Anni fa, inserendosi nella polemica sulla Resistenza tra storici «ortodossi» e «revisionisti», tutti concentrati per lo più su «uomini armati […] con una diversa idea della patria e dei valori per cui combattere», una studiosa ha indicato una sorta di terza via, aperta ad «altri modi di pensare la patria e l’identità nazionale in una visione più ampia che prenda in considerazione anche chi non combatte […] e che consideri altri valori e altri ideali come cemento della comunità». Per chiarire il suo concetto, la studiosa si domandava come avrebbe mai potuto
«riconoscersi nella Resistenza e nella categoria di ‘liberazione’ una donna del basso Lazio, che prima ha visto il suo paese letteralmente raso al suolo dalle bombe alleate e poi, il giorno della ‘liberazione’ ha subito lo stupro d’una torma di marocchini» [1].
La quindicenne napoletana Claudina Tikson, che la sera del 10 settembre 1943, in una città semidistrutta dalle bombe alleate e dalle mine naziste, ha visto la madre crivellata di colpi, mentre tenta di sottrarla a due soldati tedeschi che la violentano, risponderebbe che in guerra torme di soldati che stuprano se ne trovano ovunque, non è detto che siano «marocchini»: possono indossare qualunque divisa. In quanto alla Resistenza, ha visto donne come lei sparare ai tedeschi e prova per loro un’autentica gratitudine: hanno liberato la sua città da «marocchini» tedeschi sperando che mai più donne in armi dovranno poi uccidere per non essere violate [2]. Di quelle donne purtroppo conosciamo ben poco. Ignare di quanto gli storici avrebbero poi scritto di loro, a Napoli, come in tutto il Paese, esse affrontano la bufera come possono, in modi diversi tra loro, ma vanno poi incontro a una sorte comune: tranne casi davvero fortunati, come quello di Maddalena Cerasuolo, di cui ci occuperemo più avanti, si sa che ci furono, non si sa chi furono e quale storia avevano alle spalle.
[1] Gabriella Gribaudi, Terra bruciata…, cit., pp. 12-13.
[2] Archivio di Stato di Napoli, Prefettura Gabinetto, II Versamento.
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