Ieri avevo scritto queste poche parole per Mimmo Lucano:
Caro Mimmo,
quando la legalità cancella la giustizia, le persone oneste, coraggiose e coerenti finiscono fatalmente agli arresti e c’è un solo nome adatto agli imputati che commettono i reati che tu hai commesso: perseguitato politico.
Le ragioni per cui cui sei stato colpito tu, sono le stesse per cui furono arrestati e condannati uomini come Antonio Gramsci. Tu oggi ti aggiungi alla nobile schiera degli antifascisti. Sei anche tu un perseguitato politico e finora purtroppo – per quanto è dato sapere – ti fanno compagnia Lavinia Cassaro, l’insegnante di Torino brutalmente licenziata e Mimmo Mignano, Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore, cinque operai della Fiat di Pomigliano, licenziati anch’essi perché non hanno voluto barattare la dignità con il principio fascista dela fedeltà all’azienda.
Come per loro, anche per te, finora ho sentito tante, troppe parole di solidarietà, ma nessuno ha tradotto in un gesto concreto questa parola bellissima, per la quale tu stai soffrendo e di cui sei un maestro. Ho aspettato invano un tuo collega che non ti stesse vicino a parole, ma riprendesse nella sua città il lavoro che tu sei stato costretto a interrompere a Riace. Nessuno l’ha fatto.
Credo di non sbagliare se immagino che nelle mille difficoltà del momento che vivi, questa solitudine sia la più grande delle tue amarezze. Io non ho nessun modo per seguire il tuo esempio, se non questo: scrivere quello che penso. Mattarella non ha strumenti legali per intervenire? Può darsi, ma questa legalità che ha divorziato dalla giustizia gli imponeva di fare la sola scelta compatibile con il suo mandato: dimettersi. Non lo ricorderemo tra gli antifascisti.
Le avrei pubblicate qui sul mio Blog, da sole, quando mi è giunta, con la richiesta di dare massima diffusione, una lettera inviata da Massimo Napolitano a Paola Esposito e Antonio Di Maio, genitori del ministro Luigi Di Maio. La metto assieme al mio messaggio per il sindaco di Riace e mi domando fino a quando assisteremo indifferenti all’omicidio della democrazia che si commette ogni giorno davanti ai nostri occhi.
Mi chiamo Massimo Napolitano. Sono uno dei cinque licenziati FIAT di Pomigliano che dopo la sentenza della Cassazione ha definitivamente chiuso con la FIAT.
Sono un operaio e sempre questo ho fatto, lavorare con le mani. Non so fare altro. Questa lettera è stata scritta con l’aiuto di compagni che hanno più confidenza con la penna di me. Sono pensieri miei, condivisi con i compagni che sono stati licenziati insieme a me.
Perché siamo stati licenziati? Perché ci siamo permessi di criticare la politica aziendale dell’allora amministratore delegato, Sergio Marchionne. L’abbiamo fatto inscenando il suo finto suicidio. Perché si suicidava? Per il rimorso. Per il rimorso delle tragedie personali che la sua politica aziendale aveva determinato in molti di noi e tra le nostre famiglie e che aveva portato al suicidio di due nostri compagni: Peppe De Crescenzo e Maria Baratto. E al tentato suicidio di diversi altri.
I piani industriali di Marchionne hanno risanato i debiti della FIAT e hanno fatto guadagnare montagne di soldi agli azionisti, ma per gli operai sono stati una catastrofe. La metà di noi è stata a cassa integrazione per anni e l’altra metà ha lavorato con ritmi inumani.
Io ero stato trasferito a Nola nel 2008 insieme ad altri 315 operai. Eravamo tutti “limitati fisici”, per patologie maturate in anni di lavoro sulle linee di montaggio, o “sindacalizzati” che per il padrone è la malattia più grave che un operaio può avere. Il nostro era un reparto dove stavamo li a fare niente. Per chi mastica un po’ di cose di fabbrica sa che uno stabilimento che non produce niente è prossimo alla chiusura. E noi vivevamo questa drammatica attesa con i quattro soldi che ci venivano dati per la cassa integrazione, aspettando la chiusura. Qualcuno di noi non ha resistito, dopo un po’ sono iniziati i problemi in famiglia, la depressione, l’isolamento, fino alla scelta senza ritorno di farla finita.
Il finto suicidio di Marchionne è avvenuto nello stesso giorno dei funerali di Maria Baratto. Eravamo esasperati e arrabbiati. Morivano nostri compagni e nessuno se ne fregava. L’unica cosa che valeva era il rilancio della FIAT, la conquista dell’America. Marchionne era il personaggio più osannato dai politici, dai giornalisti. Cosa contavano due operai morti e la sofferenza silenziosa di migliaia di altri? Niente.
Abbiamo scelto di denunciare quello che stava succedendo utilizzando un’arma pacifica. Non siamo stati violenti, non abbiamo organizzato picchetti e manifestazioni. Forse perché siamo napoletani, abbiamo utilizzato le vecchie armi di Pulcinella, accusare il responsabile dei nostri guai con lo scherzo. Quelli che ne sanno più di noi la chiamano satira.
Non lo sapevamo ancora, ma anche questo non ci era consentito. Mettere al centro di una rappresentazione il nostro capo, anche se fuori dallo stabilimento non ci era consentito. Ci hanno dato addosso la stampa, i giudici, la FIAT. Ci hanno accusato di aver intaccato la dignità dell’amministratore delegato. Abbiamo verificato praticamente che in una società dove si dice che siamo tutti cittadini, ci sono persone che sono più cittadini degli altri. Due compagni morti valevano meno della “dignità” di un padrone.
Siamo stati condannati alla miseria della disoccupazione. Quando abbiamo cercato di far conoscere la nostra situazione abbiamo preso altre mazzate. L’ultima è stata quella di essere stati allontanati da Roma per due anni con quello che chiamano un Daspo. Cosa avevamo fatto? Anche qui nessuna violenza, siamo saliti su un tetto di un palazzo pubblico di Roma per attirare l’attenzione. Tre parlamentari del partito 5 Stelle sono venuti a parlare con noi e a darci la loro solidarietà. Subito dopo siamo scesi e le guardie ci hanno fermati e portati per ore in questura. Dopo il Daspo.
Ho capito che c’è poco da fare per gente come me in Italia. Si, molti dicono che le cose stanno cambiando, ma io tutti questi cambiamenti non li vedo. Ho lottato nel mio piccolo contro quelli che oggi chiamano i “poteri forti” e sono stato stritolato. Oggi che i “poteri forti” sono sotto accusa, sono sempre io e quelli come me a prendere le bastonate.
Mi dispiace. Abbandonare i compagni è brutto. Abbandonare il mio paese mi riempie di malinconia. Ma io non posso più rimanere qui. I miei figli e mia moglie sono già partiti. Forse hanno capito prima di me che non era aria per gente come noi. Sabato parto anch’io. Me ne vado in Inghilterra dove i miei figli mi dicono che è ancora possibile vivere una vita dignitosa, con un lavoro. E senza dover sempre abbassare la testa.
Agoravox, 27 ottobre 2018
Reportage su Lucano http://www.recnews.it
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Di mestiere faccio lo storico e quando racconto fatti cito le fonti. Qui non ci sono; di conseguenza sono chiacchiere.
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Se lei è uno storico dovrebbe notare che c’è della documentazione debitamente citata.
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Quali sono le fonti? Tutto rimanda alle accuse mosse dai giudici, che però, almeno per ora, non hanno praticamente valore.
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Sta dicendo che il lavoro della Procura della Repubblica non ha valore? La vicenda è stata comunque trattata grazie a una copertura documentale che va dal 2010 a oggi. Non c’è solo l’ordinanza. Questo ha molto più valore delle chiacchiere fatte senza nessuna base.
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Sì, finché non si giunge a una sentenza definitiva, non ha valore.
Anni fa, secondo una Procura della Repubblica, io ero una sorta di pericolo pubblico, colpevole persino di istigazione alla rivolta. Si trattava solo di chiacchiere, firmate da un magistrato incapace o in malafede. Fui assolto perché il fatto non sussisteva.
Il lavoro di una Procura va preso con le molle. Negli archivi di Stato esistono prove inoppugnabili che riguardano processi truccati da funzionari di polizia che mentono sapendo di mentire. Ho trovato una lettera di Crispi che chiede ai magistrati una sentenza rapida ed esemplare – giusta o ingiusta non gli interessa, quello che conta è che gli consenta di sciogliere il PSI. L’ottiene, ma il processo è una tragica farsa. Ho trovato persino la lettera di un Questore che raccomanada ad alcuni commissari di Pubblica Sicurezza di concordare una versione comune da fornire alla stampa e al magistrato. I commissari obbediscono e gli assassini in divisa, che hanno ucciso a colpi d’arma da fuoco un giovanissimo operaio, evitano il processo.
In quanto a Lucano, che dire? La disobbedienza civile prevede reati che i Tribunali condannano. E’ la storia poi che processa i tribunali e assolve gli imputati. Ci sono migliaia e migliaia di antifascisti spediti in galera e al confino per reati previsti dalle leggi fasciste. Violarono la legge? Certamente. Oggi però meritano quel rispetto che non hanno meritato i giudici che li condannarono. Nell’Italia liberale, Mazzini morì esule in patria sotto falso nome. Negli anni del fascismo Pertini finì in galera, in quelli della Repubblica fu considerato un uomo integerrimo. L’antimilitarista Don Milani morì da imputato nella Republica che ripudia la guerra, ma oggi è ritenuto un maestro.
Questo è. Si rassegni e non speri di convincermi. Spreca il suo tempo. Si tenga la sua legittima opinione e aspetti. Mi creda, però, e ci rifletta: la storia, non i cronisti e i tribunali, dirà se Mimmo Lucano è un criminale, come lei crede o, come invece penso io, un esempio di virtù civile.
Qui si chiude. Non pretendo di aver ragione e rispetto la sua opinione, ma non abbiamo altro da dirci.
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