Undici anni fa, il 25 aprile del 2003, Pintor consegnò al «Manifesto» il suo inconsapevole addio: «La sinistra italiana rappresentativa», annotò, è ormai «fuori scena». Parole su cui conviene tornare, perché il qualunquismo di perché il qualunquismo di Renzi non trovi nuove bandiere, dopo quella di Bobbio. Sebbene amaro – «sono stanco di questo deserto disseminato di rovine», scrisse in quei giorni ad Arfè – Pintor era lucidissimo. La sinistra, diceva, è ormai subalterna «non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno».
Quell’aggettivo – «rappresentativa» – non era lì per caso e parlava chiaro al lettore: la gente di sinistra c’è. Esistono lotte, modi di «essere classe» e di averne coscienza a seconda del livello dello sfruttamento, dei bisogni, dei diritti difesi e di quelli che si prova a conquistare. Tutto questo c’è. Manca chi lo rappresenti, chi strutturi in legami duraturi la solidarietà nata sul campo, saldi i gruppi che lottano, inserendoli in un comune sentire culturale e ideologico. Mancano organismi che tentino di costruire analisi del capitale moderno e delle classi, che non rinneghino il conflitto e tengano in unità dialettica l’esistente e ciò che lo supera, nascendo nelle lotte e ricavandone la lezione.
Di fronte ai mutamenti e alle brusche accelerazioni della storia, hanno prevalso i limiti dei partiti e la fragilità, che nei movimenti supera la vitalità, sicché, pur avendo nel Dna una storia di conflitti, la sinistra organizzata ha smarrito l’idea del conflitto. E non si tratta solo di muri crollati e tradimenti di «chierici» Se per «rappresentativa» s’intende la sinistra che vive solo di lotte elettorali, allora sì, allora la subalternità alla destra è nei fatti e c’è una sinistra morta davvero. Al contrario, quella che Pintor definì «area senza confini», che «non deve vincere domani ma operare ogni giorno» per «reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste», quell’area non è all’anno zero. Nei lavoratori, nei precari e nei disoccupati, vive il senso dello sfruttamento, è forte il bisogno di giustizia sociale, l’ansia del riscatto e il coraggio di lottare per migliorare le atroci condizioni materiali di esistenza. La sconfitta di un modo di essere sinistra non impedirà, quindi, che una esperienza di conflitto maturi, come esito di una fase storica; l’esperienza della lotta si forma e sale sul palcoscenico della storia senza mediazione istituzionale, senza bisogno di farsi teoria, perché il conflitto ha in sé forme di «riflessione» genuine e spesso «liberatorie». Una organizzazione è necessaria, certo, ma abbiamo imparato che, strutturata in un partito «classico», tende, per sua natura, a «istituzionalizzare» l’esperienza nuova e, come tale, a frenarla. Sappiamo – un lungo processo storico ce l’ha insegnato – che la lotta di classe crea «democrazia», sa darle forme anche avanzate rispetto all’esistente e, nel fuoco del conflitto, definisce diritti. Spesso, però, nel momento stesso in cui li conquistiamo, i diritti, e ce li riconoscono, essi sono «istituzionalizzati» e talora svuotati. E’ una contraddizione che talora ci sfugge, ma dà senso alle parole di Pintor.
Bisognerà tornare a riflettere sul contrasto riforme-rivoluzione, tipico di due anime della sinistra e di due concezioni del partito: quello che «sta nelle istituzioni» e tende a inserire l’esperienza delle lotte in uno stritolante «meccanismo di governo», e quello che non si «istituzionalizza», non intende vivere per sé, ma come servizio permanente alla lotta. Questo c’è nella nostra storia, non è stato sufficiente a evitare sconfitte, ma esiste. Quando ha elaborato modelli alternativi a quelli offerti dal potere – non solo i «soviet», ma anche i «consigli» di gramsciana memoria – la sinistra è stata viva e forte. Col crollo del muro, s’è arresa e non ha più provato a dare risposta a una domanda cruciale: non cosa cambiare o come farlo, ma come rifare ciò che non va dopo aver «rivoluzionato» il sistema, per evitare di tornare indietro. In questo senso, l’esito della lotta per la scuola, l’università e la formazione, che nel ’68 non voleva essere solo scuola pubblica per tutti, come si fa credere, è molto significativo. Centrali erano allora contenuti e modi di un sapere autoritario. Scuola di massa e liberalizzazione dei piani di studi erano solo tappe, ma il formulario teorico messo in campo dalle organizzazioni politiche e sindacali, quando si trattò di realizzare in concreto il nuovo modello di democrazia, lo svuotò di contenuti, lo cristallizzò in un «diritto» – il «diritto allo studio» – che pareva bastare a se stesso, mentre si puntava a quel «sapere critico», in grado di modificare davvero il rapporto tra educazione e società. Si sa com’è finita.
E’ paradossale, ma il capitale oggi conosce meglio delle nostre organizzazioni la realtà delle classi subalterne, che disgrega perché si diano prigioniere delle istituzioni dello Stato borghese. La sinistra non è più rappresentativa perché mira ad acquisire «cultura di governo» e disegna i suoi organismi sulla falsariga dello Stato, contrastando le spinte all’autogoverno che emergono sempre più chiare dalla società. La Valsusa insegna. Questo è il confine smarrito. Sia pure come linea di tendenza, infatti, quale che sia la teoria, Bakunin, Marx o Lenin, l’obiettivo della «rivoluzione sociale» è lo Stato. Ben venga allora Tsipras, a patto, però, che smascheri Renzi e non lasci margini ai dubbi: non è colpa nostra se l’euro e l’Europa, così com’è strutturata, sono armi in mano al capitale e non ci basta «muoverci» per distinguerci dalla destra. Per noi il confine c’è ed è invalicabile: quello tra sfruttatori e sfruttati.
Noi lottiamo per un mondo senza padroni.
Uscito su Liberazione.it il 6 marzo del 2014