Murolo Ezio, di Ferdinando e De Micco Antonietta, Caivano (NA) 9 aprile 1897. Giornalista. Perseguitato politico, Partigiano.
Nella descrizione della polizia fascista, ha i tratti inconfondibili di un sovversivo, «irriducibile avversario del regime», ma nella coscienza collettiva Ezio Murolo è poco più che un nome in un elenco. Sottufficiale degli Arditi, combatte la «grande guerra» in prima linea, poi si lascia coinvolgere nell’impresa di Fiume, diventando aiutante di battaglia di Gabriele D’Annunzio. E’ il 12 settembre 1919 quando il «poeta-soldato», entra nella città istriana affermando che «Fiume è oggi il segno della libertà»; la città, invasa da collettivisti, futuristi, anarchici individualisti e nazionalisti, lo accoglie festeggiando. Murolo che ha solo 22 anni, quattro dei quali trascorsi in trincea, gli ha creduto ed è con lui. E’ significativo, però, che se il poeta lo incanta, perché inizialmente, dopo la traumatica esperienza della guerra, sembra incarnare il mondo nuovo che tanti giovani sognano, Murolo non si fida del duce della «rivoluzione fascista». Al combattente non sfuggono, infatti, l’opportunismo e la vocazione autoritaria che Mussolini nasconde dietro un’ormai grottesca maschera socialista.
Non stupisce quindi se, sin dal 1921, Murolo, dirigente regionale dell’Associazione Nazionale ex Arditi d’Italia, si adoperi per dar vita al suo interno a un’opposizione, che contribuisce alla nascita degli Arditi del Popolo, gruppi armati nati per contrastare lo squadrismo fascista.
Un’esperienza significativa che, però, non lo induce a riflettere sulla natura reale dell’«Unione spirituale dannunziana», sicché dopo l’omicidio di Matteotti, quando Mussolini è a un passo dal crollo, spera ancora in D’Annunzio, al quale il 3 settembre 1924 scrive con toni quasi mistici:
«Comandante, […] gli italiani […] attendono la vostra parola per liberare dalla tirannia questa povera Italia che oggi è come nave che nella tempesta non ha timone. Gli arditi vostri vi attendono, gli italiani guardano voi.
Il fedelissimo Ezio Murolo».
E’ il linguaggio di un interventista che ha creduto all’inganno della «guerra per la democrazia» e si trova di fronte a una scelta: sostenere un’avventura autoritaria o una «rivoluzione da operetta» che vive di gesti sensazionali e asseconda il senso retorico e melodrammatico degli italiani. Temerario, pronto a metter mano alle armi per realizzare il sogno di un mondo nuovo, come tanti giovani tornati dal fronte, Murolo, segue D’Annunzio finché non gli riesce impossibile ingannare se stesso; è il momento in cui, abbandonato il “poeta soldato”, gli opportunisti, i violenti e chi ha privilegi da difendere, seguono il duce; gli altri – una minoranza di cui fa parte Murolo – si uniscono sotto la bandiera antifascista.
Il percorso seguito da Murolo, però, non si spiega, senza ricordare il clima sprezzante che conduce alla crisi dell’intervento, quando gli intellettuali attaccano l’«Italietta» in nome della guerra come “igiene del mondo”, del battesimo del sangue e della bella morte. Dietro ci sono le banche, gli appetiti dell’alta borghesia, che, rafforzata dalla pace sociale assicurata da Giolitti e Turati e dal riformismo liberal-socialista, reclama la sua parte di bottino nell’urto tra imperialismi. E’ un clima di reazione, nel quale, però, si vedono operai difendere i futuristi aggrediti dalla piccola nobiltà e dai giovani piccolo borghesi, perché, annota Gramsci, nel futurismo, che pure non ha mai formulato un’ideologia rivoluzionaria favorevole alle classi subalterne, vedono istintivamente un no opposto alla mummificata cultura accademica, lontanissima dalle classi popolari. E’ vero, Giovanni Papini finirà poi nell’Olimpo degli intellettuali fascisti, ma è vero anche che nel 1913, quando «Lacerba» attacca «la bestialità dominante» e se la prende con tutti, studenti sobillati dai professori, borghesi aristocratici, clericali, liberali, giornalisti, poliziotti e «beceri presi a nolo» e guarda ai giovani operai come ad alleati, crea un tale scompiglio, che su una tiratura di ventimila copie, i quattro quinti sono acquistati proprio da operai».
A questo mondo, a queste alleanze spurie, che una ragion d’essere in fondo ce l’hanno, conducono la figura di Ezio Murolo e il suo antifascismo estraneo a logiche classiste. E’ l’Italia liberale che si avvia al tramonto, scossa dalla dura contestazione del pacifismo dei popolari, del potere dei notabili e del’internazionalismo dei socialisti, che nega l’efficacia rivoluzionaria della guerra. Il dopoguerra, la resa dei conti tra squadristi, nazionalisti e dannunziani e la sanguinosa vittoria del fascismo sui lavoratori, chiariranno le posizioni. E’ nel corso della crisi materiale e morale del dopoguerra che uomini come Ezio Murolo incrociano personaggi ambigui come D’Annunzio e seguono la sua via, pensando che occupare Fiume significhi accelerare un processo di rinnovamento.
A mettere fuori gioco chi ha creduto nella Carta del Quarnaro e nella «Repubblica Sindacale» di Fiume è Mussolini che liquida D’Annunzio con parole taglienti: «Può il fascismo trovare le sue tavole negli statuti della reggenza del Quarnaro? […] No. D’Annunzio è un uomo di genio, è l’uomo delle ore eccezionali, non è l’uomo della politica quotidiana». Per Murolo, invece, gli Statuti del Quarnaro rappresentano democrazia e diritti e non si può consentire che Mussolini li mandi al macero per ridurre gli ex combattenti a braccio armato della reazione, a boia dei lavoratori per conto dei padroni. L’antifascismo di Ezio Murolo non nasce dal conflitto di classe ed è legato soprattutto alla crisi d’identità, al confuso rivoluzionarismo, al travaglio e all’evoluzione politica che agitano i giovani borghesi tornati dal fronte. E’ un antifascismo certamente minoritario, che non milita in un partito politico, non può contare sulla forza dell’organizzazione e sulla continuità d’azione dei comunisti, né sulla forte convinzione ideologica e sulla sperimentata pratica di militanza degli anarchici, ma ha una connotazione definita: è l’antifascismo liberale, in un primo momento torpido e confuso, di quanti – non sono molti ma esistono – gelosi della propria libertà, rifiutano imposizioni e prepotenze di «sciarpe littorie», squadristi «antemarcia» e buffoni in camicia nera.
Nel 1924, quando il disimpegno di D’Annunzio non consente illusioni, Murolo diventa giornalista del «Mondo», si avvicina ad Amendola, capo dell’opposizione costituzionale al fascismo, frequenta Roberto Bracco e la sede dell’«Italia Libera», cerca di avvicinare ai partiti d’opposizione gli ex arditi locali e prepara dimostrazioni di piazza. A giugno, sfuggito all’arresto dopo violenti scontri con i fascisti, sparisce e riappare il 5 novembre, durante i gravi incidenti in cui è gravemente ferito un fascista.
Quando il regime si afferma, molti degli oppositori si fanno da parte e si chiudono in un silenzio che non è consenso, anche quando, per tirare avanti, accettano compromessi e tessere. Molti – è il caso di Murolo – cercano così di mimetizzarsi. L’impressione è che si siano adattati allo stato di fatto o addirittura «inquadrati», accettando le direttive del governo nazionale. In realtà, si muovono con cautela, nell’ombra, resistono come possono ma, quando il fascismo vacilla, si materializzano dal nulla e danno il loro contributo alla sua liquidazione.
Quando la fine di Matteotti sembra chiudere l’avventura di Mussolini, Murolo intuisce che la paralisi dell’Aventino dà respiro al regime e agisce con risolutezza. l’orbita dei partiti d’opposizione, entra nell’«Italia Libera», stringe rapporti col generale Capello e collabora con Giovanni Amendola. Benché sottoposto a stretta sorveglianza e a frequenti fermi e perquisizioni, diventa un riferimento per gli antifascisti liberali e democratici che a Napoli continuano a resistere e organizza manifestazioni di piazza r un’attiva propaganda, distinguendosi nei sanguinosi scontri con gli squadristi. Il 17 agosto 1924, nel pieno della crisi per l’omicidio Matteotti, quando a Napoli gli squadristi attaccano un comizio, facendo morti e feriti, la polizia politica lo segnala tra i protagonisti della risposta antifascista. Ezio Murolo, si legge in un rapporto, «già aiutante di battaglia e legionario fiumano», prima prese parte con altri ex Arditi agli incidenti verificatisi in città, poi riuscì a sottrarsi alle ricerche.
A lui si deve in gran parte il lavoro politico e organizzativo che il 4 novembre 1924 sfocia in una grande manifestazione, promossa dai combattenti con l’adesione di tutte le opposizioni. In piazza, al grido di «Italia libera! A Roma! A Roma! Migliaia di manifestanti invitano Amendola a incalzare il regime. Il deputato liberale indugia e ormai non c’é tempo. Il 22 febbraio 1925, prima che le «leggi fascistissime» rendano l’Italia una enorme galera, un’ultima disperata protesta: Ezio Murolo e antifascisti noti e sempre più isolati, studenti, operai, ex combattenti, soci del circolo repubblicano intitolato a Mazzini e militanti di «Italia Libera», sorprendono la polizia, riempiono di volantini fabbriche e officine, le Poste, la Stazione Ferroviaria, Castelcapuano, sede del Tribunale e fanno circolare il «memoriale Filippelli», la lettera inviata il 14 giugno 1924 da Cesare Rossi a Mussolini prima di costituirsi, e un appello agli italiani nel nome di Giacomo Matteotti. Lo stesso appello che quella sera, lanciato da alcuni operai socialisti e da un gruppo di universitari repubblicani piove sul pubblico dai loggioni del Politeama, del Fiorentini e di altri teatri cittadini:
«Italiani, da circa trenta mesi la vita della Nazione é terrorizzata dallo squadrismo […]. Si violano i domicili privati, si arrestano i cittadini incolpevoli. Si perquisiscono senza mandato e senza ragione le case e gli uffici. Si sequestrano e si sopprimono i giornali. Ogni riunione è vietata. Ogni diritto di associazione è soppresso. Le guarentigie fondamentali del patto giurato tra Re e Popolo sono distrutte […]. Tutto questo perché una serie di reati comuni messi in luce dall`orrendo assassinio di Matteotti, possano passare nella impunità e nel silenzio e perché possa tentarsi il salvataggio dei maggiori responsabili. Indubbiamente il popolo italiano non sopporterà questo disonore! […] Occorre che ciascuno come individuo reagisca e si prepari alla resistenza civile! Si faccia il vuoto intorno ai fascisti, al fascismo e alle sue organizzazioni armate! Sia con cura evitato ogni contatto! Non si compri merce nei negozi fascisti o filo-fascisti! […] Chiudete il vostro uscio al passaggio d’un corteo fascista e ritraetevi dai balconi! I nostri mutilati vilipesi e percossi lo comandano, i nostri combattenti, contro cui si sferra l’ultima offensiva, ci chiedono difesa e aiuto! […] Nel nome di Dio, della Libertà dell’Italia, tutto il popolo si prepari a trarsi in salvamento».
Dopo quest’ultima protesta pubblica, Murolo assume una posizione prudente, si defila, sfugge alla vigilanza e ripara in Francia. Giunto a Parigi nell’estate del 1926, ci resta due anni, facendosi notare per i rapporti con gli immancabili «elementi pericolosi» e la propaganda antifascista. Il 9 giugno 1928 prova a rientrare in Italia, ma a Bardonecchia è arrestato con l’accusa di aver organizzato un attentato a Mussolini, In assenza di prove concrete, l’ex ardito se la cava con l’ammonizione.
Cominciano così anni di sorveglianza soffocante. Murolo mostra disinteresse per la politica, ma in realtà frequenta antifascisti ed è così abile, che la polizia non trova «motivi di rilievo» per colpirlo. Il 13 marzo 1937, a Nizza «Le cri des Travailleurs des Alpes Maritimes», un giornale comunista, pubblica l’esito di una sottoscrizione a favore degli italiani che combattono in Spagna contro i fascisti: 170 franchi, provenienti da un paese dell’Italia meridionale, raccolti da un tale «Luciano». Come scrive il giornale francese, «più che un valore finanziario», per i rischi che i sottoscrittori hanno voluto correre «dando questa prova tangibile di opposizione al fascismo», il gesto ha un alto contenuto simbolico ed etico.
Le indagini, orientate probabilmente dalla «soffiata» di un confidente, durano poco e consentono a Michelangelo Di Stefano, Direttore della Polizia politica, di scrivere a Napoli che i 170 franchi sono stati raccolti da Ezio Murolo, che per corrispondere con i comunisti residenti all`estero, ricorre allo pseudonimo di «Luciano». Chi c’è dietro Murolo? Gruppi organizzati? I temuti comunisti? L’uomo ha agito da solo o ha contatti in Francia? Per scovare eventuali complici, Di Stefano vorrebbe per «Luciano» una cauta, continua vigilanza, rafforzata da un controllo della corrispondenza. A Napoli, però, il Questore, che teme la «pericolosità del soggetto» e «la difficoltà di esercitare una efficace vigilanza», convince Bocchini, capo della Polizia a far arrestare Murolo che è confinato a Tremiti.
Il mondo di Ezio Murolo, però, non è quello dei comunisti, ai quali probabilmente poi si avvicinerà, per giungere alla rottura sul tema cruciale dello stalinismo. Nella sua vita avventurosa, l’ex ardito ha stretto molteplici legami e non a caso in suo aiuto giunge un sacerdote: Pietro Tacchi Venturi, infaticabile tramite tra il Vaticano e Palazzo Venezia, che scrive di suo pugno a Bocchini. Se a tirare Murolo fuori dal confino sia stato l’intervento del suo autorevole patrono è difficile dire; sta di fatto, però, che grazie a una sanatoria, l’uomo si dichiara pentito e in occasione del Natale 1937 torna a casa. I suoi conti col regime però non sono chiusi. Benché sorvegliato – la polizia lo ritiene un riferimento per i fuorusciti – prima delle Quattro Giornate, Ezio Murolo forma un gruppo di combattenti e a lui, tra gli altri, si rivolge il comunista Ciro Picardi, quando anche gli uomini del PCI, si preparano allo scontro e prendono contatto con altri bande armate.
Ex sottufficiale degli arditi nella «grande guerra» e aiutante di campo di D’Annunzio a Fiume. Murolo possiede una notevole esperienza militare e non meraviglia, quindi, né che assuma un ruolo di comando nella lotta armata, né che sia decorato per il coraggio e l’abilità dimostrati. Più significativa è, invece, la prosecuzione della lotta, che dura fino all’aprile del 1944. La sua partecipazione alla guerra di liberazione, iniziata a Napoli con le Quattro Giornate è infatti l’epilogo naturale di una opposizione al fascismo che ha attraversato come un filo rosso un ventennio durante il quale, se è vero che la storia del Paese non è stata semplicemente la storia della lotta al fascismo, è altrettanto vero che sarebbe impossibile ricostruirla senza tener conto del ruolo che l’antifascismo vi svolse. Un antifascismo dai mille volti, complesso e articolato, contro il quale nonostante la durezza della repressione, il regime urta costantemente, fino a quando, travolto dalla sua pochezza politica e dalla sua miseria morale, conduce il Paese a un disastro e si sgretola.
Subito dopo la resa e la fuga dei nazifascisti, Murolo prende contatto col tenente inglese Schirici e si arruola nei reparti che avrebbero dovuto costituire il nucleo di un esercito italiano schierato a fianco degli Alleati. Quando gli inglesi, che diffidano degli italiani, impediscono però temporaneamente la nascita del nuovo esercito, Murolo ha già superato le linee nemiche e sembra sparire nella furia della guerra. Riappare nell’aprile del 1944 sul massiccio del Matese, terra di partigiani e ribelli sin dai tempi della resistenza ai francesi di Murat. Dopo lunghe notti passate all’aperto nel gelo dei monti. l’hanno trovato e soccorso soldati Alleati; è stremato, febbricitante, ha la broncopolmonite e la tubercolosi. La sua guerra è finita, ma l’ha combattuta con determinazione tra i paracadutisti, ha compiuto coraggiose missioni a Verona e a Sanremo e ha guidato e «organizzato moltissime missioni importanti nelle linee tedesche per atti di sabotaggio e ricerche di prigionieri alleati».
Finita la guerra, riceve una medaglia d’argento, il grado di comandante di brigata partigiana ed è chiamato a far parte della Commissione ministeriale per il riconoscimento delle qualifiche dei partigiani. Nel 1946 rappresenta Napoli al congresso dell’ANPI di Firenze, poi, con il partigiano cattolico Gustavo Troisi, diventa membro del Comitato Esecutivo provinciale dell’ANPI. Nel 1949 è vice presidente della sezione napoletana dell’ANPI, poi scivola nell’ombra e sparisce.
Nel 1952, alla vigilia della morte di Stalin, nel clima che annuncia le scelte di Kruscev, una breve, ma significativa fiammata lo riporta alla ribalta: col fratello Tito e con i partigiani Vincenzo Saturno e Salvatore Finocchiaro è protagonista infatti di una temporanea scissione dell’ANPI di Napoli, da cui escono una cinquantina di soci che formano l’«Unione Partigiani e Patrioti Indipendenti». Il gruppo si professa apolitico, rifiuta le ingerenze dei partiti e intende «tutelare il patrimonio morale della Resistenza», ma fa riferimento ai deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani i quali, espulsi dal PCI per le critiche allo stalinismo e per la posizione assunta con Tito, costituiscono il «Movimento dei Lavoratori Italiani», diventato poi «Unione Socialista Italiana». Il gruppo rientra dopo meno di un anno, ma la polizia riferisce che la rottura è nata soprattutto in polemica col PCI, che, secondo Murolo, egemonizza il movimento.
Per quel che si sa, Ezio Murolo chiude così la sua esperienza politica e si fa da parte. Su questo «farsi da parte», però, sulle critiche rivolte ai partiti da militanti che, dopo la lotta al fascismo, stentano a inserirsi nella politica attiva, sul rapido predominio acquisito da un personale politico legato ai partiti più che alle masse, e sulle posizioni dei partiti, che, dalla collaborazione iniziale passarono alle polemiche e alle lotte di predominio, andrebbe fatta una riflessione. La farà una generazione di giovani studiosi. Ciò che qui val la pena di sottolineare è che la lunga storia di militanza di Ezio Murolo, una delle figure più significative dell’insurrezione, e la cultura politica originale e ricca di molteplici esperienze che egli porta nello scontro sono espressione di un mondo finora ignorato, che accende nuove luci sul volto politico delle Quattro Giornate, rivelando la natura politica e la sostanziale debolezza storica della tesi che identifica la Resistenza con il comunismo e il comunismo con il «gulag», per liquidare l’antifascismo. In realtà, gli schedari dei sovversivi dimostrano che, tra gli antifascisti presenti nella sommossa, ci sono combattenti che non sono comunisti e comunisti contrari al realismo politico del PCI e più in generale dei blocchi di potenze e delle formazioni politiche che ad essi ideologicamente e politicamente fecero capo; un realismo – anche su questo sarebbe utile riflettere – che ci regalò la pace armata della guerra fredda e i conflitti frontali che spaccarono la Resistenza nei maggiori paesi europei, primi fra tutti l’Italia e la Francia.