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Posts Tagged ‘Giacomo Matteotti’


Dopo aver letteralmente distrutto Napoli, voi, Antonio Bassolino, chiedete un voto per tornare a Palazzo San Giacomo. Giorni fa Matteotti s’è offeso, quando nella sua piazza avete radunato clientele e clienti per raccontare la storia del «perseguitato politico». Così vi siete presentato, reduce, a vostro dire, da 16 assoluzioni. La verità è che voi non siete un amministratore innocente. Vi guardate bene dal raccontarlo, però due condanne subite in via definitiva le avete avute: una ve l’ha appioppata la sezione di Appello della Corte dei Conti per una vicenda che vi riguardava come Commissario per l’emergenza idrogeologica, un’altra comportò una pena pecuniaria di oltre 3 milioni di euro.
E non è tutto. Contando sulla memoria corta e sulla complicità d’una stampa squalificata, voi insistete sulla favola dell’innocenza e come lo smemorato di Collegno non ricordate più il record che avete stabilito: personaggio politico di primo piano, ex ministro, ex Presidente di Regione e per due volte sindaco di Napoli,voi siete risultato nullatenente quando, sottoposto a procedimenti giudiziari, avete corso il rischio di dover metter mano alla tasca.
Potrete fare tutti i comizi che vorrete, voi passerete alla storia come l’uomo che ha trasformato Napoli in un immenso immondezzaio, gravato dai debiti per le assunzioni di potenziali elettori. Qui la politica cede il passo alla morale e l’innocenza si colloca in un quadro di valori che lei ignora.
Girateci attorno finché volete, ma la vostra esperienza politica si riduce a una parola semplice e incontestabile: fallimento. Potrete provare a nasconderlo alla gente – di mascheramenti avete vissuto per decenni  – ma le montagne di spazzatura sotto le quali ci avete sepolti hanno dimostrato che persino nell’arte della menzogna siete un guitto che recita da cane. Ora ci riprovate e tornate a giocare la partita in base a un’arte che non è la vostra: voi avete fallito e fallirete, ma continuate a rappresentare l’insuccesso come successo.
D’altra parte, in sede di bilancio del vostro personale naufragio, persino i vostri più stretti collaboratori sono stati costretti a riconoscere il disastro. Alla vostra memoria corta e al tentativo di ridurre la questione al gioco delle tre carte, un consiglio gioverà: andate in un’emeroteca, chiedete una copia del «Corriere del Mezzogiorno» del 21 settembre 2008, leggete l’intervista di Isaia Sales e al prossimo comizio cominciate dalle sue parole:
«È inutile negarlo, non ce l’abbiamo fatta a migliorare strutturalmente la città di Napoli, non ce l’abbiamo fatta a trasformare la Regione in un’istituzione autorevole e competitiva nei confronti delle migliori esperienze regionali, non ce l’abbiamo fatta a far vincere un modello alternativo alla pratica discrezionale di governo, relegando la clientela ad una eccezione e non ad una prassi corrente e abituale, non ce l’abbiamo fatta a rendere la politica e i partiti strumenti di grandi passioni civili dopo la fine di quelle ideologiche».
E se non vi fidate dei vostri collaboratori, date almeno credito a voi stesso. Siete stato voi, Bassolino, a riconoscere il vostro fallimento, quando, non sapendo più a cosa attaccarvi, avete ripetutamente tirato fuori quello che ritenete un vostro grande successo: la chiusura del ciclo è stata forse negativa, avete sibilato, il decollo non c’è stato, però voi non avete mai ceduto il governo della Campania e della città al centro destra. Una verità che equivale a un suicidio. Non l’avete ceduto, infatti, perché per anni il vero centro destra siete stato voi, i vostri uomini e le vostre politiche.
Voi siete un falso comunista e un autentico liberista. Per voi il PIL e tutto quello che riguarda l’economia sono articoli di fede. Invece di raccontare favole in una piazza sacra per la democrazia, dite alla gente quello che sapete: alla fine del vostro disastroso governo, la Campania aveva messo assieme una serie di numeri negativi: quasi sempre agli ultimi posti nelle classifiche regionali, un PIL in decrescita costante rispetto alle altre regioni, crollato a livelli negativi ben prima del fatale 2008. Avete governato per quindici anni vantando successi inesistenti, mentre un’anemia perniciosa metteva in ginocchio il nostro tessuto produttivo e l’annoso problema della disoccupazione di aggravava. Di scuola e formazione, meglio non parlare. Con voi abbiamo raggiunto tassi di dispersione da terzo mondo. Con voi la delocalizzazione si è fatta devastante e gli investimenti si sono ridotti a speculazione ed elemosina.
I cumuli di immondizia con i quali ci avete disonorati sono stati la chiusura del cerchio e la prova tangibile d’un degrado inenarrabile.
Con questa storia alle spalle, voi vorreste tornare a Palazzo San Giacomo?

Agoravox, 28 giugno 2021

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scansione0038Due parole, prima di riproporre un vecchio articolo scritto per Repubblica.
Ho accompagnato Ada fino all’estremo confine del suo viaggio e mi ha aiutato una certezza: ci rivedremo. Come lei, non ho il conforto della fede e sono solo davanti al dolore, ma una religione ce l’ho anch’io e nel libro sacro degli spiriti indocili c’è scritto chiaro: nel conflitto inestinguibile tra istinto e ragione, l’animo umano trova la sua vera ricchezza e attraversa senza fatica confini e steccati. Non ci sono muri che fermano valori e ideali. Non sarà vero – lo so, non c’è religione che possa dimostrare le sue verità di fede – ma io sono certo che Ada è tornata tra i suoi compagni di lotta e ha trovato ad accoglierla con un sorriso e un abbraccio il suo primo e immortale maestro: Giacomo Matteotti, guarito delle sue ferite, affiancato da Cesare Grossi, il padre rivoluzionario che lei venerava, la madre, Maria Olandese, da cui tanto imparò, e Renato, il fratello, eroico combattente a Teruel.
Non farò l’elenco degli uomini e delle donne che la stanno festeggiando. Sarebbe un’interminabile fila di grandi e piccoli nomi, una mille e una notte di storie incantevoli, tutte da raccontare se le forze lo consentissero. E’ una schiera di spiriti eletti che non conoscono gerarchie, ma sono gelosi custodi di antichi e immortali valori.
Prima o poi, molti dei sedicenti “grandi” si presenteranno alla porta che Ada ha appena attraversato, ma i titoli dei giornali ossequienti, le chiacchiere dei conduttori, gli stolti cinguettii e le numerose presenze nei salotti televisivi, non basteranno a ottenere un lasciapassare e nessuno li accoglierà festante. Ada ha appena attraversato senza sforzi un inesplorato mare tra due terre, un Mediterraneo su cui regna sovrana la legge della solidarietà. Nessuno dei “grandi” riuscirà a superare le sue onde e tutti saranno travolti. Eolo in persona scatenerà l’inferno e se pure, per avventura, trovassero sulla rotta disperata una loro Lampedusa, Gramsci, Amendola e Rosselli, pronti a lasciar passare ogni immigrato, quale che siano la sua origine e il colore della sua pelle, li ricacceranno indietro senza esitare, in nome dell’eterna legge del contrappasso.
Nessuno di quanti oggi mandano navi a fermare migranti varcherà qual confine. Ada non è morta e non morirà. E’ il potere che muore, non chi l’ha combattuto. La morte colpisce solo i suoi servi, i servi del potere, e non c’è religione che non condivida questo dogma umano.

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Ada Grossi. La voce alla radio che denunciava i crimini fascisti

Ada Grossi è napoletana e testimone della guerra di Spagna. C´è un fascicolo personale conservato a suo nome tra carte di polizia, ma il silenzio della storia non è riuscito a chiuderla nella polvere del passato. Ada parla al cuore, prendendoti per mano, e racconta un´infanzia sconvolta da eventi più grandi di lei: Mussolini, la dittatura, l´omicidio Matteotti, le minacce al padre, Carmine Cesare Grossi. «Era socialista, ricorda, amico di Croce e noto avvocato nello studio di De Nicola». A nove anni, nel 1926, il salto nel buio: «scuola, parenti, amici, tutto alle spalle, rammenta con rinnovata emozione, e tutto perso per sempre». Umana, ma estranea, Buenos Aires, l´accoglie col padre, i fratelli, e la madre, Maria Olandese, soprano che ha cantato alla corte dello zar, ma la ragazza diventa donna tra gli stenti e la solidarietà dei fuorusciti, la propaganda antifascista e il calore d´una famiglia diventata un riferimento per i “sovversivi“.
Ada è un personaggio straordinario. Se racconta la sua vita a studenti che in genere non amano la storia, i ragazzi si incantano, rapiti da una loro lontana coetanea che, nel ‘36, quando s´apre lo scontro mortale col nazifascismo, a soli 19 anni, attraversa l´Oceano e accorre con la famiglia in Spagna al fianco dei repubblicani. L´ascoltano ammirati come se ancora leggesse i comunicati di “Radio Libertà”, la famosa emittente di Barcellona creata dal padre per il governo Caballero: Ada è la voce della Spagna aggredita che giunge nelle case degli italiani e scatena l´ira impotente di Mussolini. «Non vinceremo subito, ha ammonito Rosselli, ma vinceremo», e lei ripete la sfida, sorprende il regime e, sotto le bombe sganciate dai Fiat Br20 su città inermi, denuncia la furia omicida degli aggressori e affida alla storia le ragioni della democrazia. Un racconto che ha per gli studenti il fascino dell´epopea e il valore inestimabile d´una testimonianza sulla dimensione etica dell´agire politico, smarrita nell´opulenza malata del consumismo.
Evasa dal “secolo breve“, Ada Grossi vive qui tra noi la sua ultima stagione, in una città senza memoria, in un paese in cui il degrado della vita pubblica apre spazi a una equiparazione tra fascismo e antifascismo che può realizzarsi solo colpendo al cuore l´ethos politico di cui vive la repubblica: libertà, pace, giustizia, i valori che il fascismo negò. Se la incontri, non è più la ragazza “castagna di capelli o quasi bionda, occhi celesti chiari, carnagione colorita e una ben timbrata voce di soprano lirico” che il padre descrive in una lettera bloccata dalla polizia. A novant’anni, è una vecchia signora dagli occhi celesti e profondi che si emoziona se si trova davanti le carte conservate nel suo fascicolo dalla polizia fascista, di cui non conosceva nemmeno l´esistenza. «E´ incredibile, ci sorvegliavano proprio attentamente, passo dopo passo!», esclama meravigliata, mentre si trova tra le mani momenti di vita che il regime le rubò: lettere mai lette e un giornale argentino in lingua italiana che narra “l´odissea di Carmine Cesare Grossi e della sua famiglia finiti nei campi di concentramento”. «Gours, Argelés-sur-Mer – ricorda Ada –. Non è facile descrivere la tragedia dei combattenti internati in Francia dopo la fuga disperata verso i Pirenei. Camminammo a piedi per giorni, braccati dai caccia che ci mitragliavano». Un velo di tristezza, poi la donna sorride per l´involontario elogio di un questore che, nell´aprile del ‘37, scrivendo da Napoli a Mussolini, ammette che «a causa della velenosa propaganda comunista di Barcellona, s´è avuto un certo risveglio di elementi locali noti per i loro precedenti politici e subito arrestati». Per metterla a tacere, si impiantò persino “una stazione disturbatrice presso la Prefettura“.
«Filo da torcere gliene abbiamo dato», sottolinea Ada compiaciuta, mentre “corregge” il questore: «La radio, però, non era comunista. Eravamo socialisti. Mio padre scriveva i testi, io leggevo e la gente ci seguiva. Quando giunsero a Barcellona, gli stalinisti italiani ci estromisero proprio perché eravamo socialisti». Il verbale di un interrogatorio subìto dalla madre in Questura, a Napoli, nel ‘41 la commuove e si abbandona ai ricordi: la famiglia dispersa in veri e propri lager, la fame, la sete, le baracche di lamiera gelide d´inverno e roventi d’estata, il matrimonio con un repubblicano spagnolo celebrato «nel campo di Argelés con un permesso speciale», la guerra, l´armistizio con la Francia e un nuovo calvario: «io tornai in Spagna con mio marito, racconta Ada, e coi falangisti fu dura. Papà fu confinato a Ventotene, mamma e mio fratello Aurelio a Melfi. Renato, l’altro mio fratello, depresso per la sconfitta e gli stenti, finì in manicomio, distrutto dagli elettrochoc».
E´ un mondo che emerge. I fratelli al fronte con le truppe repubblicane, lei che cura con la madre i malati nell´infermeria del campo – «mancavano le medicine, ricorda, e si moriva per nulla» – , la madre, «compagna inseparabile, che condivise gli ideali del marito e affrontò ogni avversità con animo sereno», il padre che «privato dei clienti, malmenati dai fascisti, e sorvegliato a vista, tenne nello studio fino all’ultimo, in bella mostra, un ritratto di Matteotti e sfuggì agli squadristi solo perché un cocchiere lo prese al volo sulla sua carrozzella». Se parla della Spagna, il primo pensiero di Ada è per Garcia Lorca, «barbaramente torturato e ucciso perché omosessuale». E torna in mente Machado:
«Cadde morto Federico
sangue alla fronte e piombo alle viscere
Sappiate che fu a Granada il delitto
Povera Granada!».
La “sua” Spagna però non è solo ferocia. Rivivono, nelle sue parole, lampi della libertà che ha respirato e difeso, l´entusiasmo dei volontari, la fuga da Barcellona mentre i falangisti entrano in città dal Montjuic. «Perdemmo tutto, anche i libri ai quali mio padre teneva moltissimo». Il bilancio è pesante: Aurelio ferito a un occhio, Renato morto in manicomio e case, terre, tutto perso per sempre. Caduto il fascismo e tornati liberi a Napoli, dove non c´è chi non accampi meriti, i Grossi si fanno da parte. «Il regime aveva radiato mio padre dall´albo e lui, ricorda la figlia, per tornare avvocato, dovette ricorrere in tribunale. Mancavamo di tutto, ma non c´era nulla da chiedere: avevamo fatto solo quello che era giusto». E ripete orgogliosa: «Noi eravamo socialisti. Al governo però ci andarono i democristiani, i fascisti rimasero ai loro posti e oggi – conclude amara –ci sono Fini e Berlusconi. Noi, però, abbiamo vissuto secondo i nostri ideali». Ada vive a Napoli con Aurelio in una casa popolare e paga l´affitto grazie a una modesta pensione spagnola. L´Italia non sa che esiste, lei non chiede che sappia e mi perdonerà se lo scrivo: ha fatto più di quel che doveva. Marx non ha torto, non si può giudicare un´epoca in base alla coscienza che essa ha di se stessa e non sbaglia Vilar: il racconto è la forma naturale con cui l´uomo prende coscienza del tempo. Bene. Ada ha raccontato il suo “passato contemporaneo”. La repubblica che ha contribuito a far nascere, e che medita di cambiare se stessa, non sbagli due volte, non la consegni all´archivio senza averla ascoltata. La storia prima o poi presenta il conto.

La Repubblica ediz. Napoli, 4 febbraio 2008 e Fuoriregistro, 5 febbraio 2008.

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