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Posts Tagged ‘Bresci’

A Genova, nel luglio 2001, Francesco Puglisi non uccise e non torturò. La Cassazione, però, che per Bolzaneto e la Diaz ha evitato la galera ai poliziotti, gli ha dato 14 anni e chi s’è visto s’è visto. Un avviso chiaro: se ti prudono le mani, fa la trafila legale e passa all’incasso. Una «guerra per la pace», un’idea di democrazia da esportazione, tutta ammazzamenti umanitari e bombe intelligenti, che se centrano ospedali e scuole è un caso di fuoco amico o nemico sbagliato, poi la carriera in polizia. Ai modi bruschi lì si bada poco.
Genova, per dirla con Labriola, evoca gli «spettri del ’98» e chi sa di storia ricorda processi politici messi su ad arte contro gli operai e Giovanni Bovio che dava voce alle loro ragioni e ammoniva le classi dirigenti: «Noi chiediamo di rimuovere gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e voi ci rispondete con aspre sentenze e i figli armati contro i padri. Per carità di voi stessi, giudici, per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non fateci dubitare della giustizia. Noi fummo nati al lavoro, non fate noi delinquenti e voi giudici!». I tribunali li «fecero delinquenti» e Umberto I, che aveva premiato le fucilate sul popolo inerme, pagò con la vita. La violenza del potere genera violenza e il tribunale nazista che volle morti i cospiratori della «Rosa Bianca», quello repubblicano che da noi assolse i responsabili morali del delitto Rosselli, benché legalmente costituiti, non hanno legittimità storica. Tra Bruto e Cesare la storia non cerca colpevoli ma registra un dato: il tiranno arma la mano dell’uomo libero.
Sul terreno della giustizia siamo fermi a Crispi che, accusato di violare la legge proclamando lo stato d’assedio, antepose la sicurezza alla legalità: «una legge eterna impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto». Un principio eversivo, che fa dell’eccezione la regola, ignora la giustizia sociale, unica garante della sicurezza dello Stato e di fatto ispira ancora i nostri legislatori in materia di ordine pubblico e conflitto sociale. Nel 1862, all’alba dell’Italia unita, la legge Pica sul cosiddetto «brigantaggio», mezzo «eccezionale e temporaneo di difesa», prorogato però fino al 31 dicembre 1865, apre l’eterna stagione delle leggi speciali. Di lì a poco, in una riflessione affidata a un volantino sfuggito al sequestro, Luigi Felicò, un internazionalista che conosce la galera borbonica, non ha dubbi: con l’unità, la sorte del dissidente politico è peggiorata.
Cultura della crisi, normativa emergenziale, indeterminatezza e strumentale confusione tra reato comune e reato politico, sono da allora i perni della gestione e della regolamentazione del conflitto sociale. Un’impostazione che non muta nemmeno nel gennaio 1890, col codice Zanardelli. Per il giurista liberale, la sanzione rispetta i diritti dell’uomo. Di qui la libertà condizionale, l’abolizione della pena capitale e la discrezionalità del giudice nella misura dell’effettiva colpevolezza del reo. Zanardelli, però, affida la tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale a un “Testo unico” di Polizia, cui offre forti basi teoriche e strumenti efficaci, ma pericolosi: vilipendio delle istituzioni, incitamento all’odio di classe e apologia di reato, crimini imputati a chi esalta «un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza […], ovvero all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». La definizione volutamente vaga del reato offre agili strumenti repressivi e lo Stato, deciso a non dare risposte positive al malessere delle classi subalterne, può criminalizzare le lotte operaie, grazie a norme che sono contenitori vuoti, pronti ad accogliere le strumentali “narrazioni” di una polizia per cui anche il generico malcontento è pratica sovversiva. Indeterminatezza, crisi e natura emergenziale della regola – un’emergenza spesso creata ad arte e più spesso figlia legittima dello sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, sulla tutela di privilegi a danno dei diritti, mediante apparati normativi che consentono di tarare gli strumenti repressivi sulle necessità dei ceti dirigenti.
Il fascismo al potere sterilizza molte norme introdotte da Zanardelli, finché nel 1930 si dà un «suo» codice firmato da Alfredo Rocco e destinato a sopravvivere al regime. La repubblica, infatti, sacrifica alla continuità dello Stato l’iniziale intento di tornare a Zanardelli e conferma Rocco, molto più autoritario, ma “tecnicamente” più moderno, in attesa di un nuovo codice che non verrà. E’ grazie a quell’attesa delusa, a quella grave scelta, che oggi, in un clima di nuovo autoritarismo, si può tornare al reato di «devastazione e saccheggio» e spezzare così la vita di un giovane, senza che in Parlamento una voce denunci la natura classista dell’operazione e i «caratteri permanenti» che segnano trasversalmente le età della nostra storia contemporanea: la criminalizzazione del dissenso, l’indeterminatezza di norme volutamente discrezionali e l’impunità assicurata alla «genetica devianza» di alcuni corpi dello Stato. Una voce libera che domandi perché il codice penale italiano che non prevede il reato di tortura, consente al torturatore di perseguire il torturato che si ribella.
Si fa un gran parlare di democrazia, ma si finge d’ignorare il nodo storico che la soffoca, un nodo che non si è sciolto col mutare della vicenda storica e ha impedito cambiamenti radicali persino nel passaggio dalla monarchia alla repubblica: liberale, fascista o repubblicana, in tema di ordine pubblico, l’Italia ha un’identità che non muta col mutare dei tempi. Da un lato, infatti, l’uso intimidatorio e per certi versi terroristico dell’emergenza legittima la ferocia delle misure repressive presso l’opinione pubblica; dall’altro l’indeterminatezza della norma lascia mano libera alle repressione. E’ una sorta di blando “Cile dormiente”, che si desta appena una contingenza negativa fa sì che, per il capitale, mediazione e regole democratiche siano merci costose e prive di mercato. Su questo sfondo si inseriscono le più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ‘98, la furia omicida in piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si spiegano l’indifferenza per la tortura, le impunite morti «di polizia» e i loro tragici connotati: Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Passannante ridotto alla pazzia, Bresci «suicidato» e il suo fascicolo sparito, Anteo Zamboni linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini che consente di tornare alla pena di morte, e via via, Pinelli, Cucchi, Uva, Aldrovandi e i tanti sventurati che nessuno paga.
Non è questione di momenti storici. Se nel 1894, per colpire il PSI, Crispi si «affida» all’esperienza di un prefetto per un processo che non lasci scampo – e il processo truccato si farà – la repubblica cancella la verità col segreto di Stato. In ogni tempo, indeterminatezza e discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. In età liberale a domicilio coatto ti manda la polizia, col fascismo il confino non riguarda i magistrati e il “Daspo” che Maroni e la Cancellieri, avrebbero voluto estendere al dissenso di piazza, è sanzione amministrativa. Quale criterio regoli da noi il rapporto legalità, tribunali e dissenso emerge da dati che non ci parlano di età liberal-fascista, ma repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contano in piazza da tre a sei morti, qui la polizia fa sessantacinque vittime. Nove furono poi i morti nel 1960, in due caddero ad Avola nel 1968 e si potrebbe proseguire. Nel 1968, quando una legge poté deciderlo, l’Italia scoprì che la repubblica aveva avuto quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie dure come quelle fasciste. Di lì a poco, all’ennesima emergenza – stavolta è il terrorismo – si replicò col fermo di polizia, la discrezionalità della forza pubblica nell’uso delle armi e leggi sulla detenzione, nate per essere eccezionali, ma ancora vigenti, quasi a dimostrare che di eccezionale da noi c’è stata solo la stagione democratica nata con la Resistenza.
Così stando le cose, mentre una protesta di piazza costa a un giovane dodici anni di galera e un poliziotto che uccide per strada un ragazzo inerme se la cava con nulla, una domanda è d’obbligo: perché si fanno carte false per archiviare la Costituzione antifascista e nessuno si preoccupa di cancellare il codice fascista?

Uscito su “Report on Line” il 19 giugno 2013 e su “Liberazione.it” il 30 giugno 2013

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Probabilmente nessuno meglio di Crispi ha mai spiegato il rapporto organico tra dissenso e legalità nell’Italia dell’emergenza. Accusato di aver calpestato la legge, proclamando lo stato d’assedio in Sicilia, l’ex mazziniano, passato dall’opposizione democratica ai monarchici e diventato più realista del re, nel marzo del 1894 non esitò a replicare: “Ai miei avversari, che mi hanno accusato di aver violato lo Statuto e le leggi dello Stato, potrei rispondere che di fronte allo Statuto c’è una legge eterna, quella che impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto”.
Un principio inequivocabile quanto eversivo, che non solo ispirava e ispira da sempre in Italia il legislatore sui temi dell’ordine pubblico e del conflitto sociale, ma dimostra come, a voler leggere la nostra storia dal punto di vista delle classi subalterne, il capitolo giustizia può essere illuminante.
A parte la Toscana, dove il codice locale rimase operante perché non consentiva la pena di morte, alla sua nascita il Regno d’Italia estese all’intero territorio nazionale il codice penale del Regno di Sardegna. Di lì a poco, nel 1862, all’alba della nostra storia, l’approvazione della legge Pica sul cosiddetto “brigantaggio”, descritta come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” ma prorogata più volte e tenuta in vita fino al 31 dicembre 1865, aprì l’eterna stagione delle leggi speciali nella gestione e nella regolamentazione del conflitto sociale: l’alibi della crisi, la normativa emergenziale, l’indeterminatezza e la strumentale confusione tra reato comune, meglio se confuso col malaffare organizzato, e manifestazione di dissenso politico. In archivio, a Napoli, è conservato un documento inedito che, in questo senso, è molto significativo. In una desolata riflessione scritta a matita nella cella d’un carcere, Luigi Felicò, un tipografo internazionalista che aveva sperimentato i rigori della repressione borbonica e parlava perciò con cognizione di causa, non aveva dubbi: la condizione del dissidente politico nell’Italia unita era diventata di gran lunga più dura. 
Con grande ritardo – entrò in vigore il 1° gennaio del 1890 – il codice Zanardelli segnò l’effettiva unificazione legislativa dell’Italia nata dal Risorgimento. Per il giurista liberale, la legge penale non poteva essere in contrasto coi diritti dell’uomo e del cittadino e non si applicava al criminale per nascita inventato da Lombroso. La repressione, quindi, doveva abbinarsi alla correzione e all’educazione. Zanardelli abolì perciò la pena di morte, introdusse la libertà condizionale, adottò il principio rieducativo della sanzione e accrebbe la discrezionalità del giudice, consentendogli di adeguare la pena all’effettiva colpevolezza dell’imputato. Egli, tuttavia, non affrontò direttamente il tema della tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale; la spinosa materia finì così per essere affidata a un “Testo unico” di Polizia, cui il giurista assicurò però la copertura d’una base teorica e strumenti efficaci quanto pericolosi. Egli, infatti, non solo introdusse un nuovo reato – il vilipendio delle istituzioni costituzionali e legislative – ma previde anche l’incitamento all’odio di classe e l’apologia di reato, crimini applicati a «chiunque pubblicamente fa apologia di un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza della legge, ovvero incita all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». La definizione volutamente vaga e indeterminata del reato consentiva a forza pubblica e magistrati di colpire agevolmente i movimenti sociali e la dissidenza politica ogni qualvolta lo sfruttamento capitalistico produceva dissenso e proteste.
Uno Stato deciso a non dare risposte positive al crescente malessere delle classi subalterne, poteva infine colpire agevolmente le nascenti organizzazioni dei lavoratori, criminalizzando il dissenso in virtù di norme vaghe, contenitori vuoti, pronti ad accogliere le “narrazioni” strumentali di forze dell’ordine che non distinguevano tra generico malcontento e pratica sovversiva. Indeterminatezza, crisi e natura emergenziale della regola – un’emergenza non di rado costruita ad arte e più spesso figlia legittima della reazione allo sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, opposta alla giustizia sociale grazie ad apparati normativi che consentivano di adattare gli strumenti repressivi alle necessità delle classi dominanti.
Giunto al potere, il fascismo inizialmente si limitò a rendere inattive molte delle norme introdotte da Zanardelli, ma nel 1930 varò il nuovo codice firmato da Alfredo Rocco e destinato a sopravvivere al regime. Con la nascita della repubblica, infatti, si pensò inizialmente di tornare a Zanardelli, poi, in nome di una perniciosa continuità dello Stato, si volle confermare quello fascista, certamente più autoritario, ma “tecnicamente” più moderno. Eliminate le sue disposizioni più liberticide, si andò avanti così, in attesa di un nuovo codice che non s’è mai scritto. Se oggi Cancellieri, guarda caso, “tecnico” come Rocco, può tornare al reato di “devastazione e saccheggio”, si capisce il perché: la repubblica antifascista ha confermato l’apparato normativo fascista. Il problema di fondo, tuttavia, non è solo nel codice. Ci sono, infatti, “caratteri permanenti”, che attraversano trasversalmente le età della nostra storia e riguardano la natura classista dello Stato nato dal cosiddetto Risorgimento, le logiche di potere che tutelano l’ordine costituito e il salvacondotto che storicamente consente e assolve a priori condotte che non sono “deviate”, come si vorrebbe far credere, ma generate dalla indeterminatezza di norme consapevolmente discrezionali e consapevolmente madri di gravi abusi. Un meccanismo che procede su due linee parallele e complementari, un filo rosso che non si spezza nemmeno quando mutano le fasi della vicenda storica, e impedisce cambiamenti radicali anche quando di passa dalla monarchia alla repubblica e dalla dittatura alla democrazia. Un filo rosso che non ha soluzione di continuità: liberale, fascista o repubblicana, sul terreno dell’ordine pubblico l’Italia ha una identità che non muta col mutare dei tempi. Da un lato, infatti, l’uso indiscriminato, intimidatorio e per certi versi terroristico dell’emergenza legittima la ferocia delle misure repressive presso l’opinione pubblica; dall’altro l’indeterminatezza della norma lascia mano libera a forze dell’ordine e magistratura. E’ una sorta di “stato di polizia invisibile”, di “Cile dormiente”, che il potere ridesta appena una contingenza economica negativa fa sì che per il capitale la mediazione e le regole della democrazia siano merci costose che non trova mercato. Su questo sfondo vanno inserite sia l’esplosione programmata di più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ‘98, la furia omicida nelle piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si inseriscono l’indifferenza complice verso la tortura, la morte per “polizia” e ogni più efferata violenza: l’innocente muratore Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Bresci sparito, Anteo Zamboni, linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini che consente il ripristino della pena di morte, e via via, fino ai nostri giorni, Cucchi, Aldovandi, Uva e i tanti morti di polizia.
Non si tratta di età della storia. Se a Napoli Crispi nel 1894, per sciogliere il partito socialista, fa affidamento sull’esperienza del prefetto per imbastire un processo che non lasci scampo – e il processo truccato va in porto –  la repubblica fa di peggio: cancella la verità col segreto di Stato. Sempre e in ogni tempo la vaghezza e la discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. A soggiorno obbligato in età liberale ti spedisce la polizia, il confino negli anni del fascismo è un provvedimento di polizia e alla discrezione delle forze dell’ordine sono affidati in piena repubblica il fermo, la decisione di sparare in piazza; il “Daspo” che la Cancellieri e Maroni, due ministri dell’Interno, vorrebbero estendere oggi ai manifestanti, è un provvedimento amministrativo. Quale sia il criterio vero che regola qui da noi il rapporto tra legalità, tribunali e dissenso è scritto in numeri che non riguardano solo l’età liberale o fascista, ma anche e soprattutto quella repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contarono da tre a sei manifestanti uccisi, nelle piazze italiane la polizia fece sessantacinque vittime. E non si chiuse lì: nove furono poi i morti nel 1960, due caddero ad Avola nel 1968 e via, senza soluzione di continuità. Nel 1968, quando una legge poté deciderlo, l’Italia scoprì che con la repubblica si erano avuti quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie che facevano invidia ai persecutori in camicia nera. E non era finita: di lì a poco, l’ennesima emergenza – il cosiddetto terrorismo – consentì la legge Reale, i morti dei quali la polizia di Stato non è stata mai chiamata a render conto e barbare leggi speciali che dovevano essere eccezionali e sono lì a dimostrare che qui da noi di eccezionale c’è stata probabilmente solo la parentesi democratica nata con la Resistenza.
Così stando le cose, non fa meraviglia se un’auto incendiata può costare a un ragazzo fino a otto anni di galera, mentre un poliziotto che uccide per strada un giovane inerme, si fa pochi mesi di prigione, esce, rimane in divisa e trova persino la vergognosa solidarietà dei colleghi. Pochi mesi sembrano infatti troppi a questi galantuomini che, dal loro punto di vista, hanno addirittura ragione: per una volta s’è rotto un patto scellerato. Lo Stato non ha garantito al suo fedele “servitore” il tradizionale diritto di uccidere a discrezione e impunemente.

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«Ras»di Ferrara fu Italo Balbo, un vero modello dell’«uomo nuovo fascista». S’era fatto d’un fiato il cursus honorum del gerarca sanguinolento: scampoli di gloria feroce tra i volontari della carneficina nella «grande guerra», capo riconosciuto delle «squadracce» al soldo degli agrari quando bastonature e omicidi d’inermi avversari politici mostravano il «senso dello Stato» del primo fascismo, comandante generale della Milizia nel 1923. Implicato nell’assassinio di Don Minzoni, passò poi dalla Milizia al Parlamento e presto giunse al governo.

A Ferrara il 26 sono ritornati gli squadristi. Balbo mancava, è vero, ma s’è trovato un sostituto degno. Rivendicavano il diritto d’ammazzare impunemente e non a caso il colpo vibrato in piazza era assassino: mirato al cuore d’un madre – l’immensa Patrizia Aldovrandi – per fermarne il palpito di dignità, la passione e l’indomito coraggio. Chi ha voluto vederla, l’ha vista bene l’Italia di questi tempi bui: un Paese nel quale l’umanità spesso è donna, ma molto più spesso si perde in una divisa che mostra i distintivi della guerra. La guerra, sì, che la Costituzione ripudia ma offre la leva per la polizia della repubblica antifascista: Medio Oriente, Balcani e Afghanistan. Un’Italia in cui la Caporetto dei valori della Resistenza – di questo ormai si tratta, non di altro – non si spiega semplicemente col berlusconismo, ma chiama alla mente – ed è un morire di dolore – Piero Gobetti e la sua terribile sentenza: il fascismo malattia congenita della nostra storia, la natura elitaria del Risorgimento, un potere mai saldo in mano al «popolo sovrano» e sempre molto lontano dai cittadini. Chiama alla mente lontani maestri, appena tornati in armi dai monti partigiani e subito impegnati a scrivere una Carta Costituzionale tesa a colmare lo storico deficit di partecipazione. Quella Costituzione che ormai non conta più..

A Ferrara s’è potuto vedere con plastica evidenza: la crisi economica procede di pari passo con lo smantellamento della democrazia. Si sono visti chiari i segnali d’asfissia d’una politica priva di respiro ideale e s’è misurato l’abisso che ci attende, se non sapremo restituire al dibattito sullo stato dell’economia, il contributo decisivo di storici e filosofi. In un Paese che dopo la Liberazione non mandò a casa sciarpe littorie, sansepolcristi, scienziati della razza, questori, prefetti e magistrati mussoliniani e chiamò a presiedere la Corte Costituzionale quell’Azzariti già capo del «tribunale della razza», sono vent’anni ormai che, a parlare d’antifascismo, si disturba il manovratore. Vent’anni che si batte la grancassa su una inesistente ferocia partigiana e si trova la sinistra consenziente. Mentre Veltroni e i suoi cancellavano dalle rare sedi del «partito liquido» persino il ricordo dei partigiani – si fa un gran parlare di donne, ma a Napoli il PD ha eliminato dalla sua sede la partigiana Maddalena Cerasuolo – l’accademia s’è adeguata e c’è chi è giunto all’anatema: i partigiani padri della patria, tutti per vie diverse compromessi col gulag, non hanno la statura morale per parlare ai nostri giovani.

In questo clima, dopo le acrobazie dei lacrimogeni sui tetti del Ministero di Grazia e Giustizia, le violenze di Napoli e Genova e gli indiscriminati attestati di stima agli immancabili servitori dello Stato, più che la resurrezione di Balbo a Ferrara, stupisce lo stupore sbigottito di chi solo oggi intuisce l’esito fatale di un vergognoso revisionismo. Perché meravigliarsi della polizia, dopo che s’è voluto ridurre l’antifascismo a una questione privata tra veterocomunisti e neosquadristi, dopo l’armadio della vergogna e l’inascoltato allarme di Mimmo Franzinelli, che ci ha ammonito sul significato profondo d’una amnistia che fu colpo si spugna e sancì la continuità con lo Stato fascista? Rinnegata la propria storia, attestata a difesa di un’Europa che Spinelli ripudierebbe, collocato in soffitta Marx per far le fusa al liberismo targato Monti, era fatale che la polizia tornasse alla tradizione dell’Italia liberalfascista e si facessero nuovamente i conti con Frezzi massacrato di botte, Acciarito torturato e Bresci suicidato.

Qui non si tratta di solidarietà di corpo e nemmeno di forme estreme di «nonnismo» da caserma. Emilio Gentile l’ha spiegato chiaramente: la mistica fascista del cameratismo fu il fulcro di una identità nuova che, nel cuore d’una crisi, fuse in anima collettiva l’individualismo solitario dell’eroe, sicché i «rigenerati della guerra» pretesero di essere «rigeneratori della politica». Quand’è che il Parlamento pretenderà che si accenda la luce sui meccanismi di reclutamento delle forze dell’ordine e sulla loro formazione culturale e politica?

Uscito sul “Manifesto” il 29 marzo 2013

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Dopo il pestaggio di Basiano, i nostri ceti dirigenti sono tornati d’un colpo quelli che il 7 luglio 1880 persino conservatori come Sidney Sonnino misero sotto accusa: “Noi abbiamo […] legalizzata con le nostre istituzioni e con le nostre teorie l’oppressione di una classe sopra un’altra, abbiamo coperto sotto il manto della legge un processo di sfruttamento dei nostri simili”.
E’ di nuovo così. A Basiano s’è vista all’opera una milizia di parte che, gettata la maschera, ha mostrato la sua autentica funzione: garantire l’interesse dei padroni. Venti arresti, gambe spezzate, un lavoratore steso in una pozza del suo sangue e uno in coma per qualche ora; è vero, il morto non c’è stato, ma verrà. A un certo punto ho contato otto “tutori dell’ordine” – questurini o squadristi? mi son chiesto – i quali, senza nome, cognome o numero di matricola, protetti dagli elmi e sicuri dell’impunità, massacravano un manifestante inerme caduto nel suo sangue. Finita la battaglia, non ho visto un cenno di disappunto dei colleghi, non ho sentito prese di distanza. Tutti d’accordo nel silenzio omertoso: le “alte sfere” che paghiamo profumatamente, le questure, i comandanti delle legioni territoriali dei carabinieri, i commissariati, i sindacati di polizia. Non ha parlato nessuno, nessuno ha voluto condannare. Non s’è trovato un giornalista del circuito che conta, capace di andare oltre l’accenno preoccupato alle “tensioni sociali”, non s’è sentita la voce d’un sostituto procuratore che annunciasse un’inchiesta. Zitto se n’è stato il Parlamento, zitta, per suo conto, la politica a tutti i livelli, sicché chi sa ancora leggere, scrivere e far di conto non ha potuto fare a meno di ricordare Gaetano Salvemini e un celebre pamphlet, nato in un tempo in cui un intellettuale aveva cuore per scrivere di un “ministro della malavita”.
Un re ce l’abbiamo – l’hanno incoronato gli americani, ma i nostri zerbini travestiti da pennivendoli si sono inchinati zelanti – al governo dei banchieri non manca certo l’oro per la medaglia e nel Paese di Bava Beccaris, D’Annunzio e Ronchi dei Legionari, un invasato che si senta “uomo del destino” e spari a mitraglia, non è merce rara. Ormai pare evidente: giorno dopo giorno, c’è chi porta indietro le lancette, l’orologio della storia gira a ritroso una ad una le pagine più tristi della nostra storia e il calendario, come impazzito, corre difilato verso un ripetuto ‘98. Chi non usa la lente deformante del liberismo non fa fatica a vederlo: ai magazzini del Gigante, a Basiano, italiani, egiziani e pakistani, che tempo fa si guardavano tra loro in cagnesco, di fronte all’ingiustizia, stretti nella morsa della fame, vanno riscoprendo la solidarietà e la lotta, fanno fronte comune contro il padrone, mettono su scioperi, picchetti e si prendono galera a manganellate, ma scoprono di essere piccini solo perché stanno in ginocchio. Come predicavano i primi socialisti, però, più alzano la testa, più difendono i propri posti di lavoro e dicono a chiare lettere che non accetteranno condizioni di vera e propria schiavitù e più si trovano contro la legge dei padroni.
Non c’è da farsi illusioni: la lotta continuerà e si tenterà di stroncare ogni protesta. Quando si levano in piedi, i lavoratori fanno ancora paura e solo i ciechi fingono di non vedere che il capitale è a un bivio: o continua a decorare Bava Beccaris che si “fa onore” nella repressione – non è per questo che De Gennaro è sottosegretario? – e arma così la mano di un rinato Bresci, o si ferma in tempo ed evita una tragedia che già conosciamo.
Il governo dei professori bene o male sa d’economia, ma in storia dovrebbe andare a ripetizione. Un maestro elementare ben preparato gli spiegherebbe ciò che per un liberare vero è l’alfabeto: “la colpa più grave della borghesia comincerebbe oggi se non vedesse la necessità assoluta di combattere anch’essa per il miglioramento dei lavoratori”. Con queste parole, Giolitti, parlando dallo scranno che oggi occupa Monti, spiegava a chi sognava eversioni dall’alto cosa sia governare. “La libertà, ha i suoi inconvenienti – egli sostenne – talora gravi, ma passeggeri. La libertà è una grande maestra”. E in nome della libertà, ammoniva: “Il Governo non può e non deve, sotto alcuna forma, né diretta né indiretta, modificare artificialmente gli effetti delle leggi economiche che regolano i prezzi dei salari come di tutte le merci: non interviene quando il salario è troppo basso, non deve intervenire quando si chieda una misura di salario più alta”.
Era l’alba del Novecento, si sa, ma è ancora vero: impedire con la forza ai lavoratori di migliorare la loro condizione, quando lottano per una causa giusta, non significherebbe solo fare dello Stato il rappresentante di una sola classe sociale, come voleva Agnelli, quando Giolitti minacciò di chiusura la Confindustria. Vorrebbe dire spingere “le classi popolari a sentirsi nemiche naturali dell’attuale ordine di cose”. Lo diceva Giolitti che fu liberale e riformista: l’estremismo diverrebbe padrone del campo. All’orizzonte, però, non si vedono statisti. Governano Napolitano e Monti e il pericolo è perciò terribilmente concreto: la repubblica rischia davvero un Novantotto.

Uscito sul “Manifesto” il 13 giugno 2012

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Ogni storia è contemporanea. Si può discutere sul significato profondo dell’affermazione, ma non è facile negarlo, Benedetto Croce, moderato, monarchico e liberale, ne ha fatto l’asse portante d’una lucida e moderna filosofia della storia. Alla luce di questo principio, non fa meraviglia se Giolitti, liberale anch’egli e protagonista della nostra vita politica nel primo Novecento, parli oggi alla nostra coscienza come il “contemporaneo” d’ogni tempo: è l’uomo che, di fronte ai ripetuti colpi portati allo Statuto, alle inaccettabili violazioni dei diritti delle masse lavoratrici e al gretto e miope egoismo di classe di gran parte dei ceti dirigenti, ammoniva la borghesia sui rischi concreti d’un violento scontro sociale. A leggerlo oggi, il suo pragmatico invito alla moderazione, quello d’uno statista che si vuole “burocrate“, pare tanto più forte, quanto più chiaramente risulta figlio d’una lucida visione filosofica della dinamica storica: il disagio ignorato e i diritti negati producono esiti fatalmente violenti.
Oggi lo sappiamo: la risposta fu lenta, gli interessi particolari continuarono a prevalere su quelli generali e si venne al muro contro muro. Non farò il marxista. Lo sconsigliano i tempi e la circostanza. Dirò solo che Giovanni Bovio, anch’egli liberale come oggi passa per essere la stragrande maggioranza del Parlamento, aveva già provato a ricordarlo: da troppo tempo ai bisogni concreti delle masse rispondevano la forza e un silenzio ottuso e pericoloso. Fuori dei palazzi del potere, l’idea socialista chiedeva in tutti i modi ascolto, ma nei tribunali, ove un’ipocrita menzogna sosteneva l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, Bovio aveva dato voce ai deboli: “non vi neghiamo i tributi e la difesa, chiediamo però invano che rimuoviate gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e sterile per noi. Non fateci dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi, di noi stessi temiamo e ci volgiamo a chi ci chiama fratelli: noi fummo nati al lavoro e, per carità di dio, non fate noi delinquenti e voi giudici“.
Tutto risultò inutile e, senza che nessuno potesse più evitarlo, Bresci giunse a levare la sua mano armata. Solo allora, solo dopo il disastro, Giolitti trovò ascolto e la corona troncò gli oscuri legami e i turpi maneggi. Muro contro muro, però, Umberto I s’era spinto sulla via dei tiranni e la storia degli uomini non si gioca sulle dichiarazioni ipocrite. Oggi si sa: egli stesso fu il mandante morale del suo tirannicidio. Le alterne vicende della storia si misurano sui tempi lunghi dei cicli di Vico ma, per buona sorte, le buffonate di velinari, pennivendoli e servi sciocchi hanno respiro corto e finiscono presto nell’ombra eterna del nulla. Ciò che rimane vivo è il corso tragico degli eventi. Le lame di Bruto e Cassio sembrarono sul momento semplicemente – e semplicisticamente – delitto, ma lasciarono invece alla riflessione storica il drammatico e ineludibile dilemma della scelta tra l’ethos della vita e quello della libertà. Non si inganna se stessi e lo sappiamo bene: guai a quel popolo malaccorto che non s’avvede d’esser già davanti ai due corni del dilemma. Non ha più salvezza da sperare.

Uscito su “Fuoriregistro” il 15 dicembre 2009

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