“Stanno sfasciando tutto”, scrive con enfasi sospetta Alessandro Barbano sul “Mattino” del primo dicembre. Gli studenti, prosegue, o, per dir meglio, “i teppisti”, rompono “telecamere […] rubano computer, lavagne luminose e proiettore […] sfogano il loro disprezzo spaccando cattedre e banchi, imbrattando muri […] come un’orda barbarica”. Dietro Carrozza e Letta, nel silenzio rassegnato dei docenti, spuntano ormai le voci della reazione e l’apologia della scuola degli anni Cinquanta, affidata a un vecchio e nostalgico lettore che ricorda una società fondata “su categorie univoche, come il merito, il dovere e la responsabilità.
In prima linea è “Il Mattino” che non smentisce se stesso. Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che lo fondarono, non furono modelli di giornalismo indipendente e illuminato. Ebbero Bracco e Nitti in redazione, ma il giornale si qualificò subito come avamposto dei ceti dominanti contro la “bestia elettiva”, la democrazia, che punta solo “sull’abbassamento sistematico delle superiorità legittime acquisite”. Di lì a poco, coinvolto pesantemente nell’Inchiesta Saredo sui rapporti politica-camorra, Scarfoglio scelse la via che non è più cambiata: soffiare sul fuoco della reazione. Le pagine sulla “bandiera rosso vino”, dei lavoratori in festa il Primo Maggio, quelle dedicate alla “teppaglia scioperante” nel giugno del 1914, quando la protesta contro il militarismo e la guerra incombente costa la vita a quattro operai, gli applausi per il capitano Aurelio Padovani, fanno parte della storia e mostrano un giornale in trincea, pronto a servire gli interessi dell’ala più arretrata e reazionaria dei ceti dominanti. Il sostegno alle peggiori avventure coloniali e la scelta di schierarsi apertamente contro il “cadavere putrefatto della democrazia”, non bastano a cancellare il guizzo neutralista per la “grande Guerra”; Mussolini non si fida e Paolo Scarfoglio è messo da parte. Paradossalmente, però, nel 1950, quando il giornale torna nelle edicole, alla direzione è chiamato Giovanni Ansaldo, consigliere di Galeazzo Ciano e voce nota della radio fascista, passato dalla leggi razziali e la mistica fascista alla repubblica democratica.
Si può capire un lettore ultrasettantenne che rimpiange la scuola degli anni Cinquanta – giunti alla fine del percorso, il passato pare spesso meraviglioso – è inaccettabile che un giornalista faccia di questa debolezza lo strumento di misura di un processo storico durato oltre mezzo secolo. Volete capire chi sono i ragazzi che occupano le scuole? – chiede ai lettori Barbano. Bene, fatevi dire da uno studente del dopoguerra cos’era l’ ”Alessandro Volta” negli anni Cinquanta e andateci ora. Scoprirete che in pochi giorni di occupazione uno sparuto gruppo di studenti ha smantellato non solo la scuola, ma l’Istituzione, il Sistema Formativo e – perché no? – è diventato la causa vera del disastro del Paese. Per capire cinquant’anni di storia della scuola, insomma, al “Mattino” non occorre altro: basta una visita al “Volta”! Perché stupirsi? Teppisti erano nel 1914 gli operai in lotta per la pace, teppisti sono a maggior ragione gli studenti oggi, con mezzo secolo d’esperienza accumulata e la malizia tipica della gioventù.
Sarà che talora si fanno brutti sogni, sarà che del passato ognuno ricorda ciò che gli conviene, ma c’è chi si rammenta di un “Alessandro Volta” che, dopo il terremoto dell’Ottanta, condivise per anni i locali con una scuola media inferiore e vede ancora, come improvvisi flash, la porta carraio senza custodi, ormai intimoriti dai camorristi, in quella terra di nessuno che i napoletani chiamano “Siberia”, lo spaccio di droga all’ordine del giorno e la montagna di fonogrammi che chiedeva l’intervento delle forze dell’ordine. Incubi che il “Mattino” si guarda bene dal raccontare.
In quanto alla scuola degli anni Cinquanta, qualcuno dovrebbe spiegare agli esperti del giornale che già fin dal 1943, nell’Italia “liberata”, una commissione americana guidata da Washbume, allievo di Dewey, provò a rivedere gli osceni programmi scolastici fascisti. Partì dalle elementari e pensò a una scuola aperta, che rifiutava il primato della religione cattolica. Una scuola pluriconfessionale, che non fu possibile realizzare per l’opposizione dei cattolici. Tutto si fermò a metà del guado, con idee avanzate paralizzate dai clerico-fascisti. E’ vero, la Costituzione si schierò per l’istruzione pubblica, gratuita e obbligatoria, ma non poté modificare il sistema scolastico fascista: cinque anni di elementari, poi esame di ammissione costoso e selettivo per accedere alla “scuola media” col latino, chiave di accesso alla media superiore; per le classi subalterne, invece, che il latino e l’esame non potevano permetterselo, c’era la “scuola di avviamento professionale” senza latino e senza prosecuzione degli studi; una scuola che riduceva l’obbligo scolastico all’addestramento della manodopera di bassa specializzazione, senza possibilità di accesso a ruoli decisionali. Anche l’iscrizione agli Istituti tecnici, infatti, prevedeva esami molto selettivi di italiano e latino.
Poiché si andò avanti così fino al 1965, non è difficile capire quale scuola rimpianga il “Mattino”: quella fatta a misura delle classi dirigenti, che non aveva sezioni miste maschili e femminili e non prevedeva la “scuola materna” statale? La scuola fascista, insomma, faticosamente cancellata negli anni Sessanta dalla media unificata e dai decreti delegati. Se le cose stanno così, perché tirare in ballo la nostalgia di un ultrasettantenne? Molto più onesto sarebbe dichiararlo: vogliamo la scuola che serve ai padroni. Nessuno si scandalizzerebbe, stia tranquillo Barbano. Il “Mattino” è sempre stato coi padroni. I peggiori di tutti: i reazionari.
Uscito il 3 dicembre 2013 su “Fuoriregistro” col titolo Scuola. Le voci della reazione e su “Liberazione” col titolo Dietro Carrozza spuntano le voci della reazione; il 4 dicembre 2013 su “Report on Line” col titolo Il Mattino di Napoli e a scuola dei padroni. Voci della reazione.
Seguo le occupazioni; e come ho detto ai ragazzi più volte apprezzo la spinta ideale che vi è sottesa. Ma penso che rischino di essere percepite come una malattia esantematica dell’adolescenza, da lasciar sfogare sperando lasci poche cicatrici. E questo è sia responsabilità degli adulti, che le osteggiano o le esaltano a seconda di dove si posizionano i loro figli, sia dei ragazzi stessi, che rifiutano ogni reale dialogo con chi potrebbe condividere con loro un percorso, assetati spesso più di eroismo a buon mercato che di reale volontà di cambiamento. Per dare un senso alla rabbia, per cercare di resistere al sistema, è necessario un patto tra generazioni, un ascolto reciproco e la condivisione di strategie non violente, le uniche che sul lungo respiro possono pagare come ci dimostra la storia.
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Cara Costanza, piegato il sistema formativo a logiche di mercato, scuola, università e ricerca sono in ginocchio. Forse confusamente, spesso con inconfessata e dolorosa disperazione, i ragazzi provano a reagire, muovendosi in un mondo che ha ipotecato il loro futuro. Per la prima volta nella storia della Repubblica i padri lasciano ai figli un Paese di gran lunga peggiore di quello che hanno trovato. A incontrarli, nelle scuole occupate, senti che i nostri ragazzi non stanno ripetendo, per imitazione, il “gioco della contestazione” e ti accorgi che non chiedono solo una scuola migliore e un mondo meno ingiusto. Non è solo questo. C’è un bisogno autentico di capire e di essere capiti che non trova quasi mai risposta. I ragazzi sono disposti ad ascoltare, ma chiedono di essere ascoltati. I grandi assenti purtroppo sono i docenti e i genitori, gli “adulti”, responsabili della tragedia che essi stanno vivendo. La stragrande maggioranza dei ragazzi non è violenta; subisce, al contrario, una violenza che ha rari paragoni nella nostra vicenda storica. Senza punti fermi, stretti tra disastro del sistema formativo, disoccupazione, cancellazione di diritti, corruzione e pessimi modelli forniti dalla politica e da buona parte della cosiddetta società civile, provano a dialogare ma, nel silenzio opprimente che li circonda, l’unica risposta che ricevono è quella repressiva. Gli adulti non osteggiano e non esaltano. Molto più semplicemente – e direi molto vilmente – si defilano. La ferita che i ragazzi si portano dentro è profonda. Commettono anche errori naturalmente, ma le loro lotte accendono piccole luci nel buio che ci avvolge. E’ incredibile, ma questo lumicino spaventa chi ci governa. Non si tratta solo di spinte ideali, c’è un dato reale: il mondo in cui viviamo è barbaro e incivile e i ragazzi lo sentono. A me pare un miracolo che riescano ancora a credere che si possa cambiarlo protestando. Spero che sia possibile, ma faccio fatica a crederci. Siamo di fronte a un disegno autoritario, che non riguarda solo l’Italia e mira a girare pagina alla storia. Per l’alta borghesia, una democrazia parlamentare è un inutile impiccio. E’ paradossale, ma potrebbe diventare tragico: il potere finanziario non solo ripudia Montesquieu, ma ripropone modelli di società che sembrano figli dell’Europa anteriore alla rivoluzione francese. Sono stato con gli studenti nel cuore della protesta dal 2008 a oggi. Credimi, la violenza vera è tutta nelle Istituzioni che scatenano in piazza uomini armati, figli della guerra, esaltati che esibiscono distintivi e mostrine delle loro campagne militari in Iraq, Jugoslavia, Afghanistan – guerra, in un Paese che ripudia la guerra! – si nascondono dietro l’anonimato e aggrediscono con impunita ferocia.
Un patto tra generazioni va certamente cercato, ma per realizzarlo occorre sgombrare il campo dai pregiudizi e accettare una condizione di parità. L’esperienza non si trasmette. Si possono solo fornire strumenti critici e provare a costruire così un percorso comune.
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