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Posts Tagged ‘Geymonat’

Auguri non ne faccio. Questa Pasqua è segnata a lutto. Il codice Rocco fa strage di dissidenti e c’è chi sconta 14 anni di carcere per aver danneggiato un bancomat. Tanto consente ai giudici della GL-settimanale-gramsci-morto1Repubblica nata dalla Resistenza il codice del fascista Rocco e nessuno pensa di metterlo al bando, mentre un governo senza mandato elettorale e un Parlamento nominato con una legge elettorale illegale stravolgono la Costituzione, pensano di sospendere il diritto di sciopero, difendono forze dell’ordine che a Roma si sono comportate come milizia privata del capitalismo e minacciano chi dissente: “proibiremo le manifestazioni nel centro storico di Roma”.
Auguri non ne faccio, ma voglio ricordare a chi ha memoria corta un uomo come Fernando De Rosa, che oggi sarebbe un “terrorista”. Pochi sanno di chi parlo, ma il 25 aprile, piaccia o no, è anche la sua festa. Come tanti giovani del suo tempo, Fernando De Rosa era stato fascista, ma presto rifiutò lo squadrismo. Da studente incontrò uomini del valore di Garosci, Paietta e Geymonat, frequentò la casa di Gobetti, morto in seguito alle percosse dei fascisti, passò ai gruppi clandestini e tenne i contatti con gli esponenti dell’antifascismo rifugiato all’estero. Presto il regime di Mussolini prese a temerlo e a perseguitarlo. La polizia, infatti, che lo riteneva “giovane ardito, dotato di fascino personale, colto ma privo di scrupoli, orgogliosissimo, pronto ad ogni atto e vero avventuriero”, lo segnalava come uno dei capi del comitato della Concentrazione antifascista di Torino. Quando il fascismo gli rese la vita impossibile e capì che sarebbe finito in carcere, come accade ogni giorno ormai ai nostri giovani, espatriò in Francia.
A Parigi fece sue le critiche di Nenni e Pertini alla Concentrazione antifascista, che aveva rinunciato ad agire in Italia e alle parole fece seguire i fatti: rimpatriò, girò clandestinamente il Paese e provò a capire quale fosse la reale situazione politica. Incontrò in varie città studenti, operai e intellettuali e si convinse che ormai, contro la rassegnazione, occorreva un gesto clamoroso che riportasse al centro della pubblica opinione nazionale ed estera il problema della dittatura. Fu Rosselli ad accompagnarlo al treno che lo condusse a Bruxelles, dove il 24 ottobre 1929, in nome di Matteotti e dell’Italia libera, sparò al principe ereditario Umberto di Savoia, giunto in Belgio in visita ufficiale. L’attentato fallì, incontrò critiche e perplessità dei gruppi antifascisti e fu condannato dai comunisti e da alcuni socialisti, soprattutto perché temevano le reazioni del regime.
Al processo si giunse nel settembre de 1930, ma sul banco degli imputati, di fatto, salì il regime fascista. De Rosa fu difeso dal Paul Henri Spaak, noto esponente della socialdemocrazia, e in suo favore testimoniarono e personalità tra le più note del campo antifascista come Marion Rosselli, Filippo Turati, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti. De Rosa non esitò a rivendicare con fierezza il suo gesto, affermando di aver “voluto uccidere il principe ereditario di una casa regnante che aveva ucciso la libertà di una grande nazione”. I giudici del Tribunale belga – è qui la prima grande lezione che ci viene dal passato – diedero al mondo un esempio di grande civiltà giuridica riconoscendo al De Rosa ogni possibile attenuante. La legge non consentiva di considerarlo parte lesa, ma la condanna a cinque anni, di cui solo tre scontati, è ancora oggi un esempio ignorato da quei giudici che qui da noi non provano ribrezzo nel ricorrere ai reati previsti dal codice Rocco per infliggere decine di anni di carcere a un giovane che rompe un bancomat. I nostri giudici oggi avrebbero giudicato De Rosa con leggi terroristiche, pretendendo prove di pentimento e delazioni e l’avrebbero sepolto vivo in un “carcere di massima sicurezza”. Nel Belgio antifascista il giovane uscì invece dalla prigione nel 1932 e imboccò deciso la sua strada.
Quando i socialisti rifiutarono la sua proposta di istruire militarmente i giovani per contrastare il fascismo, se ne andò nelle Asturie, dove appoggiò gli scioperi del 1934 e fu perciò arrestato. I giudici spagnoli lo condannarono a diciannove anni di galera, ma ben presto, con la vittoria del Fronte Popolare, tornò libero e fu accolto dall’entusiasmo dei lavoratori ai quali mostrato coi fatti cosa significhi amore di libertà e lotta per i diritti delle classi lavoratrici. Nella Spagna rivoluzionaria organizzò militarmente i giovani socialisti e ottenne che si unissero ai comunisti in quella “Gioventù socialista unificata” da chi nacque il battaglione “Octobre n. 11”. Alla sua testa De Rosa lottò a Madrid contro i falangisti in difesa della Repubblica aggredita dai franchisti e dai nazifascisti e morì combattendo valorosamente. Cadde nella Sierra Guadarrama e fu salutato dai rivoluzionari e dagli antifascisti madrileni in una manifestazione di popolo che diede al suo sacrificio il valore di un esempio politico e di un prezioso testamento morale. Il seme era gettato, come tanti altri in quegli anni dolorosi, e le piante germogliarono rapidamente, sicché dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, tanti giovani presero le armi e combatterono fino alla sollevazione generale del 25 aprile 1945 che schiacciò il fascismo.
In questa Pasqua che cade a ridosso di un anniversario della Liberazione mai così buio, mentre le istituzioni repubblicane sono aggredite, la Costituzione è stravolta e i lavoratori privati dei loro diritti, non ci sono auguri da scambiarsi. Per quanto mi riguarda, ricordo ai giovani un loro coetaneo di un tempo che non è lontano come pare e credo sia giunta l’ora di riflettere sugli esempi che ci vengono dal passato, per cominciare a pensare al futuro. La Spagna ieri, come l’Ucraina consegnata oggi ai neonazisti, la Grecia ridotta in servitù, i blindati e le cariche violentissime di Roma riportano in vita uomini come Fernando De Rosa e indicano la via già imboccata da Nenni, Pertini, Longo, Parri e Rosselli: quella di uomini che non si piegarono. Per male che possa fare, serenamente va detto: non è più tempo di parole e non sono giorni in cui scambiarsi auguri. Si può solo ripetere con Rosselli, quello che non è un augurio, ma una certezza senza retorica che ha radici profonde nella storia: “non vinceremo in un giorno, ma vinceremo”.

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