Compaiono d’incanto e non c’è verso di farli sparire; più i questurini ne strappano dai muri, più qualcuno di notte ne incolla di nuovi:
«Operai degli opifici regi, figli del popolo, voi vi troverete nelle vie il 1° Maggio! Nelle officine dove mal retribuiti vi logorate il corpo e l’anima non c’è posto, non ci deve essere posto per il 1° Maggio! Soldati, strappati ai campi, all’affetto della madre, del povero padre forse cadente, voi sareste tra i dimostranti il 1° Maggio, se non indossaste la divisa, perché nessuno di voi è felice e nelle povere case è freddo il focolare, soldati, e chi vi ama molti giorni digiuna».
E’ l’uno maggio 1890: festa del lavoro per la prima volta. Quel giorno è più o meno così ovunque il mondo ha fabbriche e operai: manifesti, comizi, cortei e la prova di uno sciopero generale. Gli operai lavorano quattordici ore al giorno, donne e bambini compresi e chiedono di farne otto. Quando però il profitto è in discussione e ci sono di mezzo salari, orari e regole del gioco, gli imprenditori tornano padroni.
Come temesse la rivoluzione, la Questura, s’è schierata in forze e i carabinieri a cavallo sono nascosti nei cortili dei palazzi; i sovversivi, sorti dal nulla come i loro manifesti, passano però furtivi per l’antica Sant’Eligio e, va a capire come, giungono uno dopo l’altro nella piazza presidiata. Sotto gli occhi delle guardie allibite appare un palco improvvisato, un tavolo fra le bandiere rosse, e un oratore grida: lavoratori, unitevi! Scatta la repressione, violenta ma tardiva: la folla arretra, ondeggia, poi reagisce e la cavalleria non passa.
Attorno al palco c’è chi fa quadrato e il comizio continua, ma la piazza è un inferno: fuoco di moschetti, cavalli a briglia sciolta, feriti, arresti e gli operai in manette, trascinati verso il carcere di peso. Accuse pesanti: disobbedienza alle leggi, associazione sovversiva, istigazione all’odio di classe. E’ un progetto preciso: seppellire la protesta operaia sotto secoli di galera.
Finirono in carcere gli operai del primo maggio 1890. Due anni dopo, in tribunale, Giovanni Bovio, che li difendeva, fu lucidissimo:
«non vi neghiamo i tributi e la difesa e neppure il lavoro vi neghiamo, ma solo che rimuoviate gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile o sterile per noi: […] questo vi chiediamo e voi ci rispondete coi fucili nelle mani dei nostri figli e con aspre sentenze di giudici. I chierici ci fecero dubitare di Dio; i signori feudali ci fecero dubitare di noi stessi, se uomini fossimo o animali; la borghesia ci fa dubitare della patria, da che ci fa stranieri sulle terre nostre. Voi, giudici, badate: non fateci dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi: di noi temiamo, non della sentenza».
Un’invocazione e un monito inascoltati, ma più che mai attuali. Vennero altre feste del lavoro. Crispi, sciolto il Partito Socialista, segregò nelle isole migliaia di lavoratori e a maggio del 1898 Bava Beccaris sparò a mitraglia sulla folla disarmata. Corse il sangue, ma per ricondurre l’ordine nel paese non bastarono stati d’assedio, tribunali di guerra e secoli di galera e domicilio coatto. Finì che la pistola di Bresci uccise Umberto I; aveva in mente i morti di Bava Beccaris.
Il 1890 potrebbe essere oggi. Sarebbe stato facile capirlo, ma ancora si finge d’ignorarlo: finché esisteranno ingiustizia, sfruttamento e disperazione, non ci sarà pace sociale.
Da Fuoriregistro, 1 maggio 2003

Rispondi