Ogni storia è contemporanea. Si può discutere sul significato profondo dell’affermazione, ma non è facile negarlo, Benedetto Croce, moderato, monarchico e liberale, ne ha fatto l’asse portante d’una lucida e moderna filosofia della storia. Alla luce di questo principio, non fa meraviglia se Giolitti, liberale anch’egli e protagonista della nostra vita politica nel primo Novecento, parli oggi alla nostra coscienza come il “contemporaneo” d’ogni tempo: è l’uomo che, di fronte ai ripetuti colpi portati allo Statuto, alle inaccettabili violazioni dei diritti delle masse lavoratrici e al gretto e miope egoismo di classe di gran parte dei ceti dirigenti, ammoniva la borghesia sui rischi concreti d’un violento scontro sociale. A leggerlo oggi, il suo pragmatico invito alla moderazione, quello d’uno statista che si vuole “burocrate“, pare tanto più forte, quanto più chiaramente risulta figlio d’una lucida visione filosofica della dinamica storica: il disagio ignorato e i diritti negati producono esiti fatalmente violenti.
Oggi lo sappiamo: la risposta fu lenta, gli interessi particolari continuarono a prevalere su quelli generali e si venne al muro contro muro. Non farò il marxista. Lo sconsigliano i tempi e la circostanza. Dirò solo che Giovanni Bovio, anch’egli liberale come oggi passa per essere la stragrande maggioranza del Parlamento, aveva già provato a ricordarlo: da troppo tempo ai bisogni concreti delle masse rispondevano la forza e un silenzio ottuso e pericoloso. Fuori dei palazzi del potere, l’idea socialista chiedeva in tutti i modi ascolto, ma nei tribunali, ove un’ipocrita menzogna sosteneva l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, Bovio aveva dato voce ai deboli: “non vi neghiamo i tributi e la difesa, chiediamo però invano che rimuoviate gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e sterile per noi. Non fateci dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi, di noi stessi temiamo e ci volgiamo a chi ci chiama fratelli: noi fummo nati al lavoro e, per carità di dio, non fate noi delinquenti e voi giudici“.
Tutto risultò inutile e, senza che nessuno potesse più evitarlo, Bresci giunse a levare la sua mano armata. Solo allora, solo dopo il disastro, Giolitti trovò ascolto e la corona troncò gli oscuri legami e i turpi maneggi. Muro contro muro, però, Umberto I s’era spinto sulla via dei tiranni e la storia degli uomini non si gioca sulle dichiarazioni ipocrite. Oggi si sa: egli stesso fu il mandante morale del suo tirannicidio. Le alterne vicende della storia si misurano sui tempi lunghi dei cicli di Vico ma, per buona sorte, le buffonate di velinari, pennivendoli e servi sciocchi hanno respiro corto e finiscono presto nell’ombra eterna del nulla. Ciò che rimane vivo è il corso tragico degli eventi. Le lame di Bruto e Cassio sembrarono sul momento semplicemente – e semplicisticamente – delitto, ma lasciarono invece alla riflessione storica il drammatico e ineludibile dilemma della scelta tra l’ethos della vita e quello della libertà. Non si inganna se stessi e lo sappiamo bene: guai a quel popolo malaccorto che non s’avvede d’esser già davanti ai due corni del dilemma. Non ha più salvezza da sperare.
Uscito su “Fuoriregistro” il 15 dicembre 2009
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