Ancora un vecchio racconto, molto diverso dal primo, ma la domanda torna – metterlo assieme ad altri per farne un libro? – e ritorna il dubbio: vale la pena?
Un uomo può vivere a lungo in un suo modo particolare, può svegliarsi ogni giorno alla stessa ora, fare le stesse cose per anni e continuare a credere che gli basterebbe volerlo per cambiare tutto, mettersi a fare il contrario e vivere al rovescio. Un uomo può evitare di tentare la sorte e non rischiare mai nulla, nemmeno quando dovrebbe, semplicemente per paura di farlo, eppure continuare a credere che prima o poi l’asso comparirà nella manica, giocherà la sua carta e sarà capace di giocarla bene. Un uomo può non essere mai nato e tuttavia contare cinquant’anni e sperare di poterne contare ancora chissà quanti.
Finché in lui queste illusioni sono la realtà, per un uomo così fatto non esistono squilibri e non sono possibili incrinature: nel grafico dei bilanci della sua esistenza non c’è posto per le sfasature.
Per Fermo Rimani era stato sempre così. La sua era una vita dai grafici perfetti, il sogno di un navigato capitano d’industria: simmetrici, con sbalzi fisiologici e, ciò che più conta, senza nessun segnale d’un possibile crac. L’illusione di Fermo era semplice: marito e padre perfetto. Sì, l’illusione della sua vita era quella e, a dire il vero, il grafico dei suoi giorni si era fatto veramente costante dacché s’era sposato. Prima no, prima qualche squilibrio c’era stato, per via di certi palpiti politici, di certi amori acerbi per la violenza delle squadracce – violenza ed amori prudenti, s’intende, – che si manifestavano solo quando i neri erano in molti e i rossi pochi.
Un saliscendi allarmate nell’andamento tranquillo dei suoi grafici Fermo l’aveva registrato al tempo delle sirene, degli allarmi e degli improvvisi richiami alle armi, quando portammo la civiltà in lande sperdute dell’Africa Orientale, decidemmo di spezzare le reni alla Grecia e domare la protervia bolscevica. Uno squilibrio veramente forte, ma tra lui e il padre s’era trovato il modo di pagare sottobanco e d’evitare quell’impiccio grave: la guerra era una violenza imprudente e non gli andava a genio.
La madre non l’aveva conosciuta e per il padre che moriva – c’era la guerra, morivano tutti – non c’era stato grande affanno. Certo, la guerra era stata terribile per lui, con tutti quei giovani infilati dentro le divise di mezzo mondo, ai quali occorreva spiegare che sì, sembrava forte e sano, ma era solo apparenza: Fermo era malato.
Finita la guerra – e smessa l’ingombrante camicia nera – ogni cosa aveva preso a girare per il verso giusto e s’era anche sposato. Fermo ricordava ancora bene il giorno del matrimonio che l’aveva reso d’un tratto marito; ricordava soprattutto il viso della moglie in quella prima notte. Quanti impicci, che moine sciocche e che fatica far intendere subito a quel corpo bello e desiderabile sotto il peso del suo, che l’amore era quello. E’ vero, sì, talvolta poi gli era parso che ci fosse anche dell’altro, s’era fatto sentire un sentimento strano, ma complicato – forse l’amore che gli diceva la moglie in quella prima notte – ma Fermo se n’era tenuto accuratamente lontano, sicché la moglie s’era dovuta rassegnare: l’amore era solo un’abitudine necessaria.
I figli li aveva voluti, erano suoi e li amava. Di loro amava tutto, per loro lasciava correre cose che avrebbe dovuto impedire, per loro sognava e si faceva in quattro. I figli li amava a tal punto che, quand’erano ancora bambini, a volte era giunto a chiedersi perché si chiamasse Fermo e aveva avuto paura che potessero vergognarsi di quel nome e cognome del padre, di quel Fermo Rimani: per il nome, s’era vergognato, solo per il nome e per null’altro. E solo per quello s’era molto turbato.
La sua illusione era d’essere marito e padre felice. Se n’era convinto via via che il tempo passava senza dare scosse alla sua vita, se n’era convinto guardando i suoi figli crescere mentre invecchiava. Non che tra loro ci fossero gran confidenza e rapporti profondi. Il dialogo non era il suo forte e non glielo chiedeva, però non capiva quel loro volere evadere per forza – quasi una fuga – e non si spiegava da dove volessero evadere. Si limita a osservare che la nuova società s’era creata i suoi miti: qualunquismo, ad esempio. I suoi figli disprezzavano profondamente i qualunquisti. Qualche volta si chiedeva se per caso non fosse un qualunquista, ma subito si tranquillizzava: non c’entrava nulla, lui, coi miti dei suoi figli. Lui era il padre – si diceva – ravviandosi i radi capelli sulla fronte stempiata e socchiudendo gli occhi bovini, raddrizzandosi gli occhiali ormai spessi sul naso lucido e tirandosi su i pantaloni che si assestavano fatalmente sotto la pancia gonfia. Fermo era un qualunquista borghese d’aspetto classico, apparentemente alieno da nevrosi, ma non lo sapeva.
Coi figli in realtà non si capiva, ma era un padre felice perché non s’avvedeva della cosa.
Non s’avvedeva nemmeno, in verità – ma in fondo perché avrebbe dovuto? – che la moglie sembrava ringiovanire più che invecchiare, mentre lui stava invecchiando velocemente; non s’accorgeva nemmeno che il lavoro lo prendeva e lo assorbiva del tutto – non era quello un alienarsi, un subire, un divenire senza volerlo nevrotico? – e che tra lui e la moglie l’amore non lo si faceva più e, a farlo, era amaro e senza fremiti. Lei non si rifiutava, è vero, ma non partecipava. Era distratta, a sempre fredda.
Oltre quell’amore non ce n’era altro tra lui e la moglie, ma a Fermo andava bene cosìe ogni tanto, con una punta di gioia maligna, pensava che anche la moglie era ormai vecchia, che sembrava giovane di fuori molto più di quanto poi lo fosse dentro. Qui si fermavano le sue riflessioni e ogni volta concludeva soddisfatto che poteva dirsi davvero felice.
Può sembrare strano eppure era proprio così. Senza aver capito i figli e senza esser da loro capito, senza amare la moglie e senza esserne amato, per Fermo la realtà era nell’illusione di essere un padre e un marito felice. Capita più spesso di quanto si creda e per questa illusione il grafico della sua esistenza mostrava un mirabile equilibrio.
Un’esistenza come quella di Fermo, insomma, così comune, così tranquilla, era di quelle destinate a seguire la norma e finire in un silenzio assoluto, senza rimpianti e senza fretta, come una candela, magari con un ultimo guizzo, con un gesto e una comica finali.
Come accade spesso, tuttavia, più importante è il suo compito, più danni una trave produce cadendo. Quando aveva avuto la certezza del tradimento della moglie, a Fermo era sembrato d’essere stato colpito da una grave malattia. Gli era capitato l’incidente sbagliato, quello più grave di tutti: a lui poteva andar bene il fallimento economico, la servitù allo straniero, l’infarto al miocardio, tutto poteva andar bene, tranne quello e tutti sapevano tranne lui. Persino i figli sapevano. Da tempo, da molto prima che lui se accorgesse.
Una civiltà crolla con i suoi miti, un uomo con le sue illusioni. Per uno come Fermo non c’è tristezza peggiore che esser costretto a girarsi e guardarsi indietro. Il vuoto è spaventoso ed è il vero dolore dell’uomo sconfitto dalla vita ch’egli stesso si è creato. Fermo ora si sentiva solo. Non aveva di che ricordare, non aveva a che attaccarsi: non un’idea politica, non un’iniziativa da prendere da solo e per se stesso. Nulla. Motivi seri, argomenti capaci di convincere un uomo come lui a sentirsi in pace con se stesso, ad aver voglia di mettersi davanti alla propria coscienza – anche lui ne aveva una, ed ora la sentiva – per ricominciare la farsa del padre e del marito felice, quei motivi seri che ci spingono normalmente a mentire persino a noi stessi, Fermo sentì di non averli. Nulla, nessun gesto eroico, nessun bambino da salvaguardare. No, solo due traditori complici della madre.
In questi casi la gente incivile spara ed uccide, quella “civile” ricorre alla legge. Fermo non poteva fare entrambe le cose e non sapeva sceglierne una. Era davvero solo e certe cose sono insopportabili quando non si è più giovani e non c’è più voglia d’inventarsi una menzogna per la quale vivere. Il grafico di Fermo Rimani segnò così d’un tratto una flessione inarrestabile: l’incrinatura era giunta alla profondità in cui la realtà, privata dell’illusione, trasforma un uomo in un pupazzo a cui la sorte si è divertita a tagliare i fili.
Fermo lo seppe subito. Aveva un solo modo per sopravvivere: impazzire.
grazie per seguire il mio blog 😊
A me, certo né critico né esperto di letteratura, caro professore, pare la metafora della nostra civiltà e del potere: la loro illusione e la loro disfatta. Forse meglio: la disillusione e la disfatta dell’idealismo e della metafisica religiosa che meglio è definire il punto di massima espressione della superstizione.
Mi scuso se ho scritto stupidaggini.
Non ha scritto stupidaggini, caro Padovan. Ha letto e interpretato con acume e finezza. Grazie davvero.