Necessariamente lungo, nonostante la volontà di essere sintetico.
All’assemblea nazionale di maggio di Potere al Popolo università e ricerca erano inclusi nel vasto tema del welfare e cinque minuti non potevano bastare. Ci torno ora e spero di dare un utile contributo.
Parlo di università e ricerca perché cerco risposte a domande emerse nell’assemblea di Napoli e cadute nel vuoto: perché nel gruppo c’erano più insegnati che studenti? E perché tra i docenti gli “anziani” prevalevano sui più giovani? Non sono domande banali e la risposta ci chiede forse di “capovolgere” il nostro modo di ragionare: invece di partire da ciò che vogliamo, cominciamo da ciò che è successo. Certo, a noi importa correggere storture, perciò procediamo in questo modo: la scuola così com’è non va per queste ragioni, noi la cambiamo e sarà così. E via con modifiche, leggi d’iniziativa popolare, raccolta di firme eccetera. Avremo così risposto alla domanda sulla presenza degli studenti e la prevalenza dei vecchi docenti sui giovani? Non mi pare e forse al nostro ragionamento manca qualcosa.
Si può pensare che manca una riflessione sugli effetti prodotti dalle misura neoliberiste sul mondo della conoscenza e quindi nella società? Si può supporre che da qui derivi un serio problema di partecipazione? Io penso di sì e credo che dovremmo capire come siamo giunti a questo e quali meccanismi abbiano prodotto questa indifferenza. Individuarli consente di sapere se la formazione c’entra e come si può smontarli. Tra noi vive ormai almeno una generazione di giovani – studenti e docenti – educata nelle agenzie di formazione di un Paese soffocato nei confini che vanno da Bassanini a Renzi. Una generazione, ma forse qualcosa in più, cui sono stati abilmente sottratti gli strumenti che formano il pensiero critico, la capacità di pensare con la propria testa e valutare liberamente, che è anche capacità di opporsi. Una generazione che ormai cede alla rassegnazione, all’egoismo, all’indifferenza e al qualunquismo.
E’ vero, contano i dati materiali, ma l’aria che respiriamo non conta? Ciò che apprendiamo a casa, a scuola e nelle strade un peso non ce l’ha? Giungere a conclusioni frettolose, potrebbe impedirci di capire se la sinistra ha subito un sconfitta culturale prima ancora che politica, come sembrano dirci i milioni di voti ai 5 Stelle, che non sono solo meridionali, e – ciò che più conta – sono voti che per molti versi si incontrano agevolmente con gli altri milioni finiti all’estrema destra leghista. In genere si pensa a un regime anzitutto come repressione, ma è una visone miope. Un regime reprime, ma bada anche a costruire consenso, sterilizzare la conoscenza come potenziale arma di lotta e manipolare il pensiero. Se ignoro i miei diritti, se non li riconosco nemmeno come tali, non rifiuto lo sfruttamento, ringrazio lo sfruttatore e divento persino ostile a chi vuole combatterlo. All’inizio della storia del movimento operaio e socialista, i lavoratori salutavano e ringraziavano i loro carnefici, se elargivano “benefici” e li definivano “padri dei lavoratori”.
Torniamo al punto. E’ vero, università finanziate da adeguati investimenti dello Stato sono decisive per la crescita del tessuto sociale. Esse sono un irrinunciabile bene comune, che dovrebbe rendere possibile ciò che il giovane Gramsci chiese ai suoi coetanei, quando scrisse: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”. Le cose però non stanno così. Noi vediamo subito – e perciò combattiamo – gli effetti macroscopici delle politiche neoliberiste: livelli di precarietà elevatissimi nell’area docente, sfiducia degli studenti e immatricolazioni che calano. L’Italia è l’ultimo paese europeo per percentuale di laureati, ma impone restrizioni al passaggio scuola superiore-Università; da noi le difficoltà economiche causano la rinunzia all’iscrizione e i numerosi abbandoni, ma la tassazione universitaria pubblica è più alta che altrove e abbiamo creato figure paradossali, quali gli “idonei non beneficiari”, giovani ai quali, cioè, si riconosce il bisogno di un sostegno che però non avranno. Il diritto allo studio è un’astrazione, l’università è indebolita dalla penuria dei finanziamenti, isolata dal contesto sociale, e inaccessibile ai ceti meno abbienti. La sua decadenza è tra le cause principali del decadimento culturale, etico e politico della Repubblica.
Ridotta così, va rifondata ma c’è un problema che in genere ci sfugge. Se diciamo Invalsi, molti di noi sanno che parliamo di assurdi criteri di valutazione e contro l’Invalsi lottiamo. Se diciamo Anvur, si tratta ancora di valutazione, una valutazione che è controllo sulla cultura, ma pochi lo sanno e non è facile difendersi. Eppure, così com’è, la valutazione della ricerca è una galera per i ricercatori. Non è un tema da tre soldi. Se non lo affrontiamo non assicureremo mai una formazione critica di alto livello, sottratta agli interessi delle imprese e alle loro logiche di corto respiro.
La formazione non è un corpo a sé. Il suo principio-guida è nella Costituzione, quando, mettendo ordine e armonia tra uomo, lavoro e società, essa dice che quest’ultima è fondata sul lavoro, ma la sovranità non appartiene al mercato, bensì al popolo. Solo seguendo questa bussola, l’Università, ad esempio, può insegnare che le risorse della natura non costituiscono un patrimonio a disposizione delle ragioni del profitto, ma fanno parte di un ecosistema che ha inviolabili equilibri e che dal loro rispetto dipendono la nostra vita e quella di chi abiterà la terra dopo di noi. Ma l’Università questo non può più farlo, perché, gli equilibri ambientali sono subordinati agli interessi economici.
Se le cose stanno così, si spiega il ruolo centrale svolto dall’Anvur: costruire sacerdoti del pensiero unico e che non hanno capacità di organizzare resistenza. Ecco la risposta alla domanda da cui siamo partiti. L’Anvur è un’agenzia che fa della quantità della produzione scientifica la misura della qualità di testi che le commissioni non leggono. Per l’Anvur, un lavoro vale se l’editore conta molto – meglio se straniero – se c’è chi lo cita – gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore “produce” molto e partecipa a convegni internazionali. Grazie al criterio della «misurazione quantitativa», una commissione ha regalato una cattedra a una sorta di “speedy gonzales” che dalla laurea al concorso, in tredici anni, ha firmato otto saggi e “curato” nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo, come Cristo i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista. A conti fatti, rigo più rigo meno, 200 pagine all’anno per tredici anni. Un impegno che non gli ha impedito di organizzare undici convegni, dire la sua in ventinove simposi e festival nazionali, dodici seminari e workshop internazionali, svolgere il ruolo di revisore per valutare «prodotti di ricerca» su riviste italiane ed estere, presentare quattro progetti di rilevanza nazionale e internazionale e, dulcis in fundo, trovare modo di partecipare alle attività di otto comitati scientifici. La commissione che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, non s’è posta la domanda cruciale: quanto tempo il candidato ha potuto dedicare alla ricerca?
A che serve questo meccanismo e quali effetti produce sull’insegnamento? Perché l’Anvur con la sua logica produttivistica impone alla ricerca vincoli temporali, se i progetti di qualità richiedono spesso anni di lavoro e tutti sanno che il valore reale della ricerca è la qualità, che si misura in base alla metodologia, all’originalità, alla capacità innovativa e alla ricchezza creativa. La risposta è semplice: l’Anvur sa che il legame forte tra “grandi editori” e “baroni” che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se studio gli anarchici, non pubblico le mie ricerche e non vinco concorsi. Di conseguenza studierò altro e nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Se voglio occuparmi di salute mentale e seguire la scuola di Basaglia e Piro, non ho speranze di ottenere cattedre con le mie ricerche perché non trovo editori. O rinuncio o batto la via farmacologica. La conseguenza è una salute mentale che torna a soluzioni repressive, narcotici e letti di contenzione e una università dai cui insegnamenti sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e del disagio come male sociale.
Potremmo continuare, ma è ormai chiaro. Valutare per controllare, significa imporre dall’esterno “obiettivi di valore” che ispirano periodiche verifiche della qualità dell’insegnamento; significa creare docenti che tutelano potere e mercato. Significa decidere cosa dicono i libri di testo. E’ questo meccanismo che rende apatico lo studente, impreparato e subordinato il docente, ormato al pensiero dominante. E’ da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto stretto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava sugli studenti è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica.
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