non si può perseguitare la gente soltanto per le idee professa­te. Invece sono continuamente soggetto a noie che mi crea la polizia e ad arresti. […] Ebbene, quando Le dico di non aver alcuna intenzione – vecchio come sono di 75 anni – di fomentare agitazioni, Ella mi può perfettamen­te credere ed ordinare che la polizia mi lasci in pace. Ieri notte è venuto un agente a […] verificare se io non avessi cambiato alloggio. Ciò significa l’intenzione di arrestarmi nuova­mente in occasione delle prossime feste. Mi lascino finalmente tranquillo, che poco mi rimane ancora a vivere. Con ogni considerazione.
Dott. Giovanni Bergamasco». 

Poiché nulla cambia e la persecuzione continua, il 2 luglio 1938 si taglia le vene, ma assegna al suicidio il valore di estremo baluardo della dignità:

«sono stato fedele ai miei principi umanitari di libertà, di uguaglianza sociale, di solidarietà umana e di lotta alle superstizioni. […] I bolscevichi m’hanno depredato, i fascisti mi perseguitano. Sono due dittature egualmente nocive, nemiche della libertà. Non volendo entrare io nell’ovile, […] eccomi di bel nuovo sul lastrico all’età di 76 anni. E sia! Mi spezzerò, ma non mi piegherò».

Soccorso, si salva, ma il duce, che gli fu amico, lo ignora, benché la figlia Maria gli abbia ricordato l’amico di un tempo:

«Papà mio conosce l’italiano, il francese, il turco e il russo; è laureato in scienze naturali, ha collaborato con successo in parecchie riviste scientifiche; è giornalista, fondatore di parecchi giornali, sveglio di mente, intelligentissimo».

Per Mussolini, però, un uomo coerente è un’anomalia da correggere.
L’Italia è in guerra il 14 luglio 1940, quando a Roma, in Via Nazionale, una zelante fascista fa arrestare l’anarchico perché sputa su un manifesto del duce. Un medico compiacente attesta che a 77 anni può vivere da confinato e il 22 agosto, dopo mezzo secolo, torna a Tremiti. Nel 1896 vi ha scritto parole che sono un testamento:

«La notte di San Bartolomeo, le stragi spietate […] i filosofi ed i liberali pensatori – Bruno, Serveto, Vanini, Moro […] – condannati alle fiamme o altrimenti martirizzati, tutto ciò ci pare un’aberrazione mentale, un brutto sogno».

Trasferito a Lauro il 5 maggio 1942, «si accompagna ai confinati della stessa fede» fino al 29 giugno 1943, quando, ricoverato d’urgenza all’ospedale di Avellino, muore per arresto cardiaco. Fu, per dirla con Arfè, tra coloro che forse non trionfano mai, ma certamente non sono mai vinti *.

* Nota

Le notizie che mi hanno consentito di scrivere questa biografia sono ricavate dall’Archivio Centrale dello Stato di Roma, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Affari generali e riservati, 1909, b. 2; Ivi, Confino politico, Fascicoli personali, b. 94, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 516, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Archivio di Stato di Napoli, Schedario Politico, Sovversivi deceduti, b. 7, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Angelo Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Laterza, Roma-Bari, 1977: Nunzio Dell’Erba, Le origini del socialismo a Napoli. 1870-1892, Angeli, Milano, 1979; Pier Fausto Buccellato, Marina Iaccio, Gli anarchici nell’Italia meridionale, Bulzoni,  Roma, 1982; Giuseppe Aragno, Bergamasco Giovanni, in Dizionario biografico degli anarchici italiani, BFS, Pisa, Vol. I, 2003; Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi, Foggia,  2012, pp. 81-106.

Fuoriregistro, 8 agosto 2021

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Grossi Carmine Cesare

Olandese Maria

Margiotta Ugo

PIcardi Ciro

Di Nuzzo Felice

Era stato deciso a Parigi nel 1889 e un anno dopo cominciò: manifesti incollati di notte sui muri, riunioni più o meno segrete per evitare l’arresto e la decisione di astenersi dal lavoro.
La risposta dei padroni non si fece attendere: manifesti strappati dai muri, circolari segrete e piantine delle città per indicare ai comandanti delle truppe i luoghi da presidiare e poi cariche e arresti:

“Le SS.LL. sapranno già come da vari gruppi di affiliati ai partiti sovversivi si studi con ogni sorta di maneggio di animare l’agitazione pel 1° maggio che, secondo i disegni dei più arrischiati, dovrà, come essi dicono, segnare una data memoranda nella storia di queste agitazioni.
Al gruppo di questi ultimi appartengono tra gli altri i noti anarchici Mariano Gennaro Pietraroia…”

Da quel giorno Abbiamo avuto di tutto – Crispi, Rudinì, Pelloux, le cannonate di Bava Beccaris, Mussolini, Scelba, ma il lavoro e i lavoratori sono il fondamento della nostra società e l’insostituibile pilastro della democrazia. Oggi, perciò, sia pure in maniera virtuale non voglio che la loro festa possa mancare, perciò, eccoli sfilare tra polizia e pandemia. E’, come vuole la polizia un corteo “pericoloso”:  sovversive e sovversivi schedati!
Dalla prima fila: Amedeo Coraggio, Domenico Aratari, Ugo Arcuno, Giovanni Bergamasco, Leopoldo Capabianca, Antonio Cecchi, Maddalena Cerasuolo, Ferdinando Colagrande, Guido Congedo, Domenico D’Ambra, Ugo Del Giudice, Nicola De Bartolomeo, Carmine Cesare Grossi, Ada Grossi, Aurelio Grossi, Renato Grossi, Libero Merlino, Lista Alfonso,  Maria Olandese, Mario Onorato, Luigi Pappalardo,  Gennaro Mariano Petraroja, Ugo Margiotta, Salvatore Mauriello, Enrico Motta, Ignazio Mottola, Tito Murolo, Luigi Felicò, Luigi Romano, Enrico Russo, Tommaso Schettino, Edurado Trevisonno, Umberto Vanguardia, Felice Di Nuzzo, Pasquale Di Vilio, Canio Canzi, Edoardo Pansini, Emilia Buonacosa.

classifiche

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Starò zitto per una decina di giorni. Lascio qui un messaggio cui tengo. 

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voci-sulla-cittc3a0Settembre 2014. Chiuso in archivio, cerco antifascisti nelle Quattro Giornate e sono già tanti, quando la premiata ditta “Renzi, Alfano & Compagni” mi ferma: De Magistris è stato sospeso e i custodi della legalità ringraziano la Legge Severino, che prima definivano incostituzionale e poi ignoreranno, con De Luca vincitore alla Regione. E’ un oltraggio al pudore.
La tragicomica “campagna morale” consegna al Paese un’allarmante certezza: i partiti di governo vivono una crisi di autolesionismo. Nemmeno l’amico più caro, infatti, avrebbe mai pensato a un regalo così prezioso. In due giorni, il “sindaco di strada” è ai vertici della popolarità e Napoli ride di un moralismo senza morale, che non ha né capo, né coda. Si sfida il ridicolo. A destra, l’improbabile avvocato d’ufficio di una legge furiosamente criticata ha avuto momenti di gloria, guidando un coro di voci bianche a Milano, davanti al Palazzo di Giustizia, ai tempi delle crociate per Berlusconi. Il controcanto lo fa un venditore di fumo che mai nessuno ha votato. Millanta il 40% dei suffragi, ma è un numero taroccato: si votava per l’Europa e metà Paese disertò le urne. Avesse votato, l’avrebbe bocciato senza remissione di peccato.

In poche ore la malattia si fa epidemia. Travolti da un’insana passione, uno dietro l’altro, gli uomini delle Istituzioni partono a testa bassa. E non si tratta solo del centrodestra; c’è il PD, ci sono i sindacati, e c’è uno slogan: “Napoli volti pagina”. Perché? E’ un mistero glorioso. Qualcuno, forse, non si sa se diavolo, santo o profeta, in via strettamente riservata, ha sputato la sentenza: Napoli «è una città illusa e ferita», ora “basta con De Magistris!”. E’ una vera crociata: “Dio lo vuole!”. Lo chiede Cantone, il capo dell’anticorruzione, che, in un Paese soffocato da scandali e ruberie, non ha altro da fare, che pontificare sui casi di un sindaco regolarmente eletto; lo chiedono l’Associazione nazionale magistrati, (ex colleghi, perché lui è andato via senza aspettare il minimo della pensione) e il vicepresidente degli eurodeputati del PD, Massimo Paolucci, che rischia lo strabismo – un occhio a Bruxelles, uno a Napoli – e per “il bene della città” invoca dimissioni e voto. Perfino Pietro Grasso, (un altro ex pm), presidente del Senato e seconda carica dello Stato, la mattina della sospensione, appena sveglio, rilascia la sua dichiarazione: si dimetta.
Sono bordate così strane, che confesso il peccato: dietro, ci vedo un grumo di interessi e non mi piace quell’unità tra “destri” e sedicenti “sinistri”. Per me fa da collante qualcosa che sta tra il comitato di affari e l’estremismo politico.
Non ho scelta. Il caso De Magistris somiglia troppo a quello di Giovanni Bergamasco, perché stia a guardare. Chi era Bergamasco? Un socialista russo, figlio d’un immigrato napoletano, che fece fortuna a Pietroburgo come fotografo dello zar. Fuggito in Italia, perché la polizia prese fischi per fiaschi e scambiò per “sovversione” il bisogno di democrazia, all’alba del Novecento, spinto dal voto dei lavoratori, portò il sole dell’avvenire a Palazzo San Giacomo. Scava e scava, però, i liberali, sono uguali a se stessi: giurano sui diritti, ma sono pronti a calpestarli, sicché, allora come oggi, si fece guerra alla democrazia e Bergamasco fu espulso dal Municipio per il passato di “sovversivo”.

Poiché in giro c’è già chi vuole De Magistris a domicilio coatto, non ho dubbi: da quando il mondo è mondo, nove volte su dieci i “sovversivi” sono il futuro in lotta con una legalità senza giustizia sociale. Lascio l’archivio a malincuore – scriverò mai la storia degli antifascisti nelle Quattro Giornate? – accetto l’invito di Pino De Stasio, che chiama a raccolta i “fans di De Magistris” – così ci chiamerà di lì a poco la “libera stampa” – e sposo la causa della città. Nessuno mi fa l’analisi del sangue, per capire qual è il tono di rosso. Siamo di sinistra e tanto basta, perché nel merito c’è accordo: il bersaglio evidente è il sindaco, ma l’obiettivo nascosto è la città. Nel mirino c’è Napoli, che, non a caso, da un po’ si fa passare per un verminaio.
La camorra è un dato strutturale, dirà poi Rosy Bindi ma, come capita spesso, i conti si son fatti senza l’oste e Il dato strutturale è chiaramente un altro. La Camorra esiste, per carità, ma non è Napoli. Napoli non è la capitale di un “regno che non c’è”, un regno che vive solo se in soccorso giungono la corruzione politica nazionale e locale e certa gentaglia, travestita da imprenditore, che vive in ogni parte d’Italia. La stragrande maggioranza dei napoletani combatte da sempre. Mai come oggi, in realtà, il giocattolo s’è inceppato: niente affari con “monnezzari” e “monnezza”, niente appalti truccati, niente mazzette e clientele, niente acqua privatizzata, niente di niente. Nemmeno le mani su Bagnoli, l’affare degli affari che si non può perdere, costi quel costi, perché  lo “Sblocca Italia” disegna percorsi privilegiati.

Napoli, non ci sta. E’ questo il problema vero. Forse perciò si spara a zero sulla città e per far centro senza perder tempo, si mette fuori gioco chi la rappresenta degnamente. Napoli non ci sta, i conti non tornano e lo stupore è maligno. In fondo, che ne sanno di Napoli i nostri “statisti”? Che ne sanno signori e signore delle “quote rosa”, che un tempo chiedevano il voto e ora, grazie a una legge che la Consulta ha messo fuorilegge, si fanno nominare dai capi dei partiti? A ben pensarci, è ovvio che si tiri in ballo la camorra. Gomorra è un’illusione ottica, un errore di prospettiva, un peccato di omissione, una verità detta a metà, perché l’altra mette i brividi. Gomorra fece fortuna, quando il genovese Garibaldi, d’accordo con Liborio Romano, arruolò la camorra nella Guardia Nazionale. E fu a un governo guidato dal piemontese Cavour che Liborio Romano, ministro a Napoli e deputato a Torino, capitale d’Italia, affidò una proposta di “legge sull’organamento provvisorio della Guardia Nazionale nel Napoletano”. Furono quelle le nozze tra malavita e potere politico.
I conti non tornano. Napoli, che ride anche se piange, che è Pulcinella, ma anche Eduardo e Viviani, è miseria, ma soprattutto nobiltà, Napoli non è la semplicemente città delle Quattro Giornate, come vuole la favola degli scugnizzi. Napoli ha dato inizio alla Resistenza e ha versato il primo, consapevole sangue per liberare l’Italia del nazifascismo. Certo, poi c’è stato Lauro, ma troppo spesso dimentichiamo che navi e soldi, il “comandante”, li fece grazie al livornese Galeazzo Ciano e tornò in sella, dopo la guerra, profittando di leggi nate da governi nazionali, non napoletani. Governi che impedirono l’epurazione, lasciarono in circolazione il fior fiore del fascismo, consegnarono a Guido Leto, capo dell’OVRA, la scuola di polizia e ad Azzariti, capo del Tribunale della razza, la presidenza della Consulta.

De Magistris diventa per me Luigi in una sera di ottobre dell’anno scorso. A prima vista sembriamo così diversi, che pare impossibile capirsi. Lui è giovane, io vecchio. Lui pensa di esser “nato magistrato” e io, per riflesso, penso ai processi politici, a Terracini, Gramsci e Pertini. Certo, è un “sindaco di strada”, ma frequenta “palazzi” che non amo. Che faccio? Lascio perdere? No. In quel clima d’attacco feroce, devo ascoltarlo, quell’uomo dallo sguardo acuto e irrequieto. Non posso fermarmi alle apparenze. D’altra parte, che potrebbe dire di me, a sua volta, fermandosi alla superficie? Dal suo punto di vista, i miei “sovversivi” non sono più tranquillizzanti dei suoi giudici. L’ascolto e una cosa la dice: ho mitizzato la figura del Magistrato e un’altra segue lucida e conseguente: la sua legalità ha fame di giustizia sociale. Dovrò ascoltarlo più volte, per capire che la sua idea di “Palazzo” incontra spesso la mia: dal momento che questo è il mondo e meglio della democrazia non s’è trovato, occorre creare fili diretti con la gente, quartiere per quartiere, attivare processi reali di “cessione di potere dall’alto verso il basso”.
Quando tocca a me, non vendo merci. Ho una vita vissuta nelle lotte e la storia banale di chi, come lui, non si è fatto comprare. Posso parlare ai giovani dei movimenti e proverò ad aprire porte e confronti tra visioni diverse della politica. Luigi non è un moralista e nemmeno un integralista. E’ coerente coi principi che professa – principi di sinistra – è leale, dice quel che pensa e fa ciò che dice. Su questi binari si incontrano mondi lontani tra loro. Si incontrano e si riconoscono.

Di questi mesi, ricorderò tre tappe. Anzitutto due assemblee. A Martedei, dove Barbara Pianta Lopis ci accolse con grande disponibilità, e a Bagnoli, in una sera umida e piovosa. Sì parlò chiaro e anche a muso duro, ma Luigi tenne la posizione con fermezza e dignità. Fu un momento di crescita collettiva. Ci credevamo solo io, lui e tre compagni di strada che abbraccio: Rosa Schiano, che ha la Palestina nel cuore, Giuseppe Sbrescia e Chiara Francesca Mazzei. Credo che oggi Napoli sia la sola grande città italiana ad avere un “Osservatorio sulla salute Mentale”. Non era scontato. Dove giunge la coerenza del “sindaco sovversivo” l’ho capito quando un manipolo di giovani di forte spessore ha occupato l’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario, a Materdei. Per me fu la prova del nove. Era l’una dopo mezzanotte. Lo sgombero sembrava imminente e il messaggio fu breve e chiaro: “Lo so che sei tornato a Palazzo San Giacomo, ma c’è urgente bisogno del sindaco di strada”.
Alle sei del mattino la risposta: “ci vediamo stasera”. Giunse all’ex manicomio con due assessori che voglio menzionare: Fucito e Piscopo. Non l’avrebbe fatto nessuno. Quella sera non bastava la coerenza. Ci voleva anzitutto il coraggio che a Luigi non manca. Ricorderò a lungo il suo viso, nel teatrino che cadeva a pezzi, quando ebbe il microfono in mano. C’era tutto il quartiere. Esitò un attimo, poi fu un fiume in piena. La sintonia con le idee, i sogni, le lotte, i valori sociali e politici da cui era nata quell’occupazione-liberazione fu un dato reale. Prese un impegno, Luigi: “non avete occupato un luogo pubblico, disse, l’avete liberato. Farò quanto posso perché resti in mano ai cittadini”.
Se non sapete cos’è oggi l’ex OPG, andateci. C’è un’aula studio aperta fino a sera, si fa teatro, si raccolgono pacchi per gli immigrati, c’è un torneo di calcetto per i ragazzi del quartiere, si presentano libri e c’è persino una “Camera Popolare del Lavoro”, che fa la consulenza. Mille iniziative.
Metto le mani sul fuoco: finché Luigi sarà sindaco, speculatori e cemento non passeranno e la città crescerà. Gli faranno guerra, però. Come a Bergamasco.

Non lasciatelo solo.

Da Voci sulla città. De Magistris e la Napoli da raccontare, Mooks Libreria, Napoli, 2016

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palreaLa ricerca storica è un viaggio da giramondo tra polvere, carte e percorsi intricati che alla fine lascia un album prezioso dell’animo umano e una domanda insistente: che fai, porti tutto con te? La Storia in fondo è un insieme di storie: uomini e donne che spesso non meritano di sparire, e vite e fatti da raccontare.
Prendi, per dirne una, la singolare vicenda di Napoleone Brambilla, un calzolaio socialista milanese che a fine Ottocento trova lavoro a Napoli, nella città dei disoccupati, e ci mette radici. Se prendi la via che conduce alla nascita del sindacato, ti viene incontro con la passione e l’umanità che lo unì ai compagni napoletani contro i colpi di un capitalismo che, ieri come oggi, viveva di leggi del mercato e faceva guerra allo stato sociale: Cetteo De Falco, Ferdinando Colagrande e Gaetano Balsamo, sindacalisti d’altri tempi, nomi che oggi non dicono niente a nessuno, ma in quegli anni erano così noti tra i lavoratori, che la questura li “teneva d’occhio”. I tempi cambiano e spesso occorre perdere ciò che si ha per riconoscerne il valore.
Il 6 gennaio del 1894 – chi si ricorda più? – quando a Napoli nasce la Camera del Lavoro, Brambilla non ne è solo uno dei dirigenti che firmano l’atto di nascita in Via Banchi Nuovi; se il sindacato quel giorno prende a funzionare è perché, con un manipolo di compagni napoletani, ci ha perso il sonno e la salute. Mentre firma, però, – il nome si legge ancora chiaro nell’atto notarile – sta sul chi vive: troppe strane manovre, troppi sguardi e cenni d’intesa tra questurini in borghese, perché sia sereno. Brambilla se ne sta defilato e a casa quella sera non ci torna. Nel cuore della notte, per far festa alla neonata Camera del Lavoro, una “retata” micidiale coglie tutti nel sonno: militanti e dirigenti, repubblicani, anarchici e socialisti. Tutti dentro: Crispi fa a Napoli le prove generali delle leggi speciali che è pronto a varare.

scansione0001Brambilla a casa non c’è; riappare quando l’aria si fa più respirabile e si presenta al processo per rispondere all’accusa di complicità con gli anarchici in un fantomatico “piano rivoluzionario”. Non esiste nessun progetto, afferma deciso, e l’accusa non sta in piedi: la smentiscono se non altro ragioni di dottrina. “Inconciliabili differenze teoriche dividono socialisti e libertari – spiega infatti al giudice l’operaio – e ci sono profonde divergenze nell’azione concreta. Tra noi non può esserci comunanza”. E’ la cultura operaia che sale in cattedra e fa lezione, denunciando l’ipocrisia della legalità borghese, ma il giudice è di parte e la condanna è già scritta; si fonda su prove costruite ad arte invano smentite dalla logica inoppugnabile del calzolaio.
Brambilla sa di che parla. A Napoli, nel 1890 ha fondato e diretto una società di calzolai che, rifiutato il “mutuo soccorso”, si è indirizzata verso la resistenza; dal 1891 è nella lista nera della Questura: uno dei “sovversivi” più pericolosi del Circondario, perché, insieme ad alcuni compagni, ha riunito i delegati di sessanta società operaie e si sono messi a lavorare perché Napoli abbia una Camera del Lavoro. Il coraggio non gli manca e assieme al tipografo Colagrande ha fondato ”Il Secolo dei Lavoratori”, un giornale operaio che dà voce agli sfruttati e pesta i piedi agli sfruttatori, sicché, quando i padroni definiscono il giornale “organo degli straccioni”, Brambilla non ci gira attorno: “questo epiteto – scrive – o signori, ci fa essere più alteri e coraggiosi nel dir la verità. La parola straccioni tanto vale per noi, quanto quella di cavaliere per voi. Noi siamo gelosi dei nostri cenci onorati”.
Napoli a fine Ottocento non è solo camorra. C’è una cultura operaia, che nasce da lotte ormai dimenticate. E’ una storia semplice fatta di principi egualitari e solidarietà.
Questura e padroni non stanno a guardare. Dei lavoratori, terrorizzati dallo spettro della fame e della disoccupazione, chi non si lascia comprare, cede alle minacce e la Camera del Lavoro si ritrova così un presidente e un segretario legati a filo doppio ai padroni, ai questurini e alla camorra. Nell’ottobre 1896, però, a Firenze, al Congresso delle Società Cooperative, Brambilla trova il coraggio di denunciare le intromissioni e provoca l’espulsione dell’organizzazione inquinata dalla Federazione delle Camere del Lavoro d’Italia. Una denuncia che gli costa caro: sorveglianza strettissima, fermi, perquisizioni e una carriera di “sovversivo noto e pericoloso” da colpire appena possibile.
Brambilla ha un cuore grande, ma è un cuore ammalato che stenta a seguirlo nelle battaglia. Dovrebbe fermarsi, ma non si tira indietro. Nel 1897, mentre lavora con Angelo Binaschi, dirigente operaio di Milano, alla nascita della Federazione Nazionale dei calzolai e stringe rapporti con l’organizzazione internazionale di categoria, che ha sede a Bruxelles, si batte per la refezione scolastica e l’abolizione del domicilio coatto.
La repressione che lo stanca ogni giorno di più, lo rende anche saggio e non caso ricorda a Binaschi che in tempi così oscuri le organizzazioni operaie devono “mantenersi in una linea puramente economica e professionale, imperocché noi conosciamo per esperienza quanto sia nocivo per metodo d’organizzazione il frammischiare a questa la questione politica, mantenendo per base che l’economia unisce, la politica divide”.
Quando però si tratta di organizzare una nuova Camera del Lavoro, da contrapporre a quella dei “cavalieri e questurini”, non dubita si collega apertamente ai socialisti e la nuova organizzazione ben presto si afferma e incute timore ai padroni. Lo stato d’assedio a Napoli nel maggio 1898 si spiega anche con questo timore, sicché non un caso se Brambilla finisce in carcere con molti dei suoi compagni sindacalisti. Non c’è uno straccio di prova, ma basta l’accusa: si preparava la rivoluzione.
Spedito a domicilio coatto, il sindacalista ci resta pochi mesi, ma la salute ne esce definitivamente compromessa: con un sussidio di 30 centesimi al giorno, non c’è un soldo per sostenere un cuore sempre più malato e tutto diventa tremendamente difficile. Ai primi del 1899, dopo un mese trascorso all’Ospedale degli “Incurabili” per ridurre alla ragione il cuore che non vuole più saperne, Brambilla tesse di nuovo la sua trama: le società operaie disciolte si riorganizzano, i contatti con i dirigenti del Partito Socialista si rafforzano – Andrea Costa è il riferimento diretto – e le elezioni amministrative di luglio si avvicinano. Il movimento operaio è cresciuto e i primi successi sono nell’aria. Sta per nascere il secolo dei lavoratori.
“L’uomo trovato morto sotto i portici di San Carlo ieri notte è il noto Brambilla”. Così annota per il Questore la Squadra Politica la mattina dell’otto luglio 1899. Poco prima della mezzanotte il cuore l’aveva tradito. Tornava da un comizio, nella serata del 7 luglio, quella di chiusura della campagna elettorale e non se n’ere accorto nessuno: poggiato a un pilastro del porticato, se n’era andato. Poche ore dopo migliaia di voti avrebbero premiato il lavoro dei militanti operai e col nuovo secolo un’agguerrita pattuglia di lavoratori avrebbe fatto il suo ingresso a Palazzo San Giacomo.
Non fece in tempo, Brambilla, non vide mai sorgere il sole dell’avvenire e ogni volta che ci passo, sotto i portici del teatro San Carlo, mi pare quasi di vederlo, seduto a terra, le spalle poggiate a un pilastro e lo saluto: ” Non hai avuto la gioia del successo – gli faccio – questo è vero, ma non t’è nemmeno capitata la vergogna della disfatta nella quale rischiamo di affondare “. Lo saluto così e penso che annuisca.
Sarebbe bello se oggi sotto i portici del teatro, si trovasse un po’ di spazio per un nome su una targa: Napoleone Brambilla, un operaio milanese tra tanti compagni napoletani.

Fuoriregistro, 6 gennaio 2005 e Agoravox, 16 dicembre 2014, Repubblica ediz. Napoli, 3 gennaio 2015

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IMAG0158Lo sanno tutti: l’intelligenza critica terrorizza il potere. A Socrate, che insegnava alla gioventù ateniese il valore del dubbio e l’autonomia di pensiero, la “democratica” Atene riservò la cicuta. Non stupisce perciò se oggi una democrazia autoritaria che sfocia in regime, sia particolarmente interessata al significato e al ruolo della storia e provi a chiuderla nella gabbia del passato. Per quel che riguarda Napoli, nulla più di una memoria manipolata, che ci soffochi tutti nello stereotipo della “città di plebe” , torna utile al malaffare politico. La storia, infatti, è una preziosa chiave di lettura del presente e non è vero che non insegni nulla: non si spiegherebbe perché ogni dittatura miri a falsificarla.
A leggerla con la lente deformante della vulgata storica, Napoli vive fuori dal tempo: l’eterna camorra, la plebe sanfedista quasi per vocazione, la borghesia mai veramente nata, una classe operaia inesistente. Una città incline alla collusione, che il ’99 priva delle sue più lucide intelligenze e perciò storicamente incapace di stare al passo coi tempi. A Napoli il vento viene sempre dal Sud: è africano, languido e dissolvente. Vento del Sud persino le “Quattro Giornate” degli scugnizzi, sicché pare quasi che l’altro vento, quello del “cambiamento”, il “vento del Nord”, si spenga al Sud non perché la mancata epurazione, decisa nel cuore del Paese, ricicla il fascismo, ma per il sudaticcio scirocco che aiuta il trasformismo dei notabili, produce i Lauro e la corruttela che la città si porta nel Dna come male genetico. Una banda di neofascisti ci ammazza un ragazzo a Roma, nell’inspiegabile torpore della Forza Pubblica che poco prima, a Piazza Barberini, aveva massacrato di botte i movimenti antagonisti? Per l’immaginario collettivo la cicuta è pronta: “Genny ‘a carogna” è il colpevole vero e con lui Napoli, che sta coi camorristi. Sul tasto della plebe si torna, quando un carabiniere uccide a sangue freddo un ragazzo di periferia. Colpo “accidentale” che non indigna nessuno. Scandalosa, ammonisce Serra dal pulpito di Repubblica, è la città che pretende le scuse dei carabinieri.
Mentre fiumi di soldi per “riqualificare” Bagnoli mettono in moto camarille e comitati d’affari politico-malavitosi, questa tragica sceneggiata fa da sfondo alla sospensione del sindaco e scatena l’attacco concorde della “libera stampa”. Il sindaco è l’ennesimo pulcinella napoletano e i suoi elettori la consueta zavorra che frena lo “sviluppo,” in omaggio alle solite logiche clientelari. E poiché la faccenda allarma la parte più viva della città, centri sociali, movimenti di lotta, comitati per l’acqua e l’ambiente che l’hanno portato a Palazzo San Giacomo fuori dalla tutela di sedicenti partiti, è un gioco da ragazzi: il sindaco è un disperato che si aggrappa persino a estremisti e “sovversivi”, i movimenti e i collettivi hanno accantonato le critiche all’Amministrazione, “ben consapevoli che gli spazi che da tempo occupano, potranno essere sgomberati con l’arrivo di un nuovo inquilino a Palazzo San Giacomo”.
La storia, però, quella vera, insegna ben altro e rimanda all’alba del Novecento, a una pagina tra le più belle della vita politica della città: un giornale, “La Propaganda”, una pattuglia di fuorusciti dalla borghesia che si raccoglie attorno alle sue colonne – Arturo Labriola, Arnaldo Lucci, Enrico Leone, per far dei nomi – e quelli che allora erano “sovversivi”: le prime leghe operaie, più o meno “fuorilegge”, i gruppi di internazionalisti, la pattuglia di lavoratori che tra domicilio coatto e patrie galere mettono insieme un’idea di sindacato. E’ un accordo politico forte, che scrive una pagina di storia della città. Da lì trova forza il nucleo operaio che per la prima volta siederà a Palazzo San Giacomo con un programma per quei tempi rivoluzionario, scritto da una commissione di militanti di base. Oggi nessuno ricorda più il tipografo Arcangelo Botta e il guantaio Michele Balsamo, nessuno ricorda Giovanni Bergamasco, al quale si riservò il trattamento De Magistris, per buttarlo fuori dal Consiglio comunale con una legge-vergogna: ineleggibile perché “ex coatto”, condannato da una legalità che non aveva nulla a che spartire con la giustizia. Lo scontro fu aspro, ma ne nacque una Commissione d’inchiesta parlamentare – la Commissione Saredo – che decretò la momentanea sconfitta della cupola delle mafie istituzionali del tempo: la “triade Casale- Summonte-Scarfoglio”. Il deputato Aniello Casale fuggì in Grecia, Summonte fu battuto alla Camera e il direttore del “Mattino” Scarfoglio fu coinvolto in una storia di fondi occulti, giunti al giornale perché sostenesse il “sistema”.
E’ in un contesto di questo tipo che occorre leggere la vicenda De Magistris e il suo tormentato rapporto con i “movimenti”. Ai primi del Novecento la “battaglia morale” si riempì dei contenuti politici di cui erano portatori i “sovversivi”, per scrivere una pagina di storia che fa piazza pulita del cliché della città di plebe. Giolitti “ministro della malavita”, parò poi il colpo, ma non tutto fu vano. Arturo Labriola, poi sindaco della città, diventato ministro del Lavoro, fece approvare una legge sulla previdenza che fu alla base del nostro stato sociale e tra i “sovversivi” passati per quella esperienza, ci fu chi costituì il nucleo di quella sinistra che, raccolta attorno a Bordiga, fu protagonista della nascita del PCI. Da quella scuola veniva Enrico Russo, protagonista della più bella battaglia per un sindacato di base mai combattuta in Italia.
Nel solco di questa esperienza storica, può nascere un rapporto nuovo tra Amministrazione e movimenti. Nel clima di crisi della democrazia, che Renzi incarna con venature neofasciste, collettivi e movimenti – i nuovi “sovversivi” – hanno l’occasione per sperimentare con l’Amministrazione De Magistris un percorso nuovo, che faccia di Napoli un modello nazionale e rappresenti un argine contro la reazione che avanza. Cessione di potere verso il basso è formula impegnativa, che rischia di essere retorica, ma un rapporto organico tra base e vertice, l’impegno al reciproco rispetto, a non prendere decisioni sui temi scottanti dell’ambiente, dell’acqua, della riqualificazione del territorio, senza aver ascoltato chi sul territorio spende la vita in nome di un sistema di valori profondamente democratico, antitetico alla speculazione politica e alle sue intese con la malavita, non è solo possibile, ma necessario e realizzabile. Nessuno chiede a nessuno di snaturare se stesso e la propria storia. C’è davanti una strada. Occorre percorrerla assieme con grande lealtà. Non farà male a nessuno e sarà, anzi, ossigeno e vita entro e fuori i confini di Napoli.

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N14_ARAGNO

Il Novecento è stato un secolo di molti, troppi coni d’ombra, dove la ricerca storica ha faticato a portare la luce. E, all’interno del “secolo breve” italiano, uno dei momenti che contiene più coni d’ombra è quel ventennio fascista che Valerio Romitelli consigliava, qualche anno fa, di «fare a pezzi»1. Per quanto si sia scritto molto negli ultimi cinquant’anni, molto è ancora il lavoro da fare e Giuseppe Aragno ce ne dà prova in questo agile volume dedicato alla vita di uomini, ma anche di donne, sconosciuti ai più. Un libro dedicato agli sconfitti e agli esclusi della prima metà di quel secolo che ha visto la nascita delle grandi ideologie e, soprattutto, la follia e la distruzione di due guerre mondiali2.  Quella di Aragno potrebbe definirsi una contro-storia, oppure una microstoria: il contraltare alle biografie dei “grandi uomini”, dei condottieri e dei leader. Una serie di medaglioni, di tanti Domenico Scandella, la cui vita nel Friuli del Cinquecento fu raccontata con maestria anni or sono da Carlo Ginzburg3

Il racconto, lo studio e l’interpretazione di queste vite è proprio il nodo gordiano di tutto il libro: chi sono le persone di cui Aragno cerca di ricostruire la vita, spulciando nelle carte dell’Archivio Centrale dello Stato, nei periodici dell’epoca e in una vasta bibliografia secondaria? Per le autorità – sia dell’Italia liberale che dell’Italia fascista e finanche, in alcuni casi, dell’Italia repubblicana – questi uomini e queste donne non sono altro che dei pericolosi sovversivi, dei reietti o dei pazzi. Uomini e donne da schedare, controllare, incarcerare e punire. Per lo storico, invece, la vita di queste persone semplici acquista la sua enorme drammaticità e la storia si trasforma in storie di vita vissuta. Storie individuali e collettive, avventure esistenziali e politiche, memoria popolare di un antifascismo vissuto come lotta quotidiana per la dignità e come incapacità di convivere con l’ingiustizia. Sono le biografie di quelli che, come ricorda lo stesso Aragno, citando Gaetano Arfè, «forse non trionfano mai, ma certamente non sono mai vinti»4
Giuseppe Aragno non è nuovo a questo tipo di ricerche. Studioso del movimento operaio e dell’antifascismo nella realtà di Napoli5, nel 2008, insieme ad A. Höbel e A. Kersevan, ha pubblicato Fascismo e foibe. Ideologia e pratica della violenza nei Balcani e nel 2009 il saggio Antifascismo popolare. I volti e le storie, che si può considerare l’antecedente diretto del libro che stiamo recensendo in questa sede6. La violenza come metodo di repressione e la lotta popolare contro il fascismo sono da tempo al centro delle sue indagini storiografiche e delle sue riflessioni.
In Antifascismo e potere, Aragno ricostruisce le vite di cinque uomini, di due donne e di un’intera famiglia. Il libro si apre proprio con una delle due donne, l’anarchica Clotilde Peani (Torino, 1873 – Napoli, 1942?)7, rinchiusa nell’ospedale psichiatrico provinciale di Napoli perché considerata una sovversiva pericolosa e pazza. L’altra donna è la ribelle, instancabile ed appassionata Emilia Buonacosa (Napoli, 1895 – 1976)8. Attivissima a Milano assieme gli anarchici durante il biennio rosso, Emilia Buonacosa, come molti antifascisti, fuggì in Francia con l’instaurazione della dittatura.
Nel 1937 la ritroviamo a Barcellona a difendere la Repubblica spagnola. Ritornata in Francia, nell’ottobre del 1940 fu consegnata dai nazisti agli italiani e confinata a Ventotene. Liberata solo nell’agosto del 1943, Emilia Buonacosa continuò la sua attività militante anche dopo il 1945, ma la sua lotta non venne mai riconosciuta dallo Stato, che continuò a considerarla una pericolosa sovversiva.
Simili e allo stesso tempo diverse sono le storie dei cinque uomini presenti in questo libro: Nicola Patriarca, Umberto Vanguardia, Giovanni Bergamasco, Pasquale Ilaria e Luigi Maresca. Colpisce la storia di Nicola Patriarca (Mosca, 1893 – ? )9, lavoratore italiano nato in Russia, che nel 1938 sfuggì alle purghe staliniane e si rifugiò in Italia, dove fu accolto a braccia aperte dal regime fascista. Come in molti altri casi, Mussolini approfittò della presenza di un ex comunista per rinvigorire la propaganda antisovietica diretta alle classi lavoratrici, che crebbe notevolmente dopo l’adesione dell’Italia al Patto anti-Comintern e la costituzione dell’asse Roma-Berlino nel novembre del 1936.
Rispetto a molti altri transfughi dell’Italia interbellica, fulminati sulla via di Damasco dal fascismo mussoliniano e convertitisi ad un anticomunismo viscerale, come Nicola Bombacci o Angelo Scucchia10, Kolia Patriarca aveva condiviso fino in fondo i valori della rivoluzione bolscevica e continuava a condividerli. Dopo solo alcuni mesi dall’arrivo in Italia, difatti, per via di qualche frase critica espressa nei confronti del regime fascista e riguardo alle vere condizioni dei lavoratori italiani, Patriarca fu mandato al confino a San Costantino Calabro, dove si perdono le sue tracce.
La vita di Umberto Vanguardia (Napoli, 1879 – 1931)11 è sinonimo di militanza e di abnegazione. Giovanissimo, fu attivo nelle prime organizzazioni che diedero vita al Partito Socialista Italiano a Napoli nel biennio 1893-1894. Arrestato in più d’una occasione dalle forze dell’ordine, come nel 1898, in seguito ai moti popolari che sconvolsero la città partenopea, Vanguardia abbandonò il PSI nel 1902 e si avvicinò agli anarchici, collaborando alla redazione e alla direzione di diversi periodici del mondo libertario italiano, come «La Voce dei Ribelli» di Napoli, «La Protesta Umana» di Milano e «Sorgete» di Napoli. Nell’aprile 1912 venne nominato segretario della Lega dei Lavoratori dell’Arte bianca. Dopo la guerra lo ritroviamo di nuovo a Napoli, dove si dimostrò attivissimo nelle lotte del biennio rosso. Gli arresti paiono essere stati un Leitmotiv nella sua vita. Nel 1926, dopo l’instaurazione della dittatura fascista e le leggi fascistissime, all’arresto seguì l’immediato invio al confino. In gravissime condizioni di salute, Vanguardia venne scarcerato nell’autunno del 1931, ma solo pochi mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, morì a Napoli.
Figlio di un benestante che perse tutto con la rivoluzione bolscevica, Giovanni Bergamasco nacque in Russia negli anni Sessanta dell’Ottocento, ma già nel 1884 si trasferì in Italia. Considerato anarchico pericolosissimo, tanto da essere arrestato in più d’una occasione, nel congresso del Partito Socialista che si tenne a Genova nell’agosto del 1892 seguì la linea di Gori e Malatesta. Successivamente, Bergamasco collaborò attivamente alla nascita del socialismo napoletano e nel novembre del 1901 venne eletto consigliere comunale per i socialisti nella città partenopea. Vicino a Bordiga prima e durante la Grande Guerra, Bergamasco aderì all’USI nell’agosto del 1918. Dopo il biennio rosso, rimase fedele ai suoi ideali, ma politicamente fu quasi inattivo. Nel 1927, in gravissime condizioni economiche, chiese un sussidio a Mussolini, ma, quando gli venne concesso, lo rifiutò. A tal proposito è molto interessante la riflessione di Aragno, che nota: «Né eroe, né martire, Bergamasco fa i conti con la vita, cerca un compromesso, medita la resa, ma si rivolta contro se stesso d’istinto e non cede, benché gli costi caro e la vita diventi un inferno, perché la dimensione in cui si sente vivo è quella della dignità»12. Considerato una specie di pazzo grafomane, tra la fine degli anni Venti e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Bergamasco entrò ed uscì innumerevoli volte dalle carceri fasciste e dai manicomi per la distribuzione di manifestini antifascisti nei rioni popolari di Napoli, per aver scritto le parole “W la libertà” sulla saracinesca di un negozio sfitto o per dei semplici fermi periodici della polizia fascista. Il 14 luglio del 1940, a un mese dall’entrata in guerra dell’Italia, Bergamasco venne arrestato a Roma per aver sputato contro un manifesto di Mussolini e venne mandato al confino con una pena di cinque anni. Prima alle Tremiti, dove era stato già confinato nel 1896, e poi nel marzo del 1942, a settantanove anni compiuti, finì i suoi giorni a Lauro, in Irpinia, dove il 29 giugno dell’anno successivo morì nell’ospedale di Avellino.
Diverso il caso di Pasquale Ilaria, uomo d’ordine, capitano dell’Esercito Italiano, volontario in Libia, invalido ed eroe di guerra decorato al valor militare, ma antifascista convinto, tanto da essere inserito nell’elenco dei sovversivi pericolosi da arrestare se necessario; cosa che accadde nel giugno del 1939, quando Ilaria venne arrestato e condannato al confino per cinque anni alle isole Tremiti13. Particolare è anche il caso di Luigi Maresca, liberale ed europeista, malgrado fosse un convinto nittiano, finì per sposare immediatamente una posizione antifascista. Un antifascismo, scrive Aragno, che era «figlio naturale del fascismo e della sua pretesa di imporsi non solo come regime reazionario e classista, ma anche, e soprattutto, come riferimento per le coscienze»14. Licenziato dal posto di lavoro e schedato come sovversivo nel gennaio del 1928, Maresca riuscì a scappare in Francia nel maggio dello stesso anno e poi in Belgio, a Charleroi, dove lo raggiunse la famiglia. In modo analogo a un altro antifascista napoletano esiliato in Belgio, quell’Arturo Labriola che fu teorico del sindacalismo rivoluzionario a inizio secolo e poi Ministro del Lavoro durante l’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920, nell’ultimo gabinetto guidato da Giolitti, l’antifascismo di Maresca sembra vacillare nel 1935, con la guerra d’Etiopia, quando «il groviglio di amor patrio e nazionalismo […] sembrano avere la meglio sui sentimenti democratici»15. Maresca, però, al contrario di Labriola, rimarrà in esilio in Belgio, rifiutando l’offerta del regime fascista. In Italia rientrerà nell’estate del 1940, dopo molti tentennamenti e in mezzo all’Europa devastata dalla guerra. Ristabilitosi a Napoli, Maresca fu comunque considerato un sovversivo e vigilato costantemente dalla polizia fascista. I conti con il fascismo li chiuse alla fine di settembre del 1943, partecipando alle Quattro Giornate di Napoli, uno dei primi episodi della Resistenza al nazifascismo in Italia.
Infine, il caso di un’intera famiglia, i Grossi, composta dal padre Carmine Cesare, dalla madre Maria Olandese e dai tre figli: Ada, Aurelio e Renato16. Dall’Italia, nel 1926 la famiglia Grossi era emigrata per ragioni politiche in Argentina, dove il padre, ma anche i giovani figli, avevano svolto, a cavallo tra anni Venti e Trenta, una rilevante attività nel mondo dell’antifascismo italiano. L’11 agosto del 1936, a meno di un mese dallo scoppio della Guerra Civile in Spagna, la famiglia Grossi decise di ritornare in Europa per difendere la Repubblica spagnola. Si stabilì a Barcellona, dove una nutrita comunità di italiani, tra cui Carlo Rosselli e Camillo Berneri, era giunta per prendere le armi contro il fascismo. La famiglia Grossi partecipò a molte delle attività organizzate dagli anarchici della CNT per resistere all’avanzata delle truppe franchiste, appoggiate dai tedeschi e, soprattutto, dagli italiani, che dal gennaio del 1937 iniziarono durissimi bombardamenti sulla città di Barcellona che continuarono fino al gennaio del 193917. Il padre e la figlia Ada diedero vita a Radio Libertà, sulle cui onde si raccontava il dramma della guerra agli italiani, mentre Aurelio e Renato si arruolarono nell’esercito repubblicano, combattendo prima a Malaga, poi a Teruel, infine sull’Ebro. La “guerra nella guerra”, con la repressione stalinista dei trotskisti del POUM nel maggio del 1937, toccò da vicino anche la famiglia Grossi, che ne visse le conseguenze, come la chiusura di “Radio Libertà”18. Nel gennaio del 1939, a ridosso della caduta di Barcellona e di tutta la Catalogna, i Grossi scapparono in Francia insieme a mezzo milione di rifugiati spagnoli. E, come questi, furono internati nei campi francesi: la madre e la figlia Ada nel campo di concentramento di Argéles sur Mer, mentre il padre e i due figli maschi in quello di Saint Cyprien. Dentro al dramma della guerra e dell’internamento vissuto dalla famiglia Grossi, il dramma maggiore lo visse il figlio Renato. Spostato alla fine del 1939 nell’ospedale psichiatrico di Lannemezan negli Alti Pirenei francesi per «deperimento organico ed alterazioni nervose»19, venne trattato come una cavia, tanto da finire in coma per tre giorni nel giugno del 1940. Nell’agosto del 1941 fu rimpatriato in Italia, dove, considerato «affetto da demenza [e] da mania religiosa»20, oltre che un pericoloso sovversivo per la sua partecipazione alla guerra di Spagna con il bando repubblicano, fu internato nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Napoli fino ad «essere menomato fisicamente e psichicamente» con «atroci terapie da shock elettrico»21. Non fu diversa, purtroppo, la sorte degli altri membri della famiglia Grossi. Tranne la figlia Ada, che nel campo di Argéles sur Mer sposò nell’ottobre del 1940 il repubblicano spagnolo Enrique Guzmán de Soto e andò a vivere con lui a Madrid, dove parteciparono alla resistenza contro il regime di Franco, tutti gli altri membri della famiglia, al loro rientro in Italia nella primavera e nell’estate del 1941, furono confinati a Ventotene e Melfi. Gli innumerevoli tentativi della madre di far uscire il figlio dall’ospedale psichiatrico e di far riunire la famiglia si scontrarono con le risposte negative degli zelanti prefetti fascisti e dello stesso Mussolini. Solo nel settembre del 1943 Renato Grossi venne liberato ed affidato alla madre, la quale aveva riacquistato la libertà poco prima dell’armistizio. Ma Renato non si riprese mai più da quei tre durissimi anni di trattamenti psichiatrici immotivati e crudeli e visse fino alla morte, avvenuta nell’agosto del 2001, tra le cure della famiglia e i periodi di ricovero nelle cliniche.
Antifascismo e potere è un libro di grande interesse non solo per la «storia di storie» che contiene – storie, vale la pena sottolinearlo, che fino ad ora non erano mai state raccontate22 –, ma per più ragioni. Innanzitutto, per la centralità data alla biografia, cosa non frequente nella storiografia italiana, rispetto ad altre scuole storiografiche come quella anglosassone. Aragno dimostra quello che, una ventina d’anni fa, evidenziava Serge Noiret nell’introdurre la biografia di Nicola Bombacci: l’individuo non può e non deve considerarsi come un semplice «oggetto sociologico senza nome», ma come un canale per percepire e decifrare la cultura di un’epoca. L’individuo, sarebbe a dire, deve pensarsi e concepirsi come l’unico luogo storico nel quale si danno incontro, al di là di ogni schematismo storiografico, tutte le forze economiche e morali che contribuiscono a fare la storia23.
In secondo luogo, per il ruolo assegnato alle donne in questa serie di biografie. La vita di Clotilde Peani, di Emilia Buonacosa, di Ada Grossi e di Maria Olandese dimostrano il ruolo non secondario delle donne nella lotta antifascista e, più in generale, nella politica novecentesca. Come notano Claudia Locchi e Iara Meloni in una breve biografia dell’antifascista bolognese Nerina Zotti, da parte degli ufficiali di Pubblica Sicurezza «alle donne è riconosciuta una scarsa capacità di autodeterminazione, e le motivazioni profonde per cui un’attivista fa politica sono spesso ricercate nella diretta influenza del marito, del padre, del fratello» portando all’assurdo presupposto «dell’inconciliabilità delle donne con la politica»24. Una considerazione che, purtroppo, non ha riguardato solo gli ufficiali della pubblica sicurezza, ma anche parte della storiografia degli ultimi sessant’anni.
In terzo luogo, Antifascismo e potere propone una riflessione sul fenomeno della psichiatria come strumento di repressione politica. La drammatica storia di Renato Grossi, ma anche quelle di Clotilde Peani e Giovanni Bergamasco, ne sono una prova. E rimandano al capolavoro di Gianni Nebbiosi, psichiatra e cantautore che nel 1972, con la collaborazione di Giovanna Marini, compose ed incise E ti chiamaron matta, un album che volle essere un j’accuse ai manicomi e che aprì, in un certo qual senso, le porte alla legge Basaglia.
Infine, queste biografie dimostrano la centralità di una categoria chiave per la comprensione del Novecento: la passione per la politica. Una passione che è stata così forte da travolgere intere vite. Una passione che fu qualcosa di distinto dagli interessi e, spesso, ben lontana dal potere25. Una passione, che a noi, uomini del XXI secolo, sommersi in un’apatia da cui pare essere così difficile uscire, ci sembra una cosa lontana, d’altri tempi e d’altri luoghi. Una passione che però fu tangibile, presente e reale, come la vita di questi «umili eroi della storia di cui troppo raramente ci ricordiamo» ci ha dimostrato26

Note

1 ROMITELLI, Valerio, DEGLI ESPOSTI, Mirco, Quando si è fatto politica in Italia? Storia di situazioni pubbliche, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 217.
2 Al riguardo, vedasi quattro volumi che analizzano queste questioni e questo nodo storico da punti di vista diversi come BRACHER, Karl Dietrich, Il Novecento secolo delle ideologie, Roma, Laterza, 1984; HOBSBAWM, Eric J., Il Secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995; MAZOWER, Mark, Le ombre dell’Europa, Milano, Garzanti, 2000; TRAVERSO, Enzo, A ferro e fuoco. La guerra civile europea, 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007.
3 GINZBURG, Carlo, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi, 1976.
4 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere. Storia di storie, Foggia, Bastogi, 2012, p. 106.
5 Tra gli altri, ricordiamo, ARAGNO, Giuseppe, Socialismo e sindacalismo rivoluzionario a Napoli in età giolittiana, Roma, Bulzoni, 1980; ID., Siete piccini perché siete in ginocchio. Il Fascio dei lavoratori, prima sezione napoletana del PSI, 1892-1894, Roma, Bulzoni, 1989; ARFÈ, Gaetano, Scritti di storia e politica, a cura di Giuseppe Aragno, Napoli, La Città del Sole, 2005.
6 ARAGNO, Giuseppe et alii, Fascismo e foibe. Ideologia e pratica della violenza nei Balcani, Napoli, La Città del Sole, 2008; ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo popolare. I volti e le storie, Roma, Manifestolibri, 2009.
7 ID., Antifascismo e potere, cit., pp. 9-13.
8 Ibidem, pp. 53-72.
9 Ibidem, pp. 14-22. a cura di Steven FORTI.
10 Sui transfughi dell’Italia interbellica ed in particolare sulla figura di Nicola Bombacci e di Angelo Scucchia, vedasi FORTI, Steven, El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez Solís en la Europa de entreguerras, Tesi di dottorato in storia contemporanea,Università Autonoma di Barcellona, Barcellona, 2011, cap. I. Vedasi anche ID., «Partito, rivoluzione e guerra. Il linguaggio politico di un transfuga: Nicola Bombacci (1879-1945)», in Memoria e Ricerca, 31, 2/2009, pp. 155-175.
11 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere, cit., pp. 23-40. Antifascismo e potere. Storia di storie.
12 Ibidem, pp. 81-106. La citazione si trova a p. 102.
13 Ibidem, pp. 73-80.
14 Ibidem, pp. 41-52. La citazione si trova a p. 44. a cura di Steven FORTI.
15 Ibidem, p. 46. Su Labriola, vedasi, tra gli altri, MARUCCO, Dora, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario in Italia, Torino, Einaudi, 1970 e DI CAPUA, Giovanni, Un libertario nelle istituzioni. Arturo Labriola dall’antifascismo alla Repubblica, Napoli, Edizioni Simone, 1999.
16 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere, cit., pp. 107-145.
17  Vedasi, tra gli altri, il catalogo della mostra Quan plovien bombes/Quando piovevano bombe (Barcellona, Generalitat de Catalunya-Museu d’Història de Catalunya-Memorial Democratic, 2007) curata da Laura Zenobi e Xavier Domènech e presentata nella primavera del 2007 a Barcellona e, durante il 2008, in varie città italiane. Riguardo ai durissimi bombardamenti che colpirono il capoluogo catalano durante la Guerra Civile e di cui fu responsabile l’Aviazione Legionaria fascista, nell’ultimo lustro sono stati pubblicati alcuni libri e diversi saggi. Nel maggio del 2011 l’Associazione Altraitalia presentò una denuncia contro lo Stato italiano per crimini contro l’umanità causati da questi bombardamenti. Dopo quasi due anni e il diniego del Tribunale di Madrid, nel gennaio del 2013 il Tribunale di Barcellona ha accettato il ricorso presentato dall’Associazione Altraitalia e ha aperto una causa contro 21 piloti dell’Aviazione Legionaria fascista. Il fatto è di grande importanza, tenuto conto che è la prima volta che in Spagna si apre una causa riguardo a fatti accaduti durante la Guerra Civile. Vedasi, GARCÍA, Jesús, «Reabierto el frente judicial por los crímenes de la Guerra Civil» in El País, 23 gennaio 2013, URL: http://ccaa.elpais.com/ccaa/2013/01/23/catalunya/1358933175_968312.html [consultato il 7 febbraio 2013].
18 Vedasi, GALLEGO, Ferran, Barcelona, mayo de 1937. La crisis del antifascismo en Cataluña, Barcelona, Debate, 2007.
19 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere, cit., p. 130.
20 Ibidem, p. 134.
21 Ibidem, pp. 112, 135. a cura di Steven FORTI.
22 Tranne nel caso di Umberto Vanguardia su cui recentemente si è pubblicata la biografia di GIULIETTI, Fabrizio, Umberto Vanguardia. Azione e propaganda di un anarchico napoletano (1879-1931), Napoli, Galzerano, 2009.
23 NOIRET, Serge, Massimalismo e crisi dello stato liberale. Nicola Bombacci (1879-1924), Milano, Franco Angeli, 1992, p. 21.
24 LOCCHI, Claudia, MELONI, Iara, Nerina Zotti tra le righe. La vita di una sovversiva nelle carte della Questura di Bologna, in BETTI, Eloisa, TAROZZI, Fiorenza (a cura di), Le Italiane a Bologna, Bologna, Editrice Socialmente, 2013, p. 134. Antifascismo e potere. Storia di storie.
25 Riguardo a questa interessante questione, vedasi HIRSCHMANN, Albert O., Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Milano, Feltrinelli, 1979 e, soprattutto, le riflessioni contenute in ROMITELLI, Valerio, L’odio per i partigiani. Come e perché contrastarlo, Napoli, Cronopio, 2007.
26 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere, cit., p. 140.

* Steven FORTI è Dottore di ricerca per l’Universidad Autónoma de Barcelona con una tesi centrata sulla questione del transito di dirigenti politici di sinistra al fascismo nell’Europa interbellica, le ricerche di Steven Forti (Trento, 1981) si focalizzano sulla storia politica e del pensiero politico nel XX secolo, con particolare attenzione allo studio biografico ed all’analisi del linguaggio politico. Collaboratore di varie riviste di storia contemporanea in Italia e Spagna (Memoria e Ricerca, Spagna Contemporanea, Storicamente, Nous Horitzons, Atlántica XXII), è stato uno dei fondatori di PRAXIS (Asociación de Jóvenes Investigadores en Historia y Ciencias Sociales) ed attualmente è membro del CEFID (Centre d’Estudis sobre les Epoques Franquista i Democràtica) e dell’Asociación de Historia Contemporánea spagnola. Nei prossimi mesi si pubblicheranno i suoi primi due libri: El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez Solís en la Europa de entreguerras e Historia de las Comisiones Obreras de la construcción de Cataluña (1964-1992).
http://www.studistorici.com/progett/autori/#Forti

FORTI, Steven*, «Recensione: Giuseppe ARAGNO, Antifascismo e potere. Storia di storie, Foggia, Bastogi, 2012, 151 pp.», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea: Processo penale, politica, opinione pubblica(secoli XVIII-XX), 29/08/2013, http://www.studistorici.com/2012/08/29/forti_numero_14

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Bottega Scriptamanent
Mensile di dibattito culturale e recensioni

Direttore responsabile: Fulvio Mazza
Direttore editoriale: Graziana Pecora
Anno VII, n. 65, gennaio 2013

Repressione fascista e resistenza al Duce. I danni della scienza usata a scopi politici . “Pazzia indotta” vs “ragion di stato”: da Bastogi editore, otto storie di vite annientate dalla psichiatria di regime
Federica Lento

Quando la Storia assume quasi i caratteri del romanzo, pur non essendo purtroppo invenzione; quando il sacrificio di vite umane diviene racconto, messo nero su bianco e reso disponibile ai lettori, non si può fare a meno di riflettere su una pagina triste del nostro passato.
Durante la Repressione fascista molti uomini, donne, ragazzini decisero di non abbassare la testa, di continuare a lottare per la propria libertà e per le proprie convinzioni, nonostante l’incombente minaccia di privazioni e addirittura di morte. Non si trattava solo di privazioni materiali e di mancanza di libertà ma di perdita della vita, brutale o graduale, giorno dopo giorno, quando spesso accadeva di essere rinchiusi nei manicomi perché le proprie idee non erano affini a quelle del regime.
Giuseppe Aragno, storico napoletano scrittore di numerosi testi sulla lotta antifascista rivoluzionaria e sul movimento operaio, ha recentemente pubblicato il saggio Antifascismo e potere. Storia di storie (Bastogi editore, pp. 154, € 15,00), in cui la cornice della Storia durante il periodo fascista non può escludere gli otto racconti privati dei singoli che della Repressione sono stati vittime lucidamente e coraggiosamente consapevoli.

La psichiatria: strumento di repressione politica
Le vicende raccontate sono storie di reclusione presso manicomi di persone non malate ma considerate pericolose agli occhi del regime, per le proprie idee antifasciste; dei “folli” che non possono camminare liberi per strada ma devono essere segregati, censurati, stretti da una camicia di forza che non blocca solo i movimenti ma anche i pensieri. Un utilizzo dunque politico della psichiatria. Tra le varie storie c’è quella di una donna, Clotilde Peani figlia della “Italia liberale” di Depretis e Crispi. Torinese e ben lontana dal cliché di sartina pallida e buona madre e moglie, frequenta già da adolescente i circoli socialisti, tacciata subito dalle autorità di essere una donna “audace e pericolosa”. La sua vita di militante e attivista è condannata dal sistema repressivo fascista. Clotilde sarà epurata come “schizofrenica”, così come tanti altri suoi compagni, improvvisamente ritenuti “mentalmente instabili”, quindi rinchiusa a vita in manicomio; morirà nel 1942 nell’Ospedale psichiatrico di Napoli.
C’è poi la storia di Nicola Patriarca, beffato da ben due “ragioni di stato”, quella russa prima, quella italiana poi. Nato infatti a Voronež, non distante dal confine ucraino, Kolia (così come sua moglie Varia ama soprannominarlo) è fedele al Partito comunista sovietico, ma viene “eliminato” dal governo staliniano nel 1937 semplicemente per la sua “nazionalità inaffidabile”. Rifugiatosi a Napoli, ben presto i suoi ideali gli causano l’internamento da parte delle camicie nere al confino di San Costantino Calabro. Straziante la sua corrispondenza epistolare con la moglie e con il figlio, che trasmette tutta l’umanità e la sofferenza di un uomo incompreso e punito due volte per il proprio credo. Arrestato nel 1939, si perdono le sue notizie nel 1941, proprio a pochi mesi dalla fine della sua pena, arrivata grazie all’insperata amnistia sovietica.
Ancora, c’è la vicenda di un giovane, Umberto Vanguardia, che da adolescente forse inconsapevole, forte dei propri ideali contro il regime da urlare giustizia già tra i banchi di scuola del ginnasio, viene internato ancora una volta per la sua “utopia”. E poi le storie di Luigi Maresca, Emilia Buonacasa, Pasquale Ilaria, Giovanni Bergamasco e l’intera famiglia Grossi, tutte accomunate dallo stesso triste finale, quello dell’internamento.
Nel raccontarle, Aragno non si accontenta di mettere sotto accusa l’apparato repressivo totalitario della dittatura mussoliniana, ma insiste sui meccanismi di un’Italia liberale prefascista, che aveva concepito e costruito i rudimenti del sistema di controllo e repressione, usati prontamente poi in epoca fascista. Protagonisti delle biografie presentate sono attivisti delle forze minori, ma che appaiono al contrario rappresentativi di una vicenda di dimensione nazionale e internazionale, delle classi subalterne, che rompono gli schemi consolidati.

Lo scontro tra “ragion di stato” e utopia antiregime
Quello che emerge dalle vicende raccontate da Aragno è una riflessione sulla dicotomia tra la “ragion di stato” – quella che Benedetto Croce descriveva come la «legge motrice» di un paese e che assume nella realtà l’ideologia di un regime come rinuncia al singolo in nome degli interessi dei gruppi dominanti – e l’utopia antifascista, uno scontro tra «l’eccesso di realismo», come lo definisce l’autore, e l’eccesso di speranza. Non a caso l’utopia rasenta il limite sottilissimo della pazzia che, in questo saggio, è pazzia indotta, pazzia inventata, giustificazione o alibi a dei moti e ideali da reprimere e controllare. L’isolamento, la paura, la scelta di opporsi comunque e resistere in un libro che tiene assieme il rigore della ricerca scientifica e i ritmi e le parole della narrazione, un “romanzo storico” che, partendo dalla varietà di situazioni, aspirazioni, relazioni e intenti, si focalizza sui volti, le voci, le vicende umane e politiche di una militanza sofferta.

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 65, gennaio 2013)

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Il Manifesto, 16 gennaio 2013

Memoria- «Antifascismo e potere. Storia di storie» di Giuseppe Aragno
Frammenti ribelli all’ordine costituito
Piero Bevilacqua

Gli studi di storia del movimento operaio, che in Italia hanno conosciuto una fase di effervescenza nei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale, sono da gran tempo trascurati dagli studiosi dell’età contemporanea. Il lavoro e la lotta di classe non sono alla moda, appaiono estranei e stridenti con lo spirito del tempo, e gli studiosi italiani, per lunga tradizione, si guardano bene dall’urtare il perbenismo dominante nella nostra accademia. Solo da alcuni anni sono ripresi gli studi di storia del sindacato, che segnalano una rinnovata attenzione a quello che è senza dubbio un carattere saliente della storia politica italiana nel XX secolo.
La presenza di un grande sindacato di classe come la Cgil, e talora un ruolo incisivo delle formazioni minori, accompagna originalmente la vita e l’evoluzione dei ceti popolari nel corso del secolo. Ma la storia del sindacato non è la storia del lavoro e dei lavoratori, anche se la riguarda molto da vicino e la coinvolge. La classe operaia, come corpo sociale e i movimenti popolari non hanno conosciuto l’ampiezza degli studi riservati dagli storici italiani ai contadini e alle loro lotte. E oggi men che mai tornano ad attrarre l’attenzione degli storici. Perciò appare come uscito da un età remota il recente saggio di Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi Editrice Italiana, pp. 145, euro 15). Per la verità Aragno aveva già pubblicato per Manifesto-Libri Antifascismo popolare. I volti e le storie (2009). Ora continua in quel filone di studi che riprende la tradizionale storia del movimento operaio, esaminata non quale fenomeno collettivo – sempre presente come sfondo storico – ma sotto forma di vicende biografiche, storie individuali, avventure politiche ed esistenziali dei singoli. E, per quest’ultimo aspetto, va anche rilevato che i personaggi ricostruiti nel loro percorso non sono i grandi leader, non portano nomi illustri, ma sono protagonisti oscuri o semiuscuri che hanno dedicato la loro vita alla lotta politica, pagando un caro prezzo personale. Sfilano in questo testo, preceduti da una nota di inquadramento storico, le vicende di uomini e donne irregolari, trasgressivi, che lo Stato liberale e quello fascista spesso bollano come pazzi, reietti, violenti eversori dell’ordine costituito. Referti che Aragno registra con particolare soddisfazione, perché il suo impegno di storico è tutto mirato a portare alla luce personaggi che sin nella loro esperienza esistenziale appaiono come antisistema, fuori e contro ogni ordine costituito.
Esemplare sotto questo profilo è la storia di Emilia Buonacosa d’ignoti, trovatella di Pagani, nel salernitano, che diventa organizzatrice sindacale a Nocera Inferiore nei primi decenni del Novecento e poi entra nel giro europeo degli esuli antifascisti. Ma nel testo troviamo anche le vicende di personaggi meno oscuri, come quella di Luigi Maresca, partigiano durante le Quattro giornate di Napoli, che ha un profilo intellettuale e politico più evidente e maturo. Le storie iniziano con la vicenda di una donna, Clotilde Peani, anarchica, nata a Torino, che finisce i suoi giorni a Napoli dopo anni di persecuzione fascista, e proseguono con la vicenda di altri sette personaggi.
Di queste storie non si può dar conto se non in maniera frammentaria, per suggerire un’idea del materiale che il lettore trova nel libro. Certamente val la pena ricordare la vicenda di Kolia (Nicola) Patriarca, un italo-russo che, come ricorda l’autore «vede la sua vita, i suoi affetti e la sua famiglia colpiti dalla furia ideologica di due dittature». Patriarca, infatti, comunista, è costretto ad espatriare dall’Urss, dove infuria la repressione staliniana, e a rifugiarsi in Italia. Qui è accolto di buon grado dalle autorità del regime, che possono utilizzare la sua posizione in funzione antisovietica. Ma Patriarca ha alle spalle una storia di condivisione della rivoluzione sovietica e non lo nasconde. Viene perciò denunciato dalla polizia, nel 1938, «come persona pericolosa per gli ordinamenti sociali e politici» dell ‘Italia. Finisce al confino a San Costantino Calabro.
Le storie ricostruite da Aragno hanno il sapore di una giustizia postuma resa a personaggi travolti dalla storia e poi e dall’oblio, talora politicamente intenzionale, di chi è venuto dopo. Vi si osserva evidente una determinata volontà di risarcimento della memoria. È una operazione moralmente e storiograficamente degna, che merita plauso. Credo, tuttavia, che la qualità storiografica dell’operazione sia alterata dal linguaggio che l’autore ha scelto per narrare queste storie. Appare evidente un eccesso di partecipazione ideologica di Aragno alla vicenda dei suoi eroi. Sicché le parole dei protagonisti, i loro punti di vista, le loro recriminazioni, il loro intero mondo vissuto di persecuzione e di lotta, diventano il materiale diretto della narrazione storica, con poco filtro emotivo e la misura che sarebbe stata necessaria.

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In testa il vuoto, quasi nulla in tasca – pochi rubli, consigliavano tutti – e gli appunti sul foglio ormai confusi, Carlo strinse indice e pollice della sinistra attorno alla radice del naso, sull’angolo interno degli occhi serrati con forza e sospirò. Un rifiuto del mondo, una sorta di repulsione che si faceva malessere. Aveva imparato a conoscere così bene la strana sensazione, che non si agitava più, pensando a chissà quale pericoloso malessere.
Nelle prime ombre che si allungavano sulla riva del Canale Gribaedova, il via via di turisti e i lampi di cellulari e macchine fotografiche gli parevano insopportabili e facevano il paio coi nugoli di ragazzi, l’incredibile folla di giovani che non lo convincevano da quando aveva messo piede in città. Non avrebbe saputo dire il perché, ma gli riusciva incomprensibile e un po’ lo irritava quel loro veloce andirivieni tra il Museo Russo, il parco Michailovksij e la grande Prospettiva Nevskyi, che in fondo alla via incrociava il canale a perpendicolo e mandava fin lì il rombo di auto potenti lanciate a tutta velocità tra un semaforo e l’altro.
Ci sono giovani ovunque, s’era detto compiaciuto, al primo vederli, ma era stato davvero un istante. Qualcosa gli aveva poi dato fastidio. Giovani ovunque, certo, ma ovunque troppo uguali a se stessi e troppo simili a tutti i giovani delle grandi metropoli occidentali, infilati in larghe t-shirt e fasciati da jeans attillati e affusolati verso il basso, fin dove la griffe italiana delle scarpe costose dichiarava una ricchezza impersonale, acritica e del tutto incurante dell’eleganza.
Carlo era lì a ripetersi la cantilena: Smettila di essere così critico, dai. Non sei invecchiato tanto da non capire che non si tratta della città e nemmeno della sua gente. E’ qualcosa che ti sta dentro.
Se lo diceva e ripeteva, ma non bastava. Continuava a non convincerlo – e addirittura si rifiutava di vederlo – il contrasto feroce tra i passi veloci e indifferenti di ragazzi e ragazze che filavano via spediti come trottole e quelli lenti, forse circospetti, di vecchi che russi non erano, perché non avevano alcuna fretta, mentre gli passavano accanto con lo sguardo opaco, presi nei loro strani colloqui – parevano trattative a un mercato bovino – fatti di mani aperte a indicare cifre, più che di parole; ognuno con una ragazza in minigonna scelta a casaccio, bionda come le altre, alta e slanciata come le altre, tutte più o meno uguali, poggiate a parapetti e ringhiere, spalle al Canale, che ripetevano una cantilena musicale, anche quella uguale alle cento cantilene delle altre, come uguali erano il suono della risata falsa che, chissà, forse salutava un accordo raggiunto, pensava Carlo, e il gridolino venato di sdegno che sembrava rifiutare un’offerta scandalosamente bassa o una qualche irricevibile richiesta.
I compagni di viaggio entusiasti di quella ammaliante serata a San Pietroburgo, erano presi da altro, in fondo la città era un incanto, ma Carlo, la fronte segnata dalla linea profonda delle rughe, gli occhi aggrottati per un fastidio dell’animo che il viso non sapeva nascondere, non capiva quale meccanismo, per lui misterioso, agisse nelle loro teste decise a non pensare, selezionando da un insieme complicato ciò che piaceva e non disturbava. Erano giorni ormai che la sera gliele indicava, mentre da invisibili pertugi degli edifici settecenteschi le vecchine serali sbucavano coi mazzolini di fiori di campo, s’appostavano davanti ai locali più noti e frequentati, ai crocicchi più affollati, o prendevano a camminare passo passo, provando a vender fiori a coppiette infastidite, a giovani indifferenti e a turisti noncuranti, instancabili fino alla fermata Majakovskaya della metro sempre gremita. Lì si fermavano stanche, le vecchie signore, sotto gli occhi stupiti di Vladimir Majakovskij, e col sorriso gentile che chiedeva solidarietà offrivano fiori in cambio di qualche rublo.

La Russia, terra di rivoluzioni, pensava Carlo, non ascolta più il cantore d’un sogno, che s’è fatto incubo. E chissà di dove affioravano i versi lontani: “Siamo uguali compagni…, proletari di corpo e di spirito. Soltanto uniti abbelliremo l’universo”. Parlava tra sé Carlo, o forse no, forse pensava di farlo, ma in realtà declamava, perché subito una voce irritata lo rimproverava. Una voce di dentro, credeva, e si meravigliava che due Carlo stessero lì a litigare davanti agli smalti e alle piastrelle di vetro e ceramica variopinta della chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, ma anche in questo sbagliava e si capiva: era confuso. Frutto di quella confusione era forse la sensazione che a parlare fosse lui, mentre probabilmente gli parlava un compagno di viaggio o, a pensarci bene, una donna. La sorella, un’amica, la moglie? Chi fosse contava poco. Aveva i toni sfuggenti che usavano con lui per dirgli, scherzando, che non lo sopportavano più con le sue malinconie, col cenno petulante alla rivoluzione, con i versi immancabili d’una vecchia poesia e la politica, “la maledetta politica che Carlo non lascia mai a casa e – ci si può giurare – prima o poi diventerà memoria di un suo ignoto sovversivo, passato di qua senza lasciare altra traccia di sé, se non quella traumatica che a lui tormenta i sonni e a noi rovina i viaggi”.
Da anni ormai, ogni occasione era buona per ricordare con tono inizialmente solenne, “lo storico percorso turistico targato Carlo, con affannosa galoppata parigina alla ricerca della celebre Rue de Clignancourt” e giungere poi, con crescendo ironico, al “chilometro e mezzo di edifici insignificanti nel diciottesimo arrondissement, tra Rue Championnet e Boulevard de Rochechouart, che – per chi non lo sapesse – ai primi del Novecento accoglieva una banda di italiani fuggiaschi che Crispi e Giolitti intendevano spedire al fresco”. A questo punto, la “voce narrante” poteva commuoversi per gli “sventurati turisti costretti a sorbirsi strampalate considerazioni sull’epopea sovversiva, di cui, a perenne ricordo, la via conservava la vecchia e quasi illeggibile tabella d’un teatro alternativo, dio sa perché sopravvissuta, sull’ingresso di un edificio trasformato in supermercato, e la folla d’arabi malfidati, sfuggiti – perché no? – a un Crispi di casa loro: dimostrazione vivente che luoghi e cose conservano il filo della continuità tra storia e vita, passato e presente”.
Carlo sentiva di non avere più nulla da opporre all’angoscia, ma l’incantevole chiesa del Salvatore sul Sangue Versato lo rincuorò. Benché fosse molto tardi, c’era ancora luce e lo sguardo si fermò sul punto in cui si conserva un tratto di ringhiera divelta, sul lato che guarda al canale Gribaedova, dove una bomba aveva ucciso Alessandro II. Saprei raccontarvi la storia di quel 13 marzo del 1881 come nessuna guida può fare – pensò, guardando i compagni di viaggio chiusi a cerchio attorno a sua moglie che leggeva da un libriccino la terribile fine dello zar. Quanto più oscuro, ambiguo e affascinante sarebbe stato il racconto, se avesse chiamato in causa il suo nichilista, si disse Carlo, ma preferì tacere. Dopo la faccenda di Rue di Clignancourt, non aveva alcuna voglia di aggiungere un capitolo nuovo al percorso  turistico targato Carlo. Quale che fosse, non aveva dubbi: la verità che nascondeva il suo nichilista non interessava nessuno e, d’altra parte, il gruppo già s’era disperso attorno a figuranti che nascondevano la fatica di vivere sotto gli abiti sfarzosi dell’antica nobiltà russa. La disfatta di chi aveva creduto di uccidere l’ingiustizia sociale, uccidendo lo zar, non poteva essere più evidente. Forse di lì nascevano la tristezza di Carlo e il suo invincibile malessere; dalla percezione di quella disfatta. Basta smettere di guardarla con gli occhi del turista – si consolò Carlo – e San Pietroburgo, ostaggio del libero mercato, città d’imperi finiti nel sangue e rivoluzioni soffocate dalle loro stesse contraddizioni, diventa un tragico simbolo dell’inutile ferocia della storia.
Ma a che serve farlo? – si chiese Carlo, quasi per legittima difesa. Perché non seguire la via dei suoi compagni di viaggio? Per loro, San Pietroburgo era lì dove li portava la guida e non era detto che avessero torto; San Pietroburgo era ora nelle stupende maioliche variopinte della chiesa, come era stata prima nell’eleganza dei vestiboli in pietra delle stazioni della metro, qui con l’azzurro del mare, lì col rosso dedicato a Puskin, tra falci incrociate a martelli e il bassorilievo in bronzo dell’Aurora, l’incrociatore che esplose il primo colpo della rivoluzione. Occorreva fermarsi lì, senza porsi domande su quella sorta di minuscola galera che imprigionava le ferroviere immobili giù, in fondo alle scale mobili, per tutto il tempo del loro lungo turno. Fermarsi sempre un attimo prima di interrogarsi. Sentire, sì, il fascino della stupenda Università Statale sull’isola Vasil’ievskij, coi suoi muri di mattoni rossi e gli innumerevoli balconi incorniciati di legno dipinto in bianco, ma difendersi dalle osservazioni acute di Natascia e dalle mille tentazioni che nascevano dai suoi occhi azzurri, limpidi e profondi, dai suoi riccioli biondi, dalla sua camicia colorata e civettuola che involontariamente, ma ostinatamente si sbottonava sul seno florido. Fermarsi lì e non darle ascolto, mentre ti diceva, in un italiano ricco e musicale, che lei faceva la guida per arrotondare il magro stipendio di docente universitaria e procurare tutto quel che serve alla “bimba mia”. Fermarsi lì, senza provare a capire chi la spuntasse in lei tra rimpianto e disprezzo, quando ti parlava di una condizione generalizzata d’ingiustizia e di cancellazione di diritti. Sbarrare la via alla sua devastante osservazione: ho vissuto a lungo in Italia per ragioni di studio e mi dispiace dirlo, ma credo sia così, stanno sperimentando su di noi quello che poi faranno anche a voi.

Davanti al Salvatore del sangue versato, ciò che contava davvero era l’anomalo e affascinante profilo architettonico della cattedrale, l’unica in città a conservare il disegno delle chiese del medio evo russo, armonicamente unito alle linee tipiche delle basiliche del Seicento. Perché, tra uomini e cose, giunse a chiedersi Carlo, pur di convincere se stesso, non dovrebbe essere legittimo fermarsi sull’incanto delle cose, quando esse sono arte? Anche così ci si occupa degli uomini, convenne, ma la tentazione improvvisa di stringere l’indice e il pollice della sinistra attorno alla radice del naso per aiutare gli occhi a stare chiusi, gli ripropose un rifiuto doloroso. Freddo e deciso non si lasciò tentare. Appallottolò il foglio dei suoi appunti, lo mise in tasca, poi si poggiò alla fredda ringhiera del canale. A Barcellona, ricordò, nulla gli aveva parlato di Catalogna, più che le tracce d’una radio repubblicana e d’una famiglia d’italiani che aveva lottato e vissuto tra l’Avinguda Diagonal e Carrer de Còrsega durante la guerra civile. A Parigi, oltre il velo dei monumenti e l’industria del turismo, la Rue de Clignancourt che tutti avevano disprezzato, l’aveva aiutato a rompere il velo dell’ipocrisia occidentale, gli aveva insegnato quanto precaria sia l’integrazione e gli era parso evidente: ci sono strade che ereditano drammi e in quella via, dopo gli italiani, non a caso c’erano venuti gli arabi. Lì, ancora e forse sempre lì.
Basta, si disse, anche se sapeva bene di essere venuto a Pietroburgo per parlare ancora una volta ai suoi fantasmi. L’ultima volta forse, s’era detto, se è vero com’è vero che l’età e la salute non hanno certo rispetto delle stupide leggi di chi ci governa e se si vive di più, spesso si vive male. Non avrebbe chiesto al Salvatore del sangue versato di parlargli dell’attentato. Ci credeva ancora ai miracoli di quel dialogo, era certo che lì avrebbe potuto sapere com’era andata, ma per queste cose si viaggia da soli, come da soli, in fondo, si vive. Solo lui aveva quel dubbio e molto probabilmente solo a lui interessava sapere se Giovanni Bergamasco era lì il giorno dell’attentato, Giovanni, figlio di Carlo, il napoletano fotografo di corte che tante volte aveva fissato sulle sue geniali lastre lo zar che lì era poi caduto, su quella riva ormai muta. C’entrava davvero, Giovanni, il presunto nichilista che la vita aveva poi portato in Italia? Era lì il giornalista brillante e poliglotta, lo studioso di botanica, l’amico poi nemico di Mussolini, il rivoluzionario che, per uno dei misteriosi paradossi della storia, i rivoluzionari bolscevichi avevano espropriato e i reazionari fascisti perseguitato per tanta parte della sua lunga vita? No. Non avrebbe cercato i due palazzi che Carlo, il giramondo e ricchissimo napoletano, aveva invano acquistato in quella che, con incerta grafia le polizie di mezzo mondo definivano “la centralissima via Moskovskaya”. A Carlo non interessavano più i due palazzi ereditati da Giovanni dopo la fuga a Napoli. In quei giorni faticosi, San Pietroburgo gli aveva narrato già molto e ora sapeva: vi si erano spenti i grandi e terribili sogni del Novecento e il secolo nuovo vi sperimentava un incubo. Che poteva aggiungere, se mai sopravvissuto alla fine degli zar, alla rivoluzione, all’assedio nazista e al crollo dell’Unione Sovietica, lo splendore dei palazzi di Bergamasco? Di splendore ne aveva visto abbastanza nel palazzo del principe Jusupovskij; ciò che non aveva ancora trovato era chi sapesse dirgli dove abitavano i poveri, in una città che pareva tutta palazzi nobiliari. Che città era mai quella, si domandava, fatta di sfruttatori senza sfruttati?
Carlo pensò che in fondo questo è la storia: parla dei vincitori e tace dei vinti. Forse un altro Carlo, l’intraprendente fotografo di corte, una risposta l’avrebbe avuta. Lui che a San Pietroburgo c’era venuto da emigrante; lui che si era poi arricchito con le sue foto, tutte sparite con la rivoluzione, che aveva visto fuggire per sempre un figlio rivoluzionario e un altro l’aveva perso quando s’era messo coi bolscevichi per la rivoluzione, una risposta, lui, poteva averla. E chissà, un’altra non l’avrebbe avuta Giovanni, ricondotto lì, davanti a quella ringhiera divelta di cui conosceva il segreto nascosto. Giovanni avrebbe forse potuto spiegargli ciò che nessuno tranne lui sapeva. Ma contava davvero saperlo? E Carlo, poi, aveva davvero ancora voglia di capire?

Quali che fossero le risposte, di una cosa ormai s’era convinto, lo strano viaggiatore: a guardare le cose dal punto di vista della povera gente, che negli itinerari turistici non aveva casa in città, benché ci vivesse, San Pietroburgo era un enigma e i conti non tornavano. Certo, coi bolscevichi contadini, metalmeccanici, professori non avevano diritto di parola, ma casa, lavoro, scuola e medicine ce l’avevano tutti. Ora che, invece, a dar retta a giornali e televisioni, era arrivata la democrazia, non avevano certezza d’un salario, d’una medicina, d’un posto a scuola o d’una laurea, se avevano testa per studiare. Ecco, un metalmeccanico forse avrebbe saputo sciogliere questo rebus e l’avrebbe data una risposta alla domanda che si portava dentro: è possibile che dove c’è libertà ci debbano essere per forza le vecchiette che vendono fiori per fame la sera e invece, se la fame non c’è, se c’è uno Stato che pensa a curarla, la povera gente, e fa studiare tutti, anche chi non ha un centesimo, non c’è libertà di parola e d’opinione? Bergamasco, rivoluzionario, sognatore, combattente, perseguitato politico cancellato dalla storia dopo aver sognato di cancellare i padroni, di queste cose capiva. Lui, ch’era nato a Pietroburgo e sapeva di zar e di bolscevichi, di democrazia liberale e di fascisti, lui che s’era trovato sempre a dover scappare e mille volte era finito in galera, in tutte le stagioni della storia, lui che aveva attraversato per decenni la tragedia della vita e s’era spento sulle montagne dell’Irpinia confinato politico a ottant’anni, lui sì che poteva trovare risposte convincenti, pensò Carlo, ostinato e convinto. Lui avrebbe sciolto quel dannato rebus che era in fondo San Pietroburgo. Certo che le avrebbe trovate, le risposte, si disse, ma non c’era più tempo.
Il gruppo premeva per la cena. Anche questa è cultura, pensò Carlo; bisognerebbe saper mettere insieme la cultura d’una cena a base di pietanze russe e i miei fantasmi parlanti. Assieme, forse, troverebbero la via di mezzo tra il Palazzo d’inverno e la catapecchia d’un contadino, la via di mezzo tra la strage dei Romanov e i gulag, tra il realismo socialista, che dietro la giustizia sociale celava la repressione, e l’agile, immediata, anonima e feroce ingiustizia, che pesa sulla libertà del mercato di cui si nutrono Gucci, Armani, Intimissimi e Calzedonia, ai quali di certo molti tra i suoi amici e le sue amiche avrebbero dedicato le rituali ore di shopping, nel giorno della partenza, sulla Nevsky Prospekt, nell’inferno rombante di Lamborghini, Mercedes e Ferrari.
Dopo essersi costretto a non stringere di nuovo tra pollice e indice la radice del naso, Carlo si avviò. S’era appena mosso, che sentì qualcuno parlargli. Non capì di dove venisse la voce, ma le parole gli giunsero chiare: non puoi pensare di cancellare i prepotenti dal tritacarne della storia, ma puoi fare di tutto per non essere dalla loro parte, per giungere a spezzarti, piuttosto che a piegarti…
Per la prima volta in quella terribile serata Carlo sorrise. Quelle parole le conosceva: le aveva scritte Giovanni Bergamasco alle figlie il giorno in cui aveva deciso di tagliarsi le vene. Non era la risposta alle sue mille domande, ma non c’era dubbio: il suo sovversivo non era mancato all’appuntamento.

Uscito su “Fuoriregistro” il 23 agosto 2012

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