La foto mostra un comunista, “sovversivo” e antifascista. Un dirigente del PCdI degli anni di Bordiga, che conobbe la Russia bolscevica e morì, dissidente, ma “rosso”, combattendo durante le “Quattro Giornate”. Tra l’11 e il 12 settembre del 1943, a Napoli i nazisti avevano completato la sanguinosa occupazione della città. I comandanti militari, il re, il governo erano in fuga e la popolazione civile, abbandonata al suo destino, aveva preso le armi. Era iniziata così, dopo l’8 settembre, quella Resistenza che non fu né lotta di scugnizzi, né violenza di teppa rossa, come si potrebbe pensare leggendo libracci di sedicenti storici, registrando i silenzi delle nostre autorità politiche o assistendo alle commemorazioni ufficiali, con i carabinieri onnipresenti, che non possono suonare “Bella Ciao”.
A fine mese ci sarà la patetica e talvolta grottesca “celebrazione” delle Quattro Giornate, tra sciabole e inni patriottici. Il PD, la nuova destra, quella che sta letteralmente cancellando la Costituzione antifascista, sgomita per un posto al sole in vista delle elezioni comunali e si prepara a radunare le scolaresche al teatro San Carlo, per distribuire premi e cominciare la campagna elettorale. A questo servono ormai le ricorrenze.
Naturalmente dei più di duecento antifascisti schedati e perseguitati politici, che furono protagonisti della lotta a Napoli, nessuno sa nulla e nessuno parlerà. Nessuno, soprattutto nelle scuole e nelle università. Silenzio di tomba. Nel silenzio e da sola, del resto, se ne’è andata il mese scorso l’ultima combattente di Spagna, Ada Grossi, napoletana come il fratello ferito sulle nevi di Teruel, che vive solo e ignorato dai sedicenti “antifascisti” di questo tempo buio. Da sola e nel silenzio.
La formazione e la memoria storica sono monopolio dei padroni e dei ceti dominanti. Bisognerebbe fare dello scontro in corso sulla scuola la linea del Piave di quanto resta di una sinistra reduce da un’autentica Caporetto culturale. Bisognerebbe, certo. Ma chi si occupa della scuola? Chi prova a ragionare sul peso politico della sconfitta culturale che abbiamo sotto gli occhi e si decide a reagire? Praticamente nessuno, tranne sparuti manipoli di docenti, abbandonati al proprio destino. Qui da noi si parla di Turchia e di Grecia e si sogna un riscatto che però non si prova a costruire. E’ incredibile ma vero. A sostegno di un manifesto in difesa della nostra scuola, non è giunta la firma di uno studente, di un collettivo o di un centro sociale. Siamo tutti antifascisti, si sente urlare in piazza. Ma è uno slogan. Ormai, si dice, destra e sinistra non esistono più. Ci sono il partito di Renzi, quello di Alfano e la “banda degli onesti”, il movimento di Grillo, un miscuglio di rossi e di neri mimetizzati.
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La memoria è monopolio dei padroni
Posted in Interventi e riflessioni, tagged "Bella Ciao", Bordiga, Napoli, Pd, Quattro Giornate, Teatro San Carlo on 11/09/2015| Leave a Comment »
Sull’antifascismo popolare napoletano
Posted in Dicono di me, tagged Ada Grossi, Adolfo Omodeo, Alberto Asor Rosa, Aldo Romano, Alessandro Hobel, Aurelio Grossi, Benedetto Croce, Bordiga, Carl Schmitt, Carlo Piasacane, Caso Englaro, Cesare Grossi, Danilo Montaldi, Emilio Gentile, Fabio Gentile, Francesco Flora, George W. Bush, Gloria Chianese, Guido Quazza, Luigi Cortesi, Luigi Parente, Marc Bloch, Maria Olandese, Marx, Napoli, Quattro Giornate, Radio Libertà, Renato Grossi, Roberto Bracco, Saddam Hussein, Sergio Luzzatto, Sergio Muzzupappa, sessantotto, Togliatti on 29/08/2013| 1 Comment »
Luigi Parente, in Giornale di Storia Contemporanea, n. 2 dic 2010
“Leggere, spiegare interpretare la storia:
ogni nuova lettura è infatti una nuova costruzione,
una riscoperta del passato ad uso del presente”
Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, 1985
Di certo si ripete un banale truismo quando si dice che è il presente con l’insieme dei suoi problemi politici e sociali a spingere lo storico a interessarsi di un dato tema, così da concludere che in ultima istanza ogni movimento storico risulta contemporaneo. Nessuno meglio di Marc Bloch, tra gli storici del XX secolo, ha insistito sull’indissolubilità del legame passato-presente per fare storia, ed è altrettanto significativo che su questo nodo egli s’interrogasse nei mesi precedenti la sua fucilazione ad opera delle truppe naziste avvenuta alle porte di Lione, nella primavera del 1944. Mi sembra questa la premessa d’obbligo dal momento che è la crisi del modello democratico occidentale che stiamo vivendo, unita alla deriva populistico-autoritaria dei governi di centro-destra del nostro Paese, il focus storico e ideologico del recente, interessante saggio che Giuseppe Aragno ha dedicato all’antifascismo popolare a Napoli (Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie, manifesto libri, Roma, 2009)1. Ed è ancora una volta il pensiero di Bloch – “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente”2, a sollecitare un corretto approccio d’analisi per un tema di così aperta attualità, nonostante i non pochi tentativi contrari messi in campo dal revisionismo storico negli ultimi anni.
Parlare quindi dell’antifascismo della città di Benedetto Croce, il riconosciuto capofila dell’antifascismo “morale”, la cui “religione della libertà” portò – come è noto – più di una generazione di lettori delle sue opere alla scelta della lotta armata contro la dittatura significa fare i conti oltre che con la storiografia contemporanea con il dibattito che considera questo tema ormai obsoleto.
Finora la letteratura dell’antifascismo napoletano – è risaputo – si è polarizzata essenzialmente su due filoni di ricerca. Da una parte ha analizzato il mondo dell’intellighenzia che vedeva muoversi intorno allo stesso Croce personaggi della cultura come Adolfo Omodeo, Roberto Bracco, Francesco Flora e altri, tutti in fondo riconducibili alla lezione dell’idealismo storicista; dall’altra il mondo del lavoro d’area comunista sta, cui si rifacevano nei primi anni Trenta del secolo scorso i “giovani” intellettuali Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Giorgio Amendola. Decisamente altro invece è l’obiettivo di Antifascismo popolare: nessuna concessione alla “storia dall’alto” né tantomeno a quella dei leader dei partiti, dal momento che l’attenzione dell’Autore è rivolta alla soggettività dei militanti e al complesso definirsi e manifestarsi dell’antagonismo dei “sovversivi”, non limitato infine alla sola area comunista. In una parola, sono le “storie di vita” ricostruite dall’onnipotente polizia di Arturo Bocchini a fare la storia dell’antifascismo, da cui muove Aragno nel ripercorrere il difficile e sofferto “viaggio” delle idee e delle e delle azioni di uomini e donne contro il totalitarismo in un saggio originale che si colloca perciò ai massimi livelli della storiografia contemporanea. A questo punto, se un riferimento si deve fare, il richiamo obbligato non può che essere al lavoro di Danilo Montaldi e che cosa ha significato l’ “osservazione partecipe” che lo studioso cremonese ha messo in piedi nella ricostruzione del movimento socialista italiano tra Ottocento e Novecento nelle sue molteplici espressioni e derivazioni, a cominciare ovviamente dal riconoscimento dell’importanza avuta dal rimosso anarchismo3. Tornerò dopo sull’aspetto specificamente metodologico-storiografico e sugli interrogativi che il saggio di Aragno sollecita, mentre ora mi sembra opportuno fare alcune considerazioni di ordine politico generale per contestualizzare il tema affrontato.
Il punto di partenza di Antifascismo popolare è in diretta connessione con il ciclo storico e politico degli ultimi venti anni, l’origine cioè della crisi attuale. Il periodo che ha visto implodere in campo internazionale, nel 1991, l’Urss e il “socialismo reale” mentre in Italia la vittoria del liberismo portava al potere, nel 1994, il primo governo Berlusconi, espressione di un reazionarismo populistico sintesi della collaborazione dei partiti dell’estrema destra, tra cui Alleanza Nazionale e la Lega Nord. In contem-poranea si assisteva alla scomparsa del Pci, il più forte partito comunista d’Occidente protagonista di “storiche” conquiste politiche e sindacali dell’ultimo mezzo secolo, a favore di una nuova formazione partitica d’impostazione democratica che tagliava però di netto con la tradizione del movimento operaio e la cultura di sinistra. Una tale pratica politica ovviamente si accompagnava a livello ideologico con un revisionismo storiografico sia di destra che di sinistra che considerava il fascismo e il comunismo due utopie tragiche e speculari del Novecento …
Per quanto concerne propriamente l’antifascismo italiano, il riferimento polemico di Aragno anche se appena richiamato è il fortunato pamphlet di Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo4, eccessivamente esaltato e pour cause dalla sinistra nostrana, dal momento che non si può tralasciare di ricordare che lo storico torinese è rimasto vittima dello stesso schematismo revisionistico che voleva combattere. Se il fascismo è definitivamente morto da anni e non se ne vede ormai ombra alcuna – è questa la tesi di Luzzatto – l’antifascismo quindi, privo di avversari, rappresenta un pugile suonato, prigioniero com’è di un’anacronistica coazione a ripetere. In Italia poi, egli precisa, “non vi è stato antifascismo senza il contributo decisivo del comunismo”; ora “è vero che il comunismo è finito male. Come stupirsi, allora, se la fine dell’uno ha accelerato l’agonia dell’altro?”5. Circa i partigiani sopravvissuti, la conc1usione è ancora più obbligata: “L’ombra del comunismo, con il suo carico enorme di sofferenze e di atrocità, si allunga su questi vecchi […] fino a farli apparire improbabili come campioni di moralità e maestri di democrazia”6. Caduto infine il muro di Berlino, è morto anche il comunismo, ed allora per il nipotino italiano di Nolte anche l’antifascismo muore per inedia mentre la generazione che lo ha vissuto si esaurisce per legge naturale …
Si sarebbe visto di lì a poco che la retorica delle “magnifiche sorti e progressive” della “catastrofe” epocale del 1989-91 preludeva semplicemente ad una fase di selvaggio liberismo, il cui collante ideologico poggiava enfaticamente sulla “fine della storia” e la centralità del mercato quale unico mezzo di sviluppo. Dapprima la guerra civile nell’ex Jugoslavia poi l’assorbimento dei paesi dell’Europa dell’Est da parte di quelli: capitalistici dell’Europa unita, infine la guerra del Golfo segneranno la caduta delle illusioni dell’ultimo decennio del Novecento.
Su una novità di tale portata vale la pena ricordare quanto scrisse un irriducibile critico delle ideologie correnti come Franco Fortini “I grandi movimenti, non possiamo ancora decifrarli. Possono avere esiti imprevedibili, buoni o pessimi. Ma una cosa è certa: qualcosa è crollato, non solo laggiù, ma qui. Non è la libertà‟ di cui scrivono i ridicoli mostri della pubblicistica di servizio. È una liberazione. Non credevo di arrivare a vedere questo inizio. Devo ripensare, imparare, capire”7.
Diversamente però dall’impegno rivendicato dall’intellettuale Fortini per comprendere il presente in movimento, la politica internazionale risponde con le armi di sempre, a cominciare dalla guerra. È anche il momento, detto tra parentesi, della massima diffusione nel nostro paese del pensiero di Carl Schmitt. Dopo l’abbattimento delle torri gemelle di New York e la successiva guerra all’Irak di Saddam Hussein usando falsi documenti circa il possesso di armi di distruzione di massa, la politica imperialistica di George W. Bush localizza nel mondo islamici il centro del terrorismo internazionale, aprendo contro di esso una crociata in difesa dei valori occidentali e questo significa la sostituzione del Welfare con il Warfare e l’annessa politica di potenza. “Il passaggio dallo stato sociale all’economia politica è stato decisivo, ha scritto Mario Tronti dinanzi al manifestarsi delle prime crepe del mercato globale. E si è incontrato con il fallimento della costruzione di socialismo, l‟intero campo anticapitalistico si è sfaldato”.
Nello specifico italiano, intanto, assistevamo alla crisi del sistema dei partiti ad opera di Tangentopoli con il trionfo dell’homo novus, il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi, il cui obiettivo era arrivare attraverso un bonapartismo mediatico all’annullamento degli istituti di democrazia rappresentativa nati dalla Resistenza. Ancora una volta, un abile animale politico tentava, in tempo di alta tecnologia dell’informazione, il recupero del peggiore reazionarismo della storia novecentesca del nostro Paese, facendo tesoro del senso di sfiducia diffuso tra l’opinione pubblica e del rigetto della politica che accompagna periodi del genere8. Di qui il manifestarsi di un progetto populistico-autoritario che vede un attacco sistematico alle regole della democrazia, dal ridimensionamento del parlamento a vantaggio dell’esecutivo e in particolare del “capo” del governo che legifera prevalentemente con decreti-legge, alla lotta costante all’autonomia e ai rappresentanti del potere giudiziario, che ha “osato” incriminarlo in diverse occasioni per provati reati di corruzione e falso nella gestione delle sue aziende televisive, alla sempre maggiore influenza della chiesa cattolica negli affari dello Stato e nelle questioni di bioetica – si ricordi la violenta crociata dei difensori della vita sul tema dell’eutanasia a proposito del “caso Englaro” -, alla caccia allo straniero, al quale una superficiale quanto indiscutibile lettura razzista della crisi economica attribuisce l’origine di ogni malessere.
Dalla parte dell’opposizione di sinistra, l’incapacità politica del governo Prodi, determinata dall’assenza di un progetto politico-culturale alternativo a quello berlusconiano, ha portato quell’area all’inevitabile sconfitta elettorale dell’aprile 2008, trascinando con sé anche la rappresentanza della “sinistra radicale”. In questo stato di cose, che ho sintetizzato per ovvi motivi in maniera cronachistica, si viene alimentando giorno dopo giorno la deriva populistico-autoritaria della democrazia italiana, e ridotti così gli spazi del dibattito tra posizioni non più diverse – tanto dal punto vista politico che ideale -, si afferma il pensiero politico del regime. La definizione di deriva populistico-autoritaria è di uno storico della letteratura, attento da sempre alle contraddizioni della società capitalistica, qual è Alberto Asor Rosa e risale all’estate 2008. inoltre Asor Rosa si rivela tra i pochi intellettuali italiani impegnati a seguire storicamente i segni del “fascismo” e/o del totalitarismo del quarto governo Berlusconi in polemica con la lettura moderata della sinistra e della maggioranza della stampa, che non riconosce alcuna matrice antidemocratica a quella prassi politica.9
Per tornare al nostro argomento, va detto che è l’attuale situazione politica italiana con i suoi numerosi caratteri antidemocratici – talvolta sfocianti in aperto fascismo da parte dell’esecutivo in carica – ad aver spinto alcuni analisti allo studio del fenomeno fascista del XX secolo, mentre nel frattempo le posizioni del revisionismo di destra sono diventate ormai giudizi storici acquisiti. In questo clima di impudica quanto strumentale amnesia dei recenti processi storici, di cui qualsiasi deputato del Partito della libertà o della Lega Nord dà quotidianamente testimonianza, uno studioso del fascismo, Emilio Gentile, ha ricordato quanto sostenuto tra il provocatorio e il surreale da un anonimo nostro contemporaneo “Forse il fascismo non è mai esistito”10. Ma nonostante una tale grottesca situazione – o grazie ad essa? – da alcuni anni stiamo assistendo ad una lenta, qualificata ripresa della storiografia del fascismo napoletano tanto da poter parlare di un Faschismus-Renaissance. alla cui base va collocata la messa in discussione dell’ideologia berlusconiana dell’ “eterno presente”. I primi risultati finora conseguiti fanno ben sperare, ed è certamente questo il modo migliore di rispondere ai revisionismi nostrani che teorizzano la defascistizzazione del fascismo come la definisce appunto lo stesso Gentile, per caratterizzare la dittatura mussoliniana alla stregua di uno Stato autoritario privo del parlamento! In breve si nega in maniera esasperante che vi sia stata un’ideologia fascista, una classe dirigente fascista, una cultura fascista, una dittatura fascista, dato che la perdizione del regime è dovuta principalmente all’intesa con la Germania nazista e di qui il successivo razzismo e antisemitismo.
Di questo filone d’indagine di storia locale non si può trascurare di citare la ricerca realizzata qualche anno fa dalla Cgil e curata da Gloria Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifascismo popolare (1930-1943), del 2006, con saggi di Giuseppe Aragno, Alessandro Hobel, Andrea De Santo11. In quell’occasione sempre Aragno aveva dato un’anticipazione dell’indagine avviata sull’antifascismo popolare napoletano che si sarebbe concretizzata nell’omonima monografia del 2009. Un altro lavoro degno di segnalazione è senza dubbio il Seminario di studio su Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952), tenuto presso l’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli tra il gennaio e l’aprile 2005 e pubblicato l’anno dopo con l’omonimo titolo da “La Città del Sole”, contenente saggi di Luigi Cortesi, Luigi Parente, Sergio Muzzupappa, Alessandro Hobel, Fabio Gentile12. Si tratta di una significativa summa di analisi politico-sociali sullo scontro fascismo-antifascismo nella metropoli del Mezzogiorno che supera cronologicamente il ventennio e si collega alle novità critico-metodologiche apertesi con il Sessantotto in particolare grazie al lavoro pionieristico di Guido Quazza e Luigi Cortesi13. Il merito di questi due studiosi è stato infatti il superamento del “mito della Resistenza” tanto a cuore ai partiti di massa antifascisti insieme alla considerazione della sua centralità nella storia dell’Italia del Novecento, così che stigmatizzando i caratteri della democrazia da essa derivata veniva messo in risalto il ritardo dell’applicazione della Costituzione nel fondare una reale società democratica.
Nell’analizzare inoltre – per quanto concerne il caso Napoli – la transizione dal fascismo alla Repubblica all’indomani del Secondo conflitto mondiale, Cortesi, in un saggio del 1977, esemplare per il rapporto instaurato tra i dati strutturali di quella società e la memoria collettiva dei protagonisti delle lotte di quegli anni, ha parlato della città partenopea come di un “laboratorio politico” della storia italiana del XX secolo. E ciò per essere stata l’ex capitale del Regno delle Due Sicilie una delle sedi della nascita insieme a Torino del Partito comunista fondato per iniziativa di Amadeo Bordiga14. Ed ancora, quello che accadrà a Napoli dopo la rivolta antifascista popolare delle Quattro giornate (28 settembre-1 ottobre 1943) e la presentazione del “partito nuovo” di Togliatti con la “svolta di Salerno” (aprile 1944) sarà niente altro che la prefigurazione dello sviluppo moderato entro cui s’incanalerà la politica comunista nei decenni successivi. Come è noto, il progetto del “partito nuovo” del Pci “verteva sulla collaborazione delle forze della sinistra con la vecchia classe politica prefascista in direzione di una “democrazia progressiva” da realizzare nell’ambito degli istituti di uno Stato liberal-costituzionale. In una parola, è Napoli la capitale della nuova Italia nel 1943-44, visto che è essa e non Brindisi né Salerno il centro politico del “regno del Sud”, ed è qui che il vecchio blocco storico proverà i nuovi compromessi di governo prima di passare a Roma.
A questo punto, bisogna sottolineare che l’antifascismo napoletano che esce dal saggio di Aragno si presenta estremamente variegato e differenziato nei suoi caratteri ed obiettivi anche se ovviamente non molto diffuso nella società locale, ma non fu questo il proprio dell’opposizione nazionale, dato il forte controllo messo in piedi dai sistemi di repressione, come sta chiarendo la recente storiografia dello Stato totalitario mussoliniano? Lo studioso napoletano si muove con padronanza nell’area dell’antifascismo, tra la tradizionale critica delle “anime belle” alla Croce e l’opposizione moderata di una limitata parte del mondo cattolico, subalterna al fascismo delle gerarchie ecclesiastiche che si riconoscevano nell’opera del cardinale Ascalesi, fino all’antagonismo di classe dei militanti e “sovversivi” di sinistra, in primis gli anarchici, la cui individuazione e sistemazione rappresentano senz’altro la parte la parte più originale dell’intero lavoro. Di conseguenza, risulta oltremodo difficile dar conto delle numerose iniziative e forme di lotta che l’Autore ha ricostruito sulla base delle carte del Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale dello Stato, mentre lo spettro d’esame va oltre la limitata fase dello “spontaneismo” del dopo 8 settembre, rimasto tuttora il motivo ispiratore della rivolta dell’autunno 1943 secondo la vulgata storiografica. E ciò, nonostante le immediate conclusioni “aperte” su quelle “giornate” di uno storico, attento analista della dialettica socio-politica come Corrado Barbagallo in Napoli contro il terrore nazista15.
Entrando poi nel merito dell’antifascismo napoletano, si esce dall’impasse dei luoghi comuni o peggio dal minimalismo revisionistico oggi di moda soltanto seguendo – a dire di Aragno – il “lungo viaggio di generazioni diverse dal punto di vista sociale e/o ideologico di quella singolare galassia culturale e politica che fu la Napoli dei primi decenni del Novecento. Ancora una volta, come è accaduto per casi di altre realtà del nostro Paese, il primo problema da affrontare riguarda lo studio della società nelle sue stratificazioni – così l’indagine spazia dalla grande borghesia delle professioni libere alla classe operaia di fabbrica all’artigianato, elemento di forza dell’economia locale, ed ancora dalla piccola-borghesia al sottoproletariato metropolitano hegelianamente liquidato come “plebe” dallo storicismo contemporaneo: in una parola, è realmente l’antifascismo popolare napoletano il protagonista dell’analisi.
Per inquadrare infine la tradizione rivoluzionaria di questa area di irriducibili oppositori del regime ci aiuta la storia della città di Napoli tra Ottocento e Novecento, la sua presenza nelle vicende delle lotte per la democrazia postunitaria non disgiunta da quella del contemporaneo movimento operaio e socialista. Alla base di quest’ultimo, si ritrova l’eredità del movimento anarchico di Bakunin, che nell’ex capitale borbonica fu attivo all’indomani dell’Unità, e la cui critica al parlamentarismo democratico mazziniano portò alla fondazione della prima Sezione italiana dell’Internazionale (1869). Ed inoltre non minore influsso esercitò nella galassia della sinistra – nel secolo successivo – il comunismo internazionalista di Bordiga, dopo la breve fase del sindacalismo rivoluzionario che ebbe in Arturo Labriola ed Enrico Leone le avanguardie di livello nazionale. Ancora una volta l’utilizzo della categoria di “laboratorio politico” si rivela proficuo ai fini di una ricostruzione sine ira et studio del movimento operaio e socialista napoletano che in quell’area mise in piedi un importante centro di teoria pratica.
Ma è proprio il ruolo dell’ anarchia nella conoscenza e diffusione del pensiero di Marx nel nostro Paese poco considerato da Aldo Romano nella sua fondamentale Storia del movimento socialista in Italia (Milano-Roma, 1954-56, voll. 3; ripubblicata nel 1966), è stato ritenuto invece nodale dalla successiva storiografia socialista e ha ricevuto da Aragno l’inoppugnabile conferma della tendenziosità della tesi dello storico napoletano. Nel libro, il caso del giovane Romano divenuto negli anni Trenta del secolo scorso uno storico vicino alle posizioni del fascismo, viene affrontato con la necessaria acribia filologica e non minore sensibilità umana, rivelando così tutta la maturità del ricercatore nel trattare argomenti di tale delicatezza.
Il ventenne studente liceale Aldo Romano, figlio di Nunzio proprietario e direttore dell’Istituto scolastico privato “Vittoria Colonna” della città partenopea, nutrito in un ambiente di idee radical-socialiste, viene condannato per antifascismo insieme all’amico Giovanni Pugliese-Carratelli, il futuro filologo classico della Scuola Normale di Pisa, a due anni di confino a Cava. Dopo però appena 8 mesi di “condotta irreprensibile”, il capo del Governo lo restituisce alla famiglia (12 luglio 1931)16. Pentitosi degli errori giovanili, questi riesce ad iscriversi al Pnf, nonostante il parere negativo della Federazione napoletana, ed inizia così con la protezione di Gioacchino Volpe e del ministro dell’Educazione nazionale De Vecchi la folgorante carriera di storico del Risorgimento, rappresentando il fascismo agli appuntamenti culturali internazionali.
In quegli stessi anni la recrudescenza del controllo quotidiano della polizia nonché il suo sempre più duro comportamento nei confronti dell’antifascismo militante si spiegano, secondo l’Autore, alla luce dell’aumento del costo della vita indotto dalla crisi industriale e produttiva che colpisce sia la città che la regione, interessando l’area chimica e metallurgica, il settore marittimo, quello tessile senza trascurare il mondo dell’artigianato, elemento portante dell’economia locale. Si acuisce di conseguenza il sistema repressivo della dittatura, e pur tra non poche contraddizioni il Questore riesce a mettere in piedi un collaudato apparato di controllo, da cui sarà colpita in particolare la sinistra di classe, mentre l’obiettivo del potere è d’ora in poi uno Stato totalitario efficiente.
Nel secondo dopoguerra, Aldo Romano, ormai noto per gli studi su Carlo Pisacane e per la genesi nazional-democratica del comunismo italiano, aderirà al Pci, e vestiti i panni dello stalinismo imperante contesterà dal punto di vista storiografico l’azione del rivoluzionario Bakunin, fino a definirlo un “deviazionista” e un “opportunista” del movimento socialista17. Violenza settaria e pregiudizi ideologici che riportano ad una stagione politica definitivamente storicizzata, sulla quale la critica storica sviluppatasi sull’interdetto mondo dell’anarchia, si ricordi per tutti il lavoro avviato fin dagli anni Cinquanta da Pier Carlo Masini ha conseguito contributi di indiscusso valore ed importanza.
Se intanto ci soffermiamo al puro dato statistico dell’antifascismo Napoletano vi troviamo oltre 2000 antifascisti schedati dal Casellario Politico, e 396 confinati. A costoro poi occorre aggiungere gli ammoniti, i diffidati, coloro che finirono davanti al Tribunale Speciale, quanti insomma passarono tra le maglie del sistema poliziesco – e sì che ce ne furono! -, ed infine non pochi esponenti femminili, a cominciare da quella Teresa Pavanello, una napoletana nata in emigrazione in Brasile, che conoscerà tutti i luoghi della repressione, prima di finire sepolta nel manicomio provinciale della sua città.
Essenzialmente due risultano le novità di rilievo del libro di Aragno: il riconoscimento della presenza in realtà abbastanza considerevole del movimento anarchico nella metropoli meridionale, finora identificato soltanto con la militanza del dentista Giuseppe Imondi e della sua compagna, l’indimenticabile Maria Berardi; e last but not least, l’antifascismo femminile. Senza tuttavia voler sottovalutare il significato e la portata critica del pensiero libertario all’interno del movimento socialista, di cui l’indagine dà non pochi dati sia storici che archivistici di prima mano, credo che la ricerca dovrà in futuro continuare a insistere sul secondo argomento, dal quale emergono in maniera inequivocabile tanto l’originalità che la diversità del femminismo quale si espresse nella lotta al fascismo.
Tra le tante “storie di vita” tirate fuori dall’oblio e ricostruite in maniera davvero partecipe da Aragno si colloca quella della famiglia Grossi che vale la pena seguire attraverso le vicissitudini dei suoi componenti, all’indomani della fuga dalla Italia alla ricerca di un rifugio sicuro. L‟internazionalismo socialista del XX secolo è incarnato come meglio non si potrebbe dall’avvocato antifascista Carmine Cesare Grossi e dalla moglie, Maria Olandese, noto soprano lirico conosciuto finanche a Pietroburgo, dove ha cantato alla corte dello zar. In breve, siamo in presenza di una esperienza politica che attraversa gli avvenimenti cruciali del secolo, segnando al tempo stesso la irriducibile forza d’animo di tali convinti militanti. L’avvocato Grossi è una figura nota della ricca borghesia napoletana dell’età liberale; i suoi amici sono Enrico De Nicola, Giovanni Porzio, lo stesso Croce, ma dinanzi alla dittatura fascista decide, nel 1926, d’emigrare in Argentina con la moglie, i due figli maschi Aurelio e Renato, e la figlia femmina Ada. A Buenos Aires si farà subito conoscere per l’opposizione decisa al totalitarismo, per gli articoli su “L’Italia del popolo” e il dialogo aperto all’interno del rissoso fronte antifascista. Allo scoppio dello scontro “civiltà-barbarie”, la famiglia Grossi torna in Europa per partecipare alla guerra civile in Spagna, a fianco delle Brigate internazionali. Intanto l’avvocato è nominato dal governo Largo Caballero responsabile del settore della propaganda, Ada è speaker di “Radio Libertà” di Barcellona, e così la sua voce entra nelle case degli italiani, la moglie è crocerossina, i due figli lavorano da telegrafisti al fronte. Durante lo scontro bellico, Cesare ha modo di vedere da vicino il discutibile modo di far politica dei comunisti stalinisti ed aderisce quindi all’anarchismo, e ciò non solo per quanto è accaduto a Camillo Berneri e B. Durruti. Occupata intanto Barcellona dai falangisti, i Grossi cercano scampo in Francia, e dopo diverse peripezie finiscono nel campo di concentramento di Argelès-sur-mer, mentre Ada, sposatasi con un giovane medico anarchico, resta in Spagna a combattere il franchismo. Rientrati separatamente in Italia, sono condotti prigionieri da Mentone al carcere di Poggioreale a Napoli; Maria e Aurelio finiscono nel confino di Melfi, Carmine è spedito a Ventotene dove si ritrova con il compagno Giuseppe Sallustro conosciuto al tempo della guerra spagnola, mentre il potere si accanisce sul malconcio Renato, trasferito nell’Ospedale psichiatrico provinciale della città, verso il quale s’indirizzano i classici metodi di repressione. E infatti pienamente acquisito che il manicomio rimane il luogo ideale del potere borghese per eliminare i “sovversivi” di ogni tendenza, molto prima che Foucault mettesse in luce la capacità distruttrice e disumanizzante della scienza medica.
A tal proposito, la madre scrive al ministro dell’Interno una lettera emblematica per il quadro di violenza che dà della situazione italiana del tempo. Ella ricorda che il figlio “non potrà mai guarire se lo si lasci per più lungo tempo con alienati, inattivo intellettualmente e completamente isolato dal consorzio civile e dall’ambiente familiare, essendo prescritto come unico rimedio in tali casi (e com’è stato riconfermato dalla esperienza medico-psichiatrica e illustrato in congressi, quale l’ultimo tenuto a Bruxelles) che l’infermo […] reintegrato al suo ambiente familiare abituale, riprenda le sue abitudini e i suoi studi e attività”l8.
Alla disumanità indotta dalla shock-terapia di Sakel insieme alla violenza messa in atto dal fascismo a tutti i livelli della società risalta inequivocabilmente che l’obiettivo di una giustizia umana di una parte definita dell’area antifascista è l’utopia che il totalitarismo mussoliniano non potrà mai accettare così che il destino di Renato è ormai maniera irreversibile, Alla caduta del fascismo, Ada si troverà in Spagna dove vivrà per quarant’anni con il marito, Cesare sarà liberato alla fine dell’agosto 1943 e ritroverà a Melfi la moglie e il figlio Aurelio, mentre l’altro figlio Renato sarà l’irrecuperabile prigioniero delle istituzioni totali, In definitiva, il tutto è stato vissuto dalla famiglia Grossi nella completa consapevolezza del proprio impegno e nel rispetto delle singole individualità, come ci tiene a sottolineare Maria, ed altrettanto normale è per la famiglia superstite il rientro nell’anonimato all’indomani della conquista della democrazia nel nostro Paese.
Come ho detto prima, è il mondo dell’opposizione femminile a rappresentare un’interessante quanto originale novità della ricerca di Aragno. Ma cosa vuol dire, in sostanza, antifascismo al femminile? È qualcosa d’altro, anzi di più del rapporto classe-sindacato o classe-partito vissuto dai militanti di base e quel di più richiama all’autonomia della donna come “soggetto politico”, la cui esistenza conduce all’origine di tutti i: movimenti di emancipazione e di liberazione come ha dimostrato la storia del secolo appena trascorso. Sono questi i caratteri che accomunano figure indimenticabili e tanto diverse nelle loro provenienze culturali quanto nelle singole storie di vita come Maria Olandese, Maria Berardi, Adele Bennoli, Clotilde Peani, Emilia Buonacosa, Ada Grossi e tante altre: insomma intellettuali, operaie, semplici donne di casa, “compagne di vita”, tutte però unite dall’odio al regime e dall’insopprimibile desiderio di eguaglianza tra le classi e i sessi.
Il “lungo viaggio” di Giuseppe Aragno attraverso l’antifascismo popolare napoletano si conclude con l’estate 1943, che trova il suo culmine nelle “Quattro giornate”, la “prima grande insurrezione urbana antifascista d‟Italia e d’Europa” (Cortesi), che rappresentano la cartina di tornasole della città che diventerà il “laboratorio politico” del secondo Novecento”.
Su questo nodo cruciale della storia della Resistenza del nostro paese si è aperta una violenta, talvolta scolastica, querelle politica già all’indomani delle “giornate” di settembre, polarizzata sull’interrogativo: fu, quella rivolta, organizzata oppure semplice frutto della spontaneità?
A questo punto, dobbiamo richiamarci allo stato della ricerca sulla Napoli dei “quarantacinque giorni” per un inquadramento d‟insieme della questione che ci sta a cuore. L’estate 1943 fu senza dubbio per i napoletani il più terribile e sofferto tra gli anni della Seconda guerra mondiale, sia per la crisi economico-alimentare, che attanaglia la città, che per i quotidiani bombardamenti, che fanno strage tra i civili. Se nelle campagne meridionali di quei mesi si assiste a scontri ed occupazioni d‟ogni genere, altrettanto dura è in ambito metropolitano la risposta operaia con mobilitazioni e scioperi nelle maggiori fabbriche già a partire dalla primavera; è il caso, tra le altre, della Navalmeccanica, della Miani e Silvestri. Dopo 1’8 settembre, la città è abbandonata a se stessa per l’incapacità dei responsabili delle istituzioni, dal prefetto Soprano al podestà Solimena al questore Lauricella al provveditore agli studi: ragion per cui tutta la classe dirigente fascista sarà accusata pubblicamente, all’indomani della cacciata della Wermacht, di aver favorito le stragi naziste del “settembre nero” dal direttore del “Roma”, il vecchio liberaldemocratico Emilio Scaglione.
Alla base della sommossa dobbiamo intanto mettere il comportamento del colonnello Walter Scholl, che aveva decretato lo stato d’assedio il 12 settembre, ed ancora più inaccettabile quello sul lavoro obbligatorio per i giovani delle classi dal 1910 al 1925.
Se poi si passa ad analizzare il fronte dei partigiani combattenti durante le “giornate”, si deve sottolineare a fianco del numeroso popolo metropolitano (professionisti, impiegati, commercianti, operai, disoccupati, studenti, sottoproletari, casalinghe, ragazzi di strada o “scugnizzi” ecc.) un consistente nucleo di rappresentanti delle forze armate (qualche alto ufficiale, vari ufficiali inferiori, sottufficiali, moltissimi soldati semplici) che fungeranno perlopiù da organizzatori delle azioni, mentre per ovvi motivi politici è da rimarcare la completa assenza dei partiti che soltanto dopo il 25 luglio si erano messi in movimento. Altrettanto vasto e variegato si presenta il settore della sinistra, per quanto riguarda la composizione del fronte di lotta antifascista, e in esso è l’area comunista che merita una particolare attenzione analitica, visto che dall’area staliniano-togliattiana sono venute le letture “patriottiche” più definite della rivolta. Tra i militanti comunisti però risulta egemone la frazione internazionalista, di base potremmo dire di ascendenza bordighiana, irriducibile antagonista della linea “centrista” di Togliatti che avrebbe portato alla formazione del “partito nuovo” dell’anno seguente. È la stessa componente che realizzerà di lì a qualche settimana la “scissione di Montesanto” e la relativa nascita ad opera della frazione bordighiano troskista della seconda Federazione napoletana del Pci. Degna di rilievo risulta non di meno la componente troskista rappresentata dai fratelli Ennio e Libero Villone, ed ancor più consistente di quanto si voglia di solito riconoscere dai “compagni di strada” del Pci si presenta il movimento anarchico, sul cui ruolo proprio il lavoro di Aragno e il recente Dizionario biografico degli anarchici italiani della Biblioteca “Franco Serantini” hanno dato un contributo fondamentale. Come è facilmente immaginabile, se di certo più conosciute e storicizzate risultano l’area liberale formatasi intorno a Croce così come anche la liberalsocialista basti ricordare il nome di Pasquale Schiano, infaticabile organizzatore di iniziative politiche negli anni della crisi del fascismo – tutta da analizzare invece è ancora, tranne qualche leader, quella cattolica, che dinanzi alla violenza nazifascista scelse la via delle armi. Com’è noto, con il Sessantotto prende avvio una riconsiderazione critica della Resistenza così che il nuovo paradigma storiografico (Guido Quazza, Luigi Cortesi) segna – per lo specifico napoletano – il superamento della visione “nazional-popolare” con la quale la sinistra comunista aveva guardato alle Quattro giornate.
Di questa tendenza la migliore narrazione resta senz’altro il fortunato libro di Aldo De Jaco, La città insorge: le quattro giornate di Napoli, uscito nel 1956 e arrivato alla quarta edizione, tutto poggiato com’è sull’esaltazione della rivolta del “popolo” metropolitano in risposta alla violenza intollerabile dei tedeschi19. Particolare risalto è poi riservato alla partecipazione degli “scugnizzi” negli scontri dei quartieri in rivolta divenuti per ciò i protagonisti del patriottismo di una intera comunità, insistendo eccessivamente sull’aspetto prepolitico delle loro azioni! Sarà comunque, questa, la lettura più diffusa e accettata nel clima politico del dopoguerra, che porta difilato alla mitizzazione di quelle “giornate”. Con l’utilizzo dello stereotipo storico-antropologico dell’homo neapolitanus, impasto di anarchia e ribellismo atavici, si trascura di guardare al diffondersi nel Mezzogiorno, nel corso dei duri mesi estivi di una “coscienza pubblica” che rinnega la scelta bellica del fascismo, di cui vede finalmente come in un nitido specchio il volto di classe e la repressione che l’accompagna.
“L’antifascismo del ventennio – ha scritto Guido Quazza – non crea la ribellione: questa quale moto di popolo nasce da un soprassalto della coscienza delle masse, e non dalla lezione dei politici”20. Anche per Napoli questa considerazione è indiscutibilmente fondata. Per la prima volta infatti la città conosce, oltre l’antifascismo operaio e quello morale à la Croce, l’antifascismo popolare, meglio la Resistenza armata, che coinvolge in uno stesso fronte migliaia di cittadini, studenti, soldati, proletari e non, giovani (quelli che per un vezzo folclorico duro a morire si vorrà ad ogni costo chiamare “scugnizzi”, mitizzati dall’immagine fotografica di Robert Capa).
Dal riorientamento degli anni Sessanta e Settanta verrà invece: l’analisi sulla spontaneità collettiva delle masse urbane di quelle ‘‘giornate”, elemento di certo non alternativo – come sostenevano in modo apodittico gli studiosi legati al Pci – all’organizzazione del partito, considerata l‟unica strada vincente della rivoluzione; ed altrettanto adeguato rilievo si sarebbe riservato alle forme di autonomia della classe operaia che avevano condotto agli scioperi della primavera. Con tali premesse si superavano giudizi correnti e luoghi comuni sulle Quattro giornate viste come classica jacquerie urbana, giudizio che univa sullo stesso fronte (strani scherzi dello storicismo assoluto!) personaggi tanto diversi come Benedetto Croce e Palmiro Togliatti2l.
Valgono più che mai al riguardo le riflessioni metodologiche che in quel periodo avanzava Luigi Cortesi: “Lo studio di Napoli e della Campania negli anni della seconda guerra mondiale consente appunto di far giustizia della tentazione di relegare la regione ad un ruolo soltanto passivo o frenante, ad una estraneità alle tensioni e alle scelte degli anni dell’esperienza fascista, della lotta antifascista e della ricostruzione, passività ed estraneità che corrisponderebbero fatalmente alla generale arretratezza delle strutture economiche e dei rapporti sociali. Esistono tutti gli elementi che possono indurre a considerare la lotta politica e civile che allora si svolse in Campania non come un capitolo atipico della storia nazionale, o come serie di effimeri fuochi di paglia rispetto all’incendio della “vera” Resistenza e della “vera” Liberazione, ma come parte organica del fatto storico complessivo, nel quale ciascuna città o regione – Roma e Milano non meno che Napoli, l’Emilia o il Veneto non meno che la Campania – apportò proprie peculiarità e propri livelli di partecipazione”22. Da qui, di conseguenza, l’evento-Quattro giornate era considerato un momento significativo della Resistenza napoletana oltre che elemento di non minore importanza per la nascita della Repubblica democratica italiana, e come tale deve essere studiato, sia cioè dal punto di vista del “politico” sia da quello delle strutture socioeconomiche, sia focalizzandosi sulla vita quotidiana di una metropoli esposta ai rischi di una guerra totale, sia badando ai comportamenti della forza lavoro nelle fabbriche, sia esaminando infine l’immaginario di una comunità che combatté fino alla morte per un “mondo nuovo” …
Ho già detto in altra sede che la Napoli dell’autunno del 1943 non è altro che il capitolo centrale dell’antifascismo popolare meridionale, la cui ribellione rinvia direttamente agli scontri e ai morti di Ponticelli, di Orta d’Atella, ed ancora a quelli di Giugliano, Mugnano, Acerra, Matera, Lanciano e di tante altre località in una soluzione senza fine23. Ed aggiungevo inoltre che le Quattro giornate non potevano essere più lette come “un fatto a sé”, in conformità cioè al tradizionale “paradigma della Resistenza del Nord”, dal momento che esse facevano parte con le proprie specificità e caratteri del “lungo periodo” della storia dell‟antifascismo napoletano, ed i risultati di Antifascismo popolare di Aragno stanno ora a confermarlo.
Habent sua fata libelli dicevano gli antichi dei libri che portavano nuove conoscenze alimentando nei lettori la riflessione e gl’interessi sul proprio tempo. Lo stesso si può ripetere ora per il libro di Aragno così attuale e al tempo stesso così controcorrente. Realizzata con controllato rigore filologico unito alla sensibilità politica dell’Autore per i problemi contemporanei, l’opera sconta però l’imperdonabile mancanza dell’indice dei nomi, strumento insostituibile d’orientamento nella selva dei tantissimi “volti” e “storie” che la stessa ricerca ha il merito di recuperare. Nell’epoca dell‟”eterno presente” come gli storici sono soliti definire il mondo postmoderno in cui viviamo, l’Autore ha voluto; scommettere sulla memoria e lo ha fatto con la guida di uno grandi filosofi del Novecento scomparso qualche anno fa, Paul Ricoeur. Questi per una vita intera si è interrogato sul rapporto memoria-oblio alla base della storia, focalizzando l’analisi sull’evento del nostro tempo il totalitarismo fascista, lasciandoci un libro riconosciuto ormai come un classico, La memoria, la storia, l’oblio24. Con la dialettica passato-presente siamo tornati di nuovo al partigiano Marc Bloch dell’apertura. Dinanzi agli “estremi” del XX secolo (totalitarismi, due guerre mondiali, i genocidi di popoli, Shoah ecc), il filosofo francese non riconosce legittimità al “dovere della memoria” come si è fatto negli ultimi tempi da parte degli Stati europei nello stabilire per legge giornate a ricordo di qualche evento speciale – e così che l’Italia ha scelto il 27 gennaio quale giornata della memoria delle vittime dei Lager nazisti. Anzi per nulla ossessionato dalla memoria – di cui invece la maggior parte degli’ studiosi esalta l’esclusività epistemologica – egli rivendica di per contro il “dovere storico” per analizzare i fatti del recente passato sollecitando – in risposta alla visione revisionistica del “nuovo antisemitismo” nazifascista – un rigoroso lavoro storico all’altezza degli interrogativi del nostro presente …
Da oggi in poi si può dire con soddisfatta sicurezza che il mondo dell’antifascismo popolare napoletano si presenta molto più conosciuto e meglio indagato, tanto nelle idee che nelle azioni dei suoi protagonisti, e quest’acquisizione di conoscenze la si deve in modo particolare all’intenso e partecipe saggio di Aragno. Infine voglio soltanto augurarmi che il “lungo viaggio” di quelle donne e di quegli uomini per l’affermazione di una reale democrazia ci accompagni ancora a lungo.
NOTE
1. Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie. Roma, 2009.
2. Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, con uno scritto di Luciene Febvre, a cura di Gilmo Arnaldi, traduzione italiana, Torino. 1969, p. 54.
3 Convinto assertore del presente come storia, Danilo Montaldi (1929-1975) ha studiato un originale metodo di ricerca, tra il sociologico e lo storico, la società italiana negli anni dello sviluppo capitalistico, polarizzandosi sulla vita quotidiana e le forme di lotta politica delle classi operaie e subalterne. Restano fondamentali i saggi Autobiografie della leggera (Torino, 1961), Militanti politici di base, (Torino, 1971), Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), (Piacenza, 1976). Per un inquadramento della sua opera e del suo pensiero, vedi Luigi Parente (a cura di), Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, Atti del Convegno, Napoli 16 dicembre 1996, Napoli, 1996.
4 Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, 2004. Ibidem, p. 8.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Citato in Luigi Parente, Oltre le banchine di Auschwitz. Coscienza pubblica e storiografia nella Germania d’oggi in Orizzonte Europa, “Bollettino dell’Istituto campano per la storia della Resistenza”, 1990, n- XII, p, 20.
8 Marc Lazar, L’Italia sul filo del rasoio. La democrazia nel paese di Berlusconi, traduzione italiana Milano, 2009.
9 Secondo Alberto Asor Rosa, “Il terzo (sic) governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia. Più del fascismo? Inclino a pensarlo”, “il manifesto”, 4 giugno 2008. Questo giudizio è stato successivamente analizzato all’interno della crisi della cultura italiana contemporanea ne Il grande silenzio, la lunga intervista sugli intellettuali raccolta da Simonetta Fiori (Roma-Bari, 2009).
10 Mi riferisco, in particolare, al volume Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, 2002, il cui punto d’analisi è appunto la boutade negazionista citata.
11 Gloria Chianese (a cura di), Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifascismo popolare (1930·1943), Roma, 2006.
12 Sergio Muzzupappa e Alessandro Hobel (a cura di), Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952). Sette lezioni, Napoli, 2005.
13 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, 1997; Luigi Cortesi, Introduzione a Luigi Cortesi, Giovanna Percopo, Sergio Riccio, Patrizia Solvetti (a cura di), La Campania dal fascismo alla Repubblica. Società politica cultura, Regione Campania, I, 1977, ora in Id., Nascita di una democrazia. Guerra fascismo, Resistenza e oltre, Roma, 2004, pp. 175·243. Una sintesi della storiografia della Resistenza è il saggio Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, 2004.
14 Sulla questione Bordiga, nell’ambito del marxismo del XX secolo, una attenta analisi è venuta da Luigi Cortesi (a cura di), Amadeo Bordiga nella storia del comunismo, Napoli, 1999. Altri dati, circa la lotta politica nella Napoli post-prima guerra mondiale e il ruolo di Bordiga nella fondazione del Pcdi, in Id., Il comunismo tra fascismo e Resistenza, in Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952), cit., p. 34 e ss.
15 L‟introvabile pamphlet di Corrado Barbagallo, Napoli contro il terrore nazista . (8 settembre-1° ottobre 1943), uscito nell’inverno del 1943, è stato di recente ripubblicato a cura di Sergio Muzzupappa, pref. di Luigi Parente, Napoli, 2004. Esponente interessante, oltre che prolifico, della storiografia economico-giuridica del XX secolo, Corrado Barbagallo è noto per essere stato tra i primi divulgatori del marxismo in Italia con Il materialismo storico (Milano, 1916), e per avere fondato e diretto insieme ad Antonio Anzilotti dal 1917 la “Nuova rivista storica”.
16 La questione è analizzata in dettaglio da Giuseppe Aragno, op. cit. p. 69 e ss.
17 I limiti dell’impostazione storiografica di Aldo Romano, che si può definire propriamente democratico-togliattiana, furono individuati, già alla comparsa della sua Storia del movimento socialista in Italia, dallo storico del Risorgimento Walter Maturi, che si rifaceva agli studi recenti di Leo Valiani sul socialismo europeo e di Franco Venturi sul populismo russo (Walter Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Lezioni di storia della storiografia. Pref. di Ernesto Sestan, Torino. 1962. pp. 634-38). Su quelle basi, la tesi del Romano è stata riproposta negli anni Settanta sul piano filologico da Alfonso Scirocco, Democrazia e socialismo a Napoli dopo l’Unità 1860-1878, Napoli, 1973, che ha individuato la teoria rivoluzionaria di Bakunin all’origine della crisi della democrazia mazziniana napoletana, servendosi in particolare dei fondamentali risultati degli storici anarchici Arthur Lehing e Pier Carlo Masini.
18 Giuseppe Aragno, op. cit., pp. 36-7.
19 Aldo De Jaco, La città insorge. Le quattro giornate di Napoli, Roma, 1956. Alla situazione politica e sociale delle città e delle campagne del Mezzogiorno nell’ “anno mirabile” l‟Istituto campano per la storia della Resistenza di Napoli ha dedicato l’importante Convegno del settembre 1995, i cui atti sono stati pubblicati con il titolo Mezzogiorno 1943. La scelta, la: lotta, la speranza, a cura di Gloria Chianese, Napoli, 1996. Per la questione delle stragi naziste di quegli anni vedi, ora, Gabriella Gribaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, Napoli, 2003.
20 Guido Quazza, op. cit., p. 128.
21 Luigi Parente, Due o tre considerazioni sulle Quattro giornate, in Gloria Chianese, op. cit., p. 369. Allo stesso stereotipo è rimasto legato anche Claudio Pavone nell’eccellente volume frutto di una vita, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino, 1991.
22 Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia, cit., p. 176.
23 Luigi Parente, Due o tre considerazioni sulle Quattro giornate, cit., p. 368.
24 Vedi in particolare Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, trad, it., Milan.
Luigi Parente, in Giornale di Storia Contemporanea, n. 2 dic 2010
ll’ustrissimo Sig. Questore
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Probabilmente è vero: la storia è l’apologia dei vincitori. Non a caso Edward Carr, replicando ai sacerdoti della “histoire événementielle” e alla pretesa oggettività del fatto, provocatoriamente scrive che è lo studioso a decidere quali sono gli eventi “storici”, sicché la storiografia spesso si fa specchio deformante, restituendo l’immagine che il potere dà di se stesso. Non meraviglia perciò se nell’immaginario collettivo l’amor patrio è la foglia di fico del nazionalismo, il feroce cozzo tra imperialismi diventa l’eroismo del fante nella “grande guerra” e dietro l’ipocrisia dell’ordine pubblico si cela di norma la violenza assassina della sbirraglia. Se si eccettuano i leader, la storia diventa così cronaca di fatti in cui scompare l’uomo. Tra qualche mese ricorre il centesimo anniversario della Settimana Rossa, l’ultima, grande lotta dei lavoratori per l’unità internazionale di classe contro il militarismo e l’imperialismo, prima che la bufera della guerra aprisse la via alla crisi dell’Italia liberale e all’avventura fascista. Di quei giorni eroici, di quella umanità palpitante, del sangue versato invano, poco o nulla si sa e si è detto e spesso si l’accento è caduto sulla “rozzezza” degli immancabili anarco-insurrezionisti. Dopo la Resistenza, la storiografia marxista dimostrò a Croce e a i crociani che esiste un “ethos” politico delle classi subalterne che nobilita la storia del movimento operaio. Oggi, in un clima di dilagante revisionismo, quell’ethos si perde in una sorta di limbo e alla memoria delle lotte di fabbrica si sostituisce l’erudita curiosità dell’archeologia industriale. Eppure gli archivi custodiscono tesori inesplorati.
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Quando la ritrovai, chiusa in una busta ingiallita, la foto di Pietro Raimondi, sedici anni, operaio alle “Cotoniere Meridionali” a Poggioreale, incupì per un attimo la mia piccola vittoria personale di studioso alle prese con la fatica d’una ricerca puntigliosamente condotta fuori dagli schemi prefissati sui quali ricostruiamo la storia.
La Settimana Rossa a Napoli – narravano la foto e le note di polizia che l’accompagnavano – non fu sommossa di lazzaroni, ma lotta operaia. Era come se il palcoscenico della storia mutasse la scena e i protagonisti. Per incanto, spariva dalla ribalta la città plebea quasi per vocazione, prigioniera dell’eterno malcostume, del ricatto clientelare, e di una ideologia subalterna che fa di tutte le classi un popolo indifferenziato nel quale si perdono nuclei sparuti di proletari smarriti e inevitabilmente sconfitti dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione.
La mostrai all’archivista, come un trofeo:
Ha visto? – esclamai – Altro che furti e rapine, come lei sosteneva. Queste carte sono preziose!
Ero eccitato, come sempre quando la scrigno della storia si lascia violare e dal mio presente appare l’umanità che palpita sull’incerto confine del tempo, dove il futuro è ormai passato e non c’è passato che non sia stato futuro. L’umanità, sempre uguale a se stessa ma ogni volta diversa, che chiede solo di capire, raccontare e farsi raccontare.
Era lì davanti a me, in quei fascicoli scovati col fiuto dei cani, la Settimana Rossa che tra il 9 e il 12 giugno 1914 insanguinò le vie di Napoli e smentì lo stereotipo del “popolo lazzarone”, che tanto sta a cuore ai padroni del vapore, sempre più compromessi col dramma del Sud. Una città in cui, se la storia la scrivono studiosi attenti anzitutto alle variabili dello sviluppo capitalistico, i ceti operai non hanno rilievo nemmeno quando scoprono il sindacato e il partito politico, e se a mettervi mano sono studiosi meccanicamente marxisti, i lavoratori finiscono su bilance da farmacisti, che pesano diversità tra operai e proletari di fabbrica e valutano solo la capacità di esprimere istanze radicali di antitesi al “sistema”. Ne nasce una città in cui accadono fatti ma non ci sono persone.
La foto tirata fuori dalla vecchia busta conduceva agli uomini, che la storia la “fanno”, ma mille volte spariscono dalle nostre paludate ricostruzioni. Magnetica e angosciante, essa riportava alla luce il volto giovanissimo di un operaio disteso in una povera bara scoperchiata, bruno, i capelli neri e folti sull’arco degli occhi socchiusi, come sorpresi nel sonno da un lampo improvviso, un’ecchimosi sul viso e un rivolo di sangue rappreso che scendeva fino al mento dall’angolo della bocca. Dietro la foto, un mondo, un evento tragico e allo stesso tempo epico, Napoli operai nel giugno 1914 con le tabacchine in sciopero, gli anarchici in fermento, le elezioni alle porte e i lavoratori insorti contro l’ennesimo eccidio proletario: ad Ancona stavolta, per mettere a tacere Malatesta e Nenni.
Avevo davanti uno dei lavoratori insorti contro un militarismo cupo, pronto ad esplodere nell’atroce carnaio che gli storici chiameranno Grande Guerra: fiumi di sangue nelle trincee del Carso, ripetuti massacri sull’Isonzo, feroci decimazioni di soldati ribelli o terrorizzati, anarchici e socialisti mandati al macello dove il rischio era più grave. Dietro la foto, la repressione violentissima della protesta, che l’11 giugno del 1914 un lampo al magnesio fissò sul volto del ragazzo ucciso in Vico Croce Sant’Agostino alla Zecca dal fuoco aperto senza preavviso dalla truppa, poco più in là di Vico Spicoli, dove un altro lavoratori sedicenne era stato freddato dai bersaglieri che gli spararono alle spalle. La repressione di uno sciopero legalmente dichiarato – denunciò un manifesto – contro uno “Stato fucilatore e tiranno”. Il giorno prima, carabinieri a cavallo lanciati alla carica, avevano già ucciso un operaio dell’Ilva e artiglieri posti a guardia della ferrovia avevano abbattuto a fucilate un carbonaio.
Emergeva, da quella foto, il momento dello scontro decisivo tra lavoratori e borghesia nazionalista, alla vigilia d’un conflitto – una nuova guerra dei trent’anni – che spianerà la via alla furia fascista e alla ferocia nazista. Uno scontro disperato, con la cavalleria che bivacca in piazza, la squadra navale che punta sul porto, “macchine avanti tutta”, e truppe da sbarco in coperta, pronte a intervenire in una città in cui gli anarchici con le loro bandiere rosse e nere portano in giro i caduti incitando alla rivolta. Una città in cui molte fabbriche scioperano e ovunque la truppa mette mano alle armi, lascia sul terreno quattro morti e centinaia di feriti e riempie gli ospedali e le carceri di lavoratori, mentre nazionalisti e “galantuomini” organizzano la caccia all’uomo. E’ lo scontro di classe, il muro contro muro che la borghesia ha cercato dopo aver liquidato Giolitti e la sua odiata mediazione.
Giugno da allora è tornato tante volte e ormai viviamo un tempo senza storia. Non ricordiamo più, non cerchiamo e troviamo segni della disperata resistenza: non un marmo che rammenti caduti, non un cippo, un necrologio, un’epigrafe che opponga la verità dei vinti a quella dei vincitori. “Caduti per la patria”, mentono in mille piazze gli eterni guerrafondai, sotto i nomi dei lavoratori poi caduti in guerra. Traditi dalla patria dovrebbe replicare un popolo che non ha memoria, identità e radici.
Dietro la foto – la storia parla ancora, benché l’indifferenza ammutolisca i fatti – c’è il dolore d’una madre. Maria Isaia, operaia delle Cotoniere, come lo sventurato ragazzo, che nei giorni atroci dello scontro smarrì le tracce del figlio e lo rivide quando le mostrarono il ritratto che ora è custodito in archivio; Pietro, col torace aperto da un colpo che gli aveva spaccato il cuore, era stato nascosto al cimitero ebraico del Trivio; vedendolo, temeva la questura, la città di Bakunin, Merlino, Malatesta e Bordiga si sarebbe di nuovo sollevata.
Il bagliore dell’incendio s’era spento, la partita era persa. Per Maria Isaia, che non andò mai più a lavorare in fabbrica col suo Pietro, la guerra era già iniziata e del figlio, soldato caduto, rimaneva la foto scattata all’obitorio. La foto che, disperata, chiese invano al questore, con parole sgrammaticate e straziate che la pignola burocrazia ci ha conservato:
“ll’ustrissimo Sig. Questore.
La sottoscritta Maria Isaia madre desolata del disgraziato figlio pietro Raimondi di Francesco; trovato ucciso a S’Agostino alla zecca domanda all’illustre Sig. Questore se ci vuole dare la fotografia come memoria della detta desolata madre unico figlio di buona condotta giovanotto a 16 anni non compiuti. Era operaio al Cottonificio al macello ed ora trova al Camposanto ucciso a sbaglio uscì e non ritornò più. Sperando che la signoria sua si accorderà questa grazia i morto abbitava in via Parma n° 99 al vasto. Napoli 18 giugno 1914.
Maria Isaia“.
Di tutto questo non c’è più memoria e Claudio Pavone, storico insigne, ha potuto tranquillamente scrivere – e non è vero – che Napoli, città di plebe, ha dovuto attendere gli scugnizzi delle Quattro Giornate perché una volta almeno, ragazzi cresciuti troppo presto, andassero a morire dalla parte giusta. Quella parte in cui – fa male dirlo – è raro trovare gli “studiosi dei fatti”, che troppo spesso dimenticano la gente, senza la quale i fatti non hanno vita o interesse. Ma qui conviene fermarsi. Questa è un’altra storia.
Quando la ritrovai, chiusa in una busta ingiallita, la foto di Pietro Raimondi, sedici anni, operaio alle Cotoniere a Poggioreale, incupì per un attimo la mia piccola vittoria personale di studioso alle prese con la fatica d’una ricerca puntigliosamente condotta fuori dagli schemi prefissati sui quali tessiamo la storia. La Settimana Rossa a Napoli – narravano la foto e le note di polizia che la seguivano – fu lotta di lavoratori, non sommossa plebea in una città sanfedista quasi per vocazione.
Uscito su Fuoriregistro l’11 giugno 2005, su Report on Line l’8 luglio 2013 e su Liberazione il 22 luglio 2013.
Scuola: ogni regime ha il suo Matteotti
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Conosco i rischi delle generalizzazioni e non ce l’avrò, quindi, con chi – saggio e prudente – eviterà di pubblicarmi e nel migliore dei casi, per non dare l’impressione di un’aperta censura, mi spiegherà – quante volte l’ho già sentito! – che le posizioni estreme non giovano a nessuno. D’altra parte, che fare? Dire e non dire, annacquare, giungere a tacere per conservare quel tanto di spazio che a volte ti si dà? E dove andrebbe a finire il rispetto che devi a te stesso, che ne faresti d’una vita vissuta sbandierando l’autonomia critica e l’onestà intellettuale? Non è forse così che in fondo si difendono la metaforica poltrona e quel potere sempre disprezzato? Devo dirlo: non ho una in grande stima la cosiddetta “società civile” e – peggio ancora – non amo i suoi frequenti abbagli e i conseguenti e tardivi ripensamenti.
Gaetano Arfè, con ironia tagliente mi raccontava che, appena eletto deputato, si trovò a fare i conti con pletore di sconosciuti “galantuomini” pronti a donargli qualcosa, persino una pompa di benzina. “A futura memoria“, chiosava, prima dell’amara riflessione: “per ogni corrotto ci sono eserciti di insospettabili corruttori“. In quanto a me, che tanto in alto non sono salito, ho ricordi chiari. Il rimprovero d’un capo d’Istituto, anzitutto, adirato per la mia mancanza di diplomazia. Era accaduto che, giovane commissario di Stato, avevo rifiutato la bustarella, minacciando di chiamare i carabinieri, a tutto danno della reputazione d’un collega, il quale – per pura gentilezza, si capisce – non s’era invece sottratto. Anni dopo, un avvocato, presidente d’un Consiglio d’Istituto radical-chic, mi ossessionò con le sue sacre regole, se invocavo un’eccezione in soccorso di alunni sventurati; il giorno in cui la regola penalizzante toccò in sorte a un parente, divenne però d’un tratto possibilista: “che regola sarebbe mai questa, professore, se non contemplasse un’eccezione?“.
L’ho fatta lunga e vengo al dunque: per scuotere moderati e benpensanti da una sorta di “dolorosa complicità” col fascismo, in nome della crociata antibolscevica, furono necessari nello stesso tempo l’indomito coraggio di Matteotti e l’estrema ferocia di Rossi e Dumini. De Nicola era approdato al “listone”, cui lo sottrasse Bordiga, sfidandolo a un pubblico confronto, e Croce scoprì che l’Italia era stata invasa dagli Hyxos solo quando il sangue era già corso a rivoli e la democrazia liberale era stata cancellata dal fascismo. La storia s’è ripetuta, farsa o tragedia conta davvero poco. Le ho fisse in mente, cicatrici d’una ferita mai rimarginata, le bandiere della “società civile” che salutavano Monti e compagni, come fossero partigiani dopo il 25 aprile. Era peggio di Badoglio, ma Marina Boscaino che oggi ci chiama in piazza, si commuoveva per l’effetto delle parole durante il giuramento del nuovo Governo, che, salva la forma, si accingeva a violare la sostanza; ci vedeva non so quale “altra intenzionalità, altra consapevolezza, altra motivazione, dopo lo scempio degli ultimi anni“. A me sembrò che un vento di pazzia corresse il Paese e rimasi atterrito dalle parole di un uomo colto e saggio come Rodotà, per il quale l’insistita “sobrietà” e “serietà” non erano segni esteriori e si contentava d’una inconsistente certezza: “sapere che non vi saranno ministri della Repubblica che, di fronte alla domanda di un giornalista o di un cittadino, leveranno in alto il dito medio o risponderanno con una pernacchia“.
Tutto era già scritto e si sapeva bene del plauso di Monti alla Gelmini, dell’appoggio di buona parte dell’accademia al progetto liberticida portato avanti da anni dai neoliberisti di Bersani e Berlusconi. Non so dove fossero o cosa pensassero quelli che oggi, mentre Aprea e Profumo le danno il colpo di grazia, chiamano in piazza la scuola. In piazza la scuola c’è andata: era il 12 dicembre del 2010 e gli studenti tentarono di occupare il Senato. Quel giorno la compravendita dei voti e una fiducia vergognosa, ci dissero che eravamo alla fine, ma gli studenti rimasero soli e soli poi sono stati i lavoratori.
Come De Nicola e Croce, la “società civile” s’è lasciata incantare dalle chiacchiere di Profumo, che scopriva l’acqua calda: “Io credo che la scuola sia la scuola, ma certamente quella pubblica in Italia è molto importante“. Troppo buono, avrebbe detto Fantozzi, mentre la gente imbandierata vedeva in queste banalità non so che rispetto nuovo per il dettato costituzionale. Perché si aprissero gli occhi, occorreva un nuovo Matteotti. Ora l’abbiamo avuto: è rappresentato simbolicamente da ciò che questo governo ha fatto ai lavoratori, ai pensionati, al sistema formativo, alla ricerca, in una parola ai diritti sanciti dalla Costituzione o conquistati con le lotte operaie. Ora dovremmo averlo chiaro: non è più tempo di abbagli, appelli e proteste formali. Prima che giunga il 1926, col suo carico di leggi speciali, poniamo mano al ciclostile e proviamo a passar parola: “Non mollare!”.
Uscito su “Fuoriregistro” il 31 luglio 2012