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O…scurati


Faccio appello con scarse speranze alla sbandierata libertà di opinione, ma so che rischio la condanna al rogo del Sant’Uffizio, per l’accusa di eresia. Lo so, ma lo dico ugualmente e voglio proprio mettere alla prova la tolleranza liberale di chi si strappa i capelli, scandalizzato dalla censura. Il testo “censurato” di Scurati l’ho letto sui social della Meloni molto prima che i rosso confetto ci assediassero con letture puntigliose giunte fino agli sbigottiti marziani.
Non era mai capitato che un censore pubblicasse in anteprima il testo del censurato e gli facesse una propaganda tale da assicurargli un ingresso trionfale nei mercati di mezzo mondo. Se censurato e censore si fossero accordati, lo “scandaloso” episodio non avrebbe avuto un ritorno così favorevole per entrambi.
Per fare la parte dell’antifascista militante, Scurati ha chiesto un compenso. Io, un imbecille che tiene al proprio onore, avrei risposto all’invito senza chiedere un centesimo e avrei pesato le parole. Non avrei mai detto, per esempio, che finché la Meloni non si dirà antifascista il fantasma del fascismo vivrà con noi la sua vita pericolosa. Sarà che ho studiato e studio, ma non l’avrei detto e spero che la fascista non accetti l’invito; una parola non cambia molto e continuerebbe a fare i morti di Cutro, metterebbe ancora in discussione l’aborto, renderebbe più fascista il Codice Rocco, mandando in galera e manganellando chi protesta, e Scurati non potrebbe più nemmeno domandale di dirsi antifascista, perché l’avrebbe accontentato: sono antifascista, avrebbe detto.
La mia impressione è che in questo sventurato Paese esistano purtroppo due fantasmi del fascismo. Uno, quello che gli antifascisti a pagamento ritengono buono e non me parlano, è il fascismo di D’alema che devasta il Titolo V della Costituzione, bombarda Sarajevo, sputa sull’Italia che ripudia la guerra e fa la Bicamerale con Berlusconi; il fascismo di Renzi che massacra lavoratrici e lavoratori, cancellando l’articolo 18; quello di Minniti, che tratta i migranti peggio della Meloni; il fascismo di Napolitano e Mattarella i bipresidenti, che hanno fatto casta straccia della Costituzione e mi fermo qui per carità di Patria. Scurati e i rosso confetto dei salotti benpensanti – Paolo Mieli, in testa a tutti – non hanno mai protestato per quel fascismo, se lo sono tenuti e se lo tengono caro e col loro silenzio hanno allontanato la popolazione dalle urne e hanno regalato il Paese al fascismo cattivo, quello che, per coerenza, non si definisce antifascista e segue con maggior decisione e consenso la via aperta dai fascisti buoni e prosegue il loro lavoro.
Scurati e tutti quelli che si strappano i capelli perché oggi governa il fascismo cattivo, sarebbero credibili, se avessero fatto giungere ai marziani anche la loro disperazione per le malefatte dei fascisti buoni. Non l’hanno fatto perché sono amici e ora meglio farebbero a stare zitti e ad andare a Canossa con la cenere in testa. Non possono fare a meno di parlare? Almeno non prendano soldi dai fascisti e puntino il dito sui fatti, non sulle parole, non cerchino di fare bella figura, scansando le manganellate ed evitando di rischiare la galera che i camerati cattivi stanno preparando per i giovani che protestano. Soprattutto pensino, ragionino, non sono aquile, ma hanno esperienza: non è vero che se Meloni si dichiara antifascista, il fascismo sparisce dalla nostra vita politica. Sparirà se torneranno a funzionare le scuole e le Università che sono state distrutte e trasformate in fucine di sacerdoti del pensiero unico. Quelle università in cui molti amici dei fascisti buoni insegnano, senza difendere gli studenti.
Lapidatemi, ma la ribellione dei salotti guidata da Gramellini e soci non mi convince e ricordo bene quando i “censurati” di oggi, ieri si auto censuravano e nelle piazze a prendere botte e denunce dalla polizia dei fascisti buoni non ne trovavi uno, nemmeno se lo pagavi. I soldi, questa gente, sa dove e quando prenderli.

Contropiano, 22 aprile 2024


Entri in clinica un po’ preoccupato. L’età – 78 anni – non è tranquillizzante ed è il terzo intervento serio in meno di un anno. La clinica è come una prigione invisibile: tre quarti d’ora per una visita. All’ultimo momento senti che avresti bisogno di un istante d’intimità per abbracciare la compagna di una vita e affidarle un saluto per nostro figlio che è tutta la nostra vita e dirle ciò che hai pensato di notte, tirando le somme. Abbiamo tutto in comune, i ricordi anzitutto, ma anche i tre soldi che ti servirebbero nel caso che… Se in banca dovessero tirarla per le lunghe, meglio che sappia tutto per bene. Il poco che ho è tuo. Penserai poi tu a mettere assieme i nostri poveri risparmi per il ragazzo il giorno che verrà… Il resto lo sai e non occorre che te lo dica, perché sono un guerriero, non un robot e finisce che mi commuovo.
Ti mandano via, ma non sono solo. Tra i sofferenti la solidarietà nasce subito e l’animo si solleva. Che fai? mi chiede mentre scrivo un muratore, che si rivela compagno di quelli veri. Mi occupo di Storia. Si accosta così l’altro compagno di stanza, desideroso di parlare. Racconto, metto assieme storie lontane e la nostra storia. Si ferma anche qualche infermiera e si forma una piccola comunità e quando si fa sera ti accorgi che il giorno più difficile, quello dell’attesa, se n’è andato veloce e a domani abbiamo pensato solo per qualche momento.
L’intervento non è stato facile, la seconda notte è stata difficile, pareva che l’alba non dovesse spuntare, ma non sei stato solo. Due, tre volte, a turno ci siamo chiesti come andavano le cose e se occorreva un aiuto. Attente e umane sono state le infermiere, pronte ad aiutarci. Io sono diventato il professore, ma ancora una volta c’è stato uno scambio e ho imparato tante cose delle condizioni di lavoro in una clinica.
Nunc est bibendo, nunc pulsando pede… E’ il momento di bere e di ballare, mi sono detto. Tra fasce, cerotti e garza insanguinata, s’è vista una grande carica di umanità ed è diventato chiaro quale abisso oggi separi chi governa da chi è governato.
Non so quando accadrà – e certo non lo vedrò – ma abbiamo tutto ciò che serve per riprenderci quello che ci stanno togliendo.
Torno a casa con mia moglie. Bene non va e sarà quel che sarà, ma mi conforta l’idea che non tutto è perduto.

Adele Bei


Adele Bei Nasce a Cantiano, paesino nei monti delle Marche, il 4 maggio 1904 dal boscaiolo Davide e da Angela Broccoli. Terza di undici figli in un famiglia in cui la politica è di casa, si forma presto una coscienza di classe che la indice e vivere attivamente l’esperienza del PCdI, dell’antifascismo clandestino, della Resistenza e con la nascita della Repubblica, quella dei partiti e del sindacato.
Nel 1920 Domenico Ciufoli, uno dei fondatori del PCdI, l’avvicina ai comunisti. I due condividono  un ideale di libertà e giustizia sociale che li spinge a lottare contro il fascismo per costruire un Paese giusto e democratico e nel 1922 si sposano. Alla fine del 1923, costretti a lasciare l’Italia, i due si rifugiano in Belgio, poi nel Lussemburgo e infine in Francia, a Parigi, dove nascono i figli Ferrero e Angela. Per mantenere i contatti con i compagni rimasti nel Paese, Adele compie numerosi viaggi clandestini, finché nel 1933 è arrestata a Roma. Processata dal Tribunale Speciale, ai giudici che pensano di far leva sui suoi sentimenti di madre, promettendo di farle rivedere i figli lasciati a Parigi in cambio della denuncia dei compagni, risponde con un rifiuto che le costa una condanna a 18 anni di carcere come antifascista socialmente pericolosa: “Non pensate alla mia famiglia, – afferma – […] pensate invece ai milioni di bambini che, per colpa vostra, stanno soffrendo la fame in Italia”. Dopo otto anni di prigione, è condotta a Ventotene, dove condivide con Di Vittorio, Scoccimarro,  Terracini e Secchia riflessioni e progetti per il futuro del Paese.
Nel 1943, con la caduta del fascismo torna libera, si stabilisce a Roma, sfugge a un nuovo arresto e partecipa alla resistenza. L’esperienza la rende una guida ricca di umanità, che organizza i “Gruppi della difesa delle donne” e assalti ai forni delle donne romane, che a volte terminano con la morte di numerose manifestanti. Adele riesce così a coinvolgere giovani donne che, tra rischi e miserie della vita quotidiana, diventano padrone di loro stesse.
Dal 1944 il Partito la manda in territori del Sud e lei non delude. Partecipa all’occupazione delle terre in Lucania e Calabria e a Catanzaro, nonostante l’incomprensione per il lavoro femminile, riesce a convincere i compagni ad appoggiarla, portando le iscritte da 15 a 60. Le qualità umane emergono anche dalle motivazioni per cui riceve il grado di capitano e la croce di guerra al valor militare: “Nel suo compito di dirigente delle formazioni femminili fu valido ausilio ai combattenti, fiancheggiandoli efficacemente nella lotta contro l’oppressione ed accorrendo personalmente là ove fosse necessaria la sua presenza incitatrice senza badare a rischi e pericoli”.
Subito dopo la guerra, Adele diventa prima responsabile della Commissione femminile nazionale della CGIL e poi componente della Consulta nazionale, un’assemblea provvisoria che definisce le regole di elezione della Costituente. Il 2 giugno 1946 è eletta all’Assemblea Costituente, assieme ad altre 20 donne che contribuiscono alla scrittura di una Costituzione, che fa dell’uguaglianza e del rispetto della diversità tra donne e uomini uno valori fondativi della Repubblica. In particolare lavora nella Terza commissione per l’esame dei disegni di legge e si batte per la pari dignità delle donne nella responsabilità politica e nella crescita sociale del Paese.
Nel primo congresso della CGIL, tenuto a Firenze nel giugno 1947, rifiuta la proposta dal sindacato, che fissa per le donne un salario pari al 70% di quello degli uomini – i fascisti l’avevano fissato al 50% – e presenta la Carta della lavoratrice che a parità di lavoro chiede la stessa paga degli uomini.
Senatrice del PCI nel 1948 e deputata nel 1953 e nel 1958, Adele Bei si occupa anzitutto della condizione dei lavoratori, della loro vita in fabbrica, della loro tutela per la vecchiaia.
Dal 1952 al 1960 è Segretaria del sindacato delle tabacchine e riesce a dare a quella carica il valore di una reale rappresentanza. Quando riceve quell’incarico, il contratto nazionale delle lavoratrici spesso non è applicato, i salari sono molto bassi e il sindacato è ancora assente in molti territori. Adele Bei affronta la situazione con coraggio e determinazione, ponendosi obiettivi molto chiari: entrare nelle fabbriche dov’è possibile e dove non è possibile creare i presupposti per entrarci. Si tratta di individuare anzitutto le vecchie dirigenti sindacali iscritte ai partiti di sinistra, avvicinarle fuori dai luoghi di lavoro, prepararle e creare con loro le strutture sindacali. Occorre cambiare il nome stesso del Sindacato. Il vecchio “Sindacato Nazionale dei Lavoratori delle foglie di tabacco” non corrisponde infatti alla realtà lavorativa. Nelle manifatture dei tabacchi lavorano soprattutto donne. Nasce così il “Sindacato nazionale tabacchine” che, in termini di sesso e valorizzazione del lavoro femminile, risponde alla realtà che il sindacato intende rappresentare.
Per la Bei questo lavoro è necessario, ma non sufficiente. Per creare un sindacato forte è necessario che quando pensa alle sigarette, la gente non ricordi solo il buon gusto del tabacco, ma anzitutto le difficoltà che le operaie affrontano, le loro condizioni di vita e di lavoro. Adele si crea così dei nemici tra i quadri sindacali, ma conquista la stima e l’affetto delle tabacchine che si sentono considerate e valorizzate non solo come lavoratrici, ma come persone e donne nei luoghi di lavoro. Nel 1957 ottiene aumenti di salario e misure previdenziali simili a quelli dei maschi.
Di lì a qualche anno, al congresso del 1960, non è rieletta e non rientra negli organismi dirigenti. Paga così la sua scelta di assumere decisioni in autonomia, senza dipendere da gerarchie interne e interessi di partito. Una scelta che coglie precocemente le contraddizioni del rapporto tra sindacato e partito, tra organizzazione centralizzata e istanze di partecipazione e autonomia della base. Non è un caso se la sua mancata rielezione corrisponda alla progressiva perdita di autonomia del sindacato delle tabacchine, che prima confluisce nella federazione dei lavoratori dell’industria alimentare, aderente alla CGIL, poi nella federazione dei lavoratori alimentaristi, del tabacco e dello zucchero.
Con la fine dell’esperienza sindacale parlamentare Adele Bei non si allontana dalle lavoratrici e si batte per il miglioramento della condizione carceraria femminile. Nel 1972 chiude la sua carriera politica diventando consigliera nazionale dell’associazione dei perseguitati politici antifascisti. Muore a Roma il 15 ottobre 1976. E’ stata un esempio e non a caso molte delle donne che l’hanno conosciuta entreranno nel sindacato come militanti e come dirigenti. Oggi, nel pieno di una terribile crisi di valori, la sua storia può insegnare molto a chi ha un ruolo politico e ai giovani, alle ragazze e ai ragazzi, che della crisi pagano il prezzo.

Ezio Murolo


Murolo Ezio, di Ferdinando e De Micco Antonietta, Caivano (NA) 9 aprile 1897. Giornalista. Perseguitato politico, Partigiano.

Nella descrizione della polizia fascista, ha i tratti inconfondibili di un sovversivo, «irriducibile avversario del regime», ma nella coscienza collettiva Ezio Murolo è poco più che un nome in un elenco. Sottufficiale degli Arditi, combatte la «grande guerra» in prima linea, poi si lascia coinvolgere nell’impresa di Fiume, diventando aiutante di battaglia di Gabriele D’Annunzio. E’ il 12 settembre 1919 quando il «poeta-soldato», entra nella città istriana affermando che «Fiume è oggi il segno della libertà»; la città, invasa da collettivisti, futuristi, anarchici individualisti e nazionalisti, lo accoglie festeggiando. Murolo che ha solo 22 anni, quattro dei quali trascorsi in trincea, gli ha creduto ed è con lui. E’ significativo, però, che se il poeta lo incanta, perché inizialmente, dopo la traumatica esperienza della guerra, sembra incarnare il mondo nuovo che tanti giovani sognano, Murolo non si fida del duce della «rivoluzione fascista». Al combattente non sfuggono, infatti, l’opportunismo e la vocazione autoritaria che Mussolini nasconde dietro un’ormai grottesca maschera socialista.
Non stupisce quindi se, sin dal 1921, Murolo, dirigente regionale dell’Associazione Nazionale ex Arditi d’Italia, si adoperi per dar vita al suo interno a un’opposizione, che contribuisce alla nascita degli Arditi del Popolo, gruppi armati nati per contrastare lo squadrismo fascista.
Un’esperienza significativa che, però, non lo induce a riflettere sulla natura reale dell’«Unione spirituale dannunziana», sicché dopo l’omicidio di Matteotti, quando Mussolini è a un passo dal crollo, spera ancora in D’Annunzio, al quale il 3 settembre 1924 scrive con toni quasi mistici:

«Comandante, […] gli italiani […] attendono la vostra parola per liberare dalla tirannia questa povera Italia che oggi è come nave che nella tempesta non ha timone. Gli arditi vostri vi attendono, gli italiani guardano voi.
Il fedelissimo Ezio Murolo».

E’ il linguaggio di un interventista che ha creduto all’inganno della «guerra per la democrazia» e si trova di fronte a una scelta: sostenere un’avventura autoritaria o una «rivoluzione da operetta» che vive di gesti sensazionali e asseconda il senso retorico e melodrammatico degli italiani. Temerario, pronto a metter mano alle armi per realizzare il sogno di un mondo nuovo, come tanti giovani tornati dal fronte, Murolo, segue D’Annunzio finché non gli riesce impossibile ingannare se stesso; è il momento in cui, abbandonato il “poeta soldato”, gli opportunisti, i violenti e chi ha privilegi da difendere, seguono il duce; gli altri – una minoranza di cui fa parte Murolo – si uniscono sotto la bandiera antifascista.
Il percorso seguito da Murolo, però, non si spiega, senza ricordare il clima sprezzante che conduce alla crisi dell’intervento, quando gli intellettuali attaccano l’«Italietta» in nome della guerra come “igiene del mondo”, del battesimo del sangue e della bella morte. Dietro ci sono le banche, gli appetiti dell’alta borghesia, che, rafforzata dalla pace sociale assicurata da Giolitti e Turati e dal riformismo liberal-socialista, reclama la sua parte di bottino nell’urto tra imperialismi. E’ un clima di reazione, nel quale, però, si vedono operai difendere i futuristi aggrediti dalla piccola nobiltà e dai giovani piccolo borghesi, perché, annota Gramsci, nel futurismo, che pure non ha mai formulato un’ideologia rivoluzionaria favorevole alle classi subalterne, vedono istintivamente un no opposto alla mummificata cultura accademica, lontanissima dalle classi popolari. E’ vero, Giovanni Papini finirà poi nell’Olimpo degli intellettuali fascisti, ma è vero anche che nel 1913, quando «Lacerba» attacca «la bestialità dominante» e se la prende con tutti, studenti sobillati dai professori, borghesi aristocratici, clericali, liberali, giornalisti, poliziotti e «beceri presi a nolo» e guarda ai giovani operai come ad alleati, crea un tale scompiglio, che su una tiratura di ventimila copie, i quattro quinti sono acquistati proprio da operai».
A questo mondo, a queste alleanze spurie, che una ragion d’essere in fondo ce l’hanno, conducono la figura di Ezio Murolo e il suo antifascismo estraneo a logiche classiste. E’ l’Italia liberale che si avvia al tramonto, scossa dalla dura contestazione del pacifismo dei popolari, del potere dei notabili e del’internazionalismo dei socialisti, che nega l’efficacia rivoluzionaria della guerra. Il dopoguerra, la resa dei conti tra squadristi, nazionalisti e dannunziani e la sanguinosa vittoria del fascismo sui lavoratori, chiariranno le posizioni. E’ nel corso della crisi materiale e morale del dopoguerra che uomini come Ezio Murolo incrociano personaggi ambigui come D’Annunzio e seguono la sua via, pensando che occupare Fiume significhi accelerare un processo di rinnovamento.
A mettere fuori gioco chi ha creduto nella Carta del Quarnaro e nella «Repubblica Sindacale» di Fiume è Mussolini che liquida D’Annunzio con parole taglienti: «Può il fascismo trovare le sue tavole negli statuti della reggenza del Quarnaro? […]  No. D’Annunzio è un uomo di genio, è l’uomo delle ore eccezionali, non è l’uomo della politica quotidiana». Per Murolo, invece, gli Statuti del Quarnaro rappresentano democrazia e diritti e non si può consentire che Mussolini li mandi al macero per ridurre gli ex combattenti a braccio armato della reazione, a boia dei lavoratori per conto dei padroni. L’antifascismo di Ezio Murolo non nasce dal conflitto di classe ed è legato  soprattutto alla crisi d’identità, al confuso rivoluzionarismo, al travaglio e all’evoluzione politica che agitano i giovani borghesi tornati dal fronte. E’ un antifascismo certamente minoritario, che non milita in un partito politico, non può contare sulla forza dell’organizzazione e sulla continuità d’azione dei comunisti, né sulla forte convinzione ideologica e sulla sperimentata pratica di militanza degli anarchici, ma ha una connotazione definita: è l’antifascismo liberale, in un primo momento torpido e confuso, di quanti – non sono molti ma esistono – gelosi della propria libertà, rifiutano imposizioni e prepotenze di «sciarpe littorie», squadristi «antemarcia» e buffoni in camicia nera.
Nel 1924, quando il disimpegno di D’Annunzio non consente illusioni, Murolo diventa giornalista del «Mondo», si avvicina ad Amendola, capo dell’opposizione costituzionale al fascismo, frequenta Roberto Bracco e la sede dell’«Italia Libera», cerca di avvicinare ai partiti d’opposizione gli ex arditi locali e prepara dimostrazioni di piazza. A giugno, sfuggito all’arresto dopo violenti scontri con i fascisti, sparisce e riappare il 5 novembre, durante i gravi incidenti in cui è gravemente ferito un fascista.
Quando il regime si afferma, molti degli oppositori si fanno da parte e si chiudono in un silenzio che non è consenso, anche quando, per tirare avanti, accettano compromessi e tessere. Molti – è il caso di Murolo – cercano così di mimetizzarsi. L’impressione è che si siano adattati allo stato di fatto o addirittura «inquadrati», accettando le direttive del governo nazionale. In realtà, si muovono con cautela, nell’ombra, resistono come possono ma, quando il fascismo vacilla, si materializzano dal nulla e danno il loro contributo alla sua liquidazione.
Quando la fine di Matteotti sembra chiudere l’avventura di Mussolini, Murolo intuisce che la paralisi dell’Aventino dà respiro al regime e agisce con risolutezza. l’orbita dei partiti d’opposizione, entra nell’«Italia Libera», stringe rapporti col generale Capello e collabora con Giovanni Amendola. Benché sottoposto a stretta sorveglianza e a frequenti fermi e perquisizioni, diventa un riferimento per gli antifascisti liberali e democratici che a Napoli continuano a resistere e organizza manifestazioni di piazza r un’attiva propaganda, distinguendosi nei sanguinosi scontri con gli squadristi. Il 17 agosto 1924, nel pieno della crisi per l’omicidio Matteotti, quando a Napoli gli squadristi attaccano un comizio, facendo morti e feriti, la polizia politica lo segnala tra i protagonisti della risposta antifascista. Ezio Murolo, si legge in un rapporto, «già aiutante di battaglia e legionario fiumano», prima prese parte con altri ex Arditi agli incidenti verificatisi in città, poi riuscì a sottrarsi alle ricerche.
A lui si deve in gran parte il lavoro politico e organizzativo che il 4 novembre 1924 sfocia in una grande manifestazione, promossa dai combattenti con l’adesione di tutte le opposizioni. In piazza, al grido di «Italia libera! A Roma! A Roma! Migliaia di manifestanti invitano Amendola a incalzare il regime. Il deputato liberale indugia e ormai non c’é tempo. Il 22 febbraio 1925, prima che le «leggi fascistissime» rendano l’Italia una enorme galera, un’ultima disperata protesta: Ezio Murolo e antifascisti noti e sempre più isolati, studenti, operai, ex combattenti, soci del circolo repubblicano intitolato a Mazzini e militanti di «Italia Libera», sorprendono la polizia, riempiono di volantini fabbriche e officine, le Poste, la Stazione Ferroviaria, Castelcapuano, sede del Tribunale e fanno circolare il «memoriale Filippelli», la lettera inviata il 14 giugno 1924 da Cesare Rossi a Mussolini prima di costituirsi, e un appello agli italiani nel nome di Giacomo Matteotti. Lo stesso appello che quella sera, lanciato da alcuni operai socialisti e da un gruppo di universitari repubblicani piove sul pubblico dai loggioni del Politeama, del Fiorentini e di altri teatri cittadini:

«Italiani, da circa trenta mesi la vita della Nazione é terrorizzata dallo squadrismo […]. Si violano i domicili privati, si arrestano i cittadini incolpevoli. Si perquisiscono senza mandato e senza ragione le case e gli uffici. Si sequestrano e si sopprimono i giornali. Ogni riunione è vietata. Ogni diritto di associazione è soppresso. Le guarentigie fondamentali del patto giurato tra Re e Popolo sono distrutte […]. Tutto questo perché una serie di reati comuni messi in luce dall`orrendo assassinio di Matteotti, possano passare nella impunità e nel silenzio e perché possa tentarsi il salvataggio dei maggiori responsabili. Indubbiamente il popolo italiano non sopporterà questo disonore! […] Occorre che ciascuno come individuo reagisca e si prepari alla resistenza civile! Si faccia il vuoto intorno ai fascisti, al fascismo e alle sue organizzazioni armate! Sia con cura evitato ogni contatto! Non si compri merce nei negozi fascisti o filo-fascisti! […] Chiudete il vostro uscio al passaggio d’un corteo fascista e ritraetevi dai balconi! I nostri mutilati vilipesi e percossi lo comandano, i nostri combattenti, contro cui si sferra l’ultima offensiva, ci chiedono difesa e aiuto! […] Nel nome di Dio, della Libertà dell’Italia, tutto il popolo si prepari a trarsi in salvamento».

Dopo quest’ultima protesta pubblica, Murolo assume una posizione prudente, si defila, sfugge alla vigilanza e ripara in Francia. Giunto a Parigi nell’estate del 1926, ci resta due anni, facendosi notare per i rapporti con gli immancabili «elementi pericolosi» e la propaganda antifascista. Il 9 giugno 1928 prova a rientrare in Italia, ma a Bardonecchia è arrestato con l’accusa di aver organizzato un attentato a Mussolini, In assenza di prove concrete, l’ex ardito se la cava con l’ammonizione.
Cominciano così anni di sorveglianza soffocante. Murolo mostra disinteresse per la politica, ma in realtà frequenta antifascisti ed è così abile, che la polizia non trova «motivi di rilievo» per colpirlo. Il 13 marzo 1937, a Nizza «Le cri des Travailleurs des Alpes Maritimes», un giornale comunista, pubblica l’esito di una sottoscrizione a favore degli italiani che combattono in Spagna contro i fascisti: 170 franchi, provenienti da un paese dell’Italia meridionale, raccolti da un tale «Luciano». Come scrive il giornale francese, «più che un valore finanziario», per i rischi che i sottoscrittori hanno voluto correre «dando questa prova tangibile di opposizione al fascismo», il gesto ha un alto contenuto simbolico ed etico.
Le indagini, orientate probabilmente dalla «soffiata» di un confidente, durano poco e consentono a Michelangelo Di Stefano, Direttore della Polizia politica, di scrivere a Napoli che i 170 franchi sono stati raccolti da Ezio Murolo, che per corrispondere con i comunisti residenti all`estero, ricorre allo pseudonimo di «Luciano». Chi c’è dietro Murolo? Gruppi organizzati? I temuti comunisti? L’uomo ha agito da solo o ha contatti in Francia? Per scovare eventuali complici, Di Stefano vorrebbe per «Luciano» una cauta, continua vigilanza, rafforzata da un controllo della corrispondenza. A Napoli, però, il  Questore, che teme la «pericolosità del soggetto» e «la difficoltà di esercitare una efficace vigilanza», convince Bocchini, capo della Polizia a far arrestare Murolo che è confinato a Tremiti.
Il mondo di Ezio Murolo, però, non è quello dei comunisti, ai quali probabilmente poi si avvicinerà, per giungere alla rottura sul tema cruciale dello stalinismo. Nella sua vita avventurosa, l’ex ardito ha stretto molteplici legami e non a caso in suo aiuto giunge un sacerdote: Pietro Tacchi Venturi, infaticabile tramite tra il Vaticano e Palazzo Venezia, che scrive di suo pugno a Bocchini. Se a tirare Murolo fuori dal confino sia stato l’intervento del suo autorevole patrono è difficile dire; sta di fatto, però, che grazie a una sanatoria, l’uomo si dichiara pentito e in occasione del Natale 1937 torna a casa. I suoi conti col regime però non sono chiusi. Benché sorvegliato – la polizia lo ritiene un riferimento per i fuorusciti – prima delle Quattro Giornate, Ezio Murolo forma un gruppo di combattenti e a lui, tra gli altri, si rivolge il comunista Ciro Picardi, quando anche gli uomini del PCI, si preparano allo scontro e prendono contatto con altri bande armate.
Ex sottufficiale degli arditi nella «grande guerra» e aiutante di campo di D’Annunzio a Fiume. Murolo possiede una notevole esperienza militare e non meraviglia, quindi, né che assuma un ruolo di comando nella lotta armata, né che sia decorato per il coraggio e l’abilità dimostrati. Più significativa è, invece, la prosecuzione della lotta, che dura fino all’aprile del 1944. La sua partecipazione alla guerra di liberazione, iniziata a Napoli con le Quattro Giornate è infatti l’epilogo naturale di una opposizione al fascismo che ha attraversato come un filo rosso un ventennio durante il quale, se è vero che la storia del Paese non è stata semplicemente la storia della lotta al fascismo, è altrettanto vero che sarebbe impossibile ricostruirla senza  tener conto del ruolo che l’antifascismo vi svolse. Un antifascismo dai mille volti, complesso e articolato, contro il quale nonostante la durezza della repressione, il regime urta costantemente, fino a quando, travolto dalla sua pochezza politica e dalla sua miseria morale, conduce il Paese a un disastro e si sgretola.
Subito dopo la resa e la fuga dei nazifascisti, Murolo prende contatto col tenente inglese Schirici e si arruola nei reparti che avrebbero dovuto costituire il nucleo di un esercito italiano schierato a fianco degli Alleati. Quando gli inglesi, che diffidano degli italiani, impediscono però temporaneamente la nascita del nuovo esercito, Murolo ha già superato le linee nemiche e sembra sparire nella furia della guerra. Riappare nell’aprile del 1944 sul massiccio del Matese, terra di partigiani e ribelli sin dai tempi della resistenza ai francesi di Murat. Dopo lunghe notti passate all’aperto nel gelo dei monti. l’hanno trovato e soccorso soldati Alleati; è stremato, febbricitante, ha la broncopolmonite e la tubercolosi. La sua guerra è finita, ma l’ha combattuta con determinazione tra i paracadutisti, ha compiuto coraggiose missioni a Verona e a Sanremo e ha guidato e «organizzato moltissime missioni importanti nelle linee tedesche per atti di sabotaggio e ricerche di prigionieri alleati».
Finita la guerra, riceve una medaglia d’argento, il grado di comandante di brigata partigiana ed è chiamato a far parte della Commissione ministeriale per il riconoscimento delle qualifiche dei partigiani. Nel 1946 rappresenta Napoli al congresso dell’ANPI di Firenze, poi, con il partigiano cattolico Gustavo Troisi, diventa membro del Comitato Esecutivo provinciale dell’ANPI. Nel 1949 è vice presidente della sezione napoletana dell’ANPI, poi scivola nell’ombra e sparisce.
Nel 1952, alla vigilia della morte di Stalin, nel clima che annuncia le scelte di Kruscev, una breve, ma significativa fiammata lo riporta alla ribalta: col fratello Tito e con i partigiani Vincenzo Saturno e Salvatore Finocchiaro è protagonista infatti di una temporanea scissione dell’ANPI di Napoli, da cui escono una cinquantina di soci che formano l’«Unione Partigiani e Patrioti Indipendenti». Il gruppo si professa apolitico, rifiuta le ingerenze dei partiti e intende «tutelare il patrimonio morale della Resistenza», ma fa riferimento ai deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani i quali, espulsi dal PCI per le critiche allo stalinismo e per la posizione assunta con Tito, costituiscono il «Movimento dei Lavoratori Italiani», diventato poi «Unione Socialista Italiana». Il gruppo rientra dopo meno di un anno, ma la polizia riferisce che la rottura è nata soprattutto in polemica col PCI, che, secondo Murolo, egemonizza il movimento.
Per quel che si sa, Ezio Murolo chiude così la sua esperienza politica e si fa da parte. Su questo «farsi da parte», però, sulle critiche rivolte ai partiti da militanti che, dopo la lotta al fascismo, stentano a inserirsi nella politica attiva, sul rapido predominio acquisito da un personale politico legato ai partiti più che alle masse, e sulle posizioni dei partiti, che, dalla collaborazione iniziale passarono alle polemiche e alle lotte di predominio, andrebbe fatta una riflessione. La farà una generazione di giovani studiosi. Ciò che qui val la pena di sottolineare è che la lunga storia di militanza di Ezio Murolo, una delle figure più significative dell’insurrezione, e la cultura politica originale e ricca di molteplici esperienze che egli porta nello scontro sono espressione di un mondo finora ignorato, che accende nuove luci sul volto politico delle Quattro Giornate, rivelando la natura politica e la sostanziale debolezza storica della tesi che identifica la Resistenza con il comunismo e il comunismo con il «gulag», per liquidare l’antifascismo. In realtà, gli schedari dei sovversivi dimostrano che, tra gli antifascisti presenti nella sommossa, ci sono combattenti che non sono comunisti e comunisti contrari al realismo politico del PCI e più in generale dei blocchi di potenze e delle formazioni politiche che ad essi ideologicamente e politicamente fecero capo; un realismo – anche su questo sarebbe utile riflettere – che ci regalò la pace armata della guerra fredda e i conflitti frontali che spaccarono la Resistenza nei maggiori paesi europei, primi fra tutti l’Italia e la Francia.



Armando Donadio, fu Vincenzo, Napoli 24.4.1912, Castelvolturno 3-2-1995.

Come accade a tanti combattenti, un inspiegabile silenzio circonda la figura del partigiano Armando Donadio, l’ennesimo «senzastoria» in un elenco di combattenti di cui nessuno si è mai seriamente occupato. Sottotenente di artiglieria a cavallo, richiamato alle armi e assegnato al contingente italiano in Libia, il Donadio proviene da una famiglia antifascista, ma approda al PCI solo con la tragedia della guerra, vissuta in prima linea ai confini meridionali dell’effimero Impero fascista, nell’Africa di «faccetta nera», delle deportazioni, dei gas, della pretesa «romanità» e delle prime leggi razziali. Una scelta maturata mentre la retorica fascista affoga nel canale di Sicilia assieme ai soldati in fuga da una guerra persa, aggrappati a natanti di fortuna, fatti a pezzi dai caccia Alleati e preceduti dalla propaganda angloamericana che, assieme alle bombe, lancia su Napoli migliaia di volantini che invitano alla rivolta le donne della città martoriata: «Donne di Napoli! Dove sono i vostri uomini che andarono in Africa? Da quanto tempo non avete loro notizie? Vi svelano che la metà delle navi vengono affondate? Madri di Napoli! […] Le vostre sorelle di Palermo, Genova, Brindisi, agiscono già. Spose di Napoli! Seguite il loro esempio. Fate la guardia alle navi […]. Nascondete l’equipaggiamento dei vostri amati soldati […]. Il mare significa la morte».
Dopo l’armistizio, quando l’esercito italiano si sbanda, Donadio è all’Aquila, dov’è di stanza  il 18° Reggimento di artiglieria, che abbandona solo il 13 settembre 1943, diretto a Napoli in abiti borghesi, dopo che il comandante ha messo in libertà il reparto. Durante il viaggio interminabile e pericoloso, l’ufficiale, attraversa con mezzi di fortuna paesi distrutti dai bombardamenti terroristici degli angloamericani e dagli ex alleati tedeschi, inferociti per l’armistizio. Di fronte al triste spettacolo del Paese in rovina, egli coglie così fino in fondo il significato profondo delle scelte compiute anni prima da Aristide, il fratello maggiore, anarchico e volontario nelle brigate internazionali durante la guerra di Spagna, che ha saputo cogliere subito, sin dall’inizio, con lucida intuizione, la minaccia mortale rappresentata dall’alleanza tra fascismo e nazismo e non ha atteso la guerra per prendere le armi.
Più si avvicina a Napoli, cauto e necessariamente lento, più il giovane sente crescere il disprezzo per i responsabili della tragedia e nonostante le diverse convinzioni politiche che lo dividono dal fratello, si rende conto che Aristide non solo ha visto giusto, ma ha capito che la salvezza ormai non è nella fuga: per tornare alla pace e sperare in un mondo più giusto, occorre combattere e sconfiggere i nazifascisti. Con queste convinzioni prosegue il suo viaggio verso Napoli, dove giunge il 28 settembre 1943. Al quadrivio di Secondigliano, alla periferia Nord della città, la situazione non consente dubbi. Ovunque ci sono soldati tedeschi armati fino ai denti. Per evitare le pattuglie naziste, e raggiungere il Vomero gli occorrono ore. Quando finalmente trova modo di entrare in contatto con Ciro Vasaturo, comandante di un pugno di combattenti, gli fa sapere che è pronto a battersi, poi si nasconde e aspetta che qualcuno venga ad aiutarlo. Attorno al suo nascondiglio i tedeschi hanno scatenato una feroce caccia all’uomo: «vecchi spinti a calci verso i camion in attesa dei ragazzi aggrappati alle madri in un ultimo tentativo di difesa». Raggiunto finalmente da Vasaturo Donadio si unisce ai combattenti di via Pigna, ma ha vissuto momenti così terribili, che dopo decenni, Vasaturo ricordando, pronuncerà ancora parole piene di orrore e disprezzo: «Vivessi mille anni, non potrò dimenticare la figura macilenta di un uomo ammalato che si alzò dal letto con in braccio […] suo figlio […]: quei mostri gli strapparono il piccolo dalle braccia, scaraventandolo di peso verso un angolo della casa, mentre tempestando il padre di colpi coi calci dei fucili lo portarono sanguinante fino al camion in attesa».
Per due giorni, il giovane ufficiale combatte accanitamente, con forte determinazione e senza un momento di esitazione. Le sue lontane discussioni politiche con il fratello Aristide, l’amara esperienza della guerra e una passione civile sempre più consapevole, che gli è cresciuta dentro durante l’interminabile viaggio tra l’Aquila e Napoli, tutto ci parla di una figura du partigiano inconciliabile con la rivolta degli scugnizzi e la città di plebe e tutto sembra condurre a momenti decisivi. L’ufficiale non può saperlo, ma quei due giorni di lotta che danno senso a una vita, diventeranno il momento in cui la sua storia personale prima gira pagina, poi, di fatto, si ferma. Ancora pochi mesi, infatti, ancora alcune scelte lucide e coraggiose, poi nulla tornerà più com’era.
Quando i tedeschi si arrendono e lasciano la città, per Donadio la liberazione di Napoli non è più il traguardo finale della sua lotta. L’ha visto con i suoi occhi e non ignorarlo: a nord di Napoli c’è l’inferno e non può più stare a guardare. Si presenta perciò in Piazza Carità, al Palazzo delle Assicurazioni, dove, grazie al Partito d’Azione e a Pasquale Schiano, sono appena sorti i «Gruppi Combattenti Italia, formazione Pavone». Esperto di esplosivi, è accolto  a braccia aperte e si arruola nei «nuclei sabotatori». Ha il tempo di definire obiettivi, registrare contatti, organizzarsi e il 19 ottobre è pronto ad attraversare le linee. Chi lo vede partire riferisce che mostra un «elevato spirito d’amor patrio» ed è animato da grande entusiasmo.
L’autunno del 1943 trova Armando Donadio impegnato in una lotta strenua, animata dal desiderio insopprimibile di libertà e di giustizia sociale. Le sue Quattro Giornate continuano per tre mesi che lo vedo agire con coraggio e determinazione. Lascia dietro di sé tracce di sabotaggi e rischi mortali, fino ai primi di gennaio del 1944, allorché, catturato dai nazisti e condotto ad Auschwitz, va incontro a un autentico calvario: gli interrogatori, il rifiuto di indicare basi e denunciare compagni, la tortura, il plotone di esecuzione e tre finte fucilazioni. E’ come morire tre volte e tornare tre volte a un orrore senza fine.
L’ufficiale difende il suo equilibrio psichico come e finché può: reagisce, tenta la fuga, è scoperto, ferito a una gamba e mai seriamente curato. Quando giunge, il crollo è inevitabile e terribile. A fine dicembre del 1944, quando è inviato finalmente a Spittal Drau, in Carinzia, allo Stammlager XVIII A/Z, dove un Lager-Lazarett, un piccolo ospedale da campo, accoglie  internati e prigionieri di guerra, è ormai tardi. Come scrive anni dopo Baldo Pirisi, un ufficiale medico internato che lo prende in cura, la sue condizioni di salute sono gravi. Presenta, infatti, «un processo osteomielitico all’arto inferiore destro, grave stato di deperimento organico con oligoemia, quadro neuropsichico contrassegnato da depressione con periodi di apatia e di vera anestesia affettiva alternati a crisi di allarme psicoastenico. La sintomatologia si era costituita nei mesi precedenti a seguito delle sevizie fisiche e morali cui il ten. Donadio era stato sottoposto nei vari campi di deportazione e disciplina (fra cui quello di Reichenau); essa persiste immutata fino al rimpatrio del ten. Donadio, avvenuto il 12 maggio 1945, unitamente ad altri internati ammalati, al centro ospedaliero di Udine».
Invalido a una gamba per il resto della vita e segnato nella psiche in maniera irreversibile, come accade a molti militari, è congedato, perché è stato partigiano. L’esercito italiano, di solito largo di decorazioni, gli riconoscerà il diritto a una magra pensione di guerra e aspetterà fino al 1987 per conferirgli «a titolo onorifico» quel grado di colonnello che gli ha rifiutato cinque anni prima. Inizia così il limbo del dopoguerra, con un licenziamento che costringe Donadio a cercare un lavoro. Da quel momento gli anni se ne vanno uno dietro l’altro, segnati dal disagio mentale, dalla salute sempre più vacillante, dalla precarietà e dalla ricerca di una tranquillità economica che non giungerà mai. La «nuova Italia», per la quale il valoroso partigiano si è battuto oltre il lite delle sue possibilità, non è quella che merita un vincitore e dal momento che fascisti e padroni sono tutti dov’erano, terminata la guerra il partigiano si sarà chiesto mille volte chi l’abbia vinta per davvero.
Lavoro ne troverà: un’esperienza in un’azienda zootecnica, poi la contabilità in una società della grande distribuzione. Donadio però è un comunista impegnato in un’attività sindacale come delegato nazionale e non se ne dimentica mai; nonostante le difficili condizioni di salute fisica e mentale, si dedica al suo compito con coraggio e passione e questo gli costa un nuovo licenziamento. Stavolta non si tratta dell’esercito, ma di un rappresaglia antisindacale. Tira avanti tra stenti e amarezza con dignità ma con una crescente fatica di vivere, fino al 1993, quando il costo dell’affitto diventa insostenibile e va a vivere a Castelvolturno, una periferia tra le più degradate del Casertano.
Quando infine si spegne, il 3 febbraio 1995, l’Italia democratica, per la quale ha rischiato più volte la vita, lo ha completamente dimenticato e sulla via del suo ultimo viaggio non ci sono né compagni, né bandiere. Il PCI si è già sciolto, le associazioni dei combattenti, l’ANPI e gli uomini delle Istituzioni sono assenti e l’on. Luciano Violante, comunista finché  è esistito il partito e Presidente della Camera dei Deputati, in perfetta coerenza con la tradizione della svolta di Salerno, dei Patti del Laterano inseriti nella Costituzione e dell’amnistia ai fascisti, si prepara a proporre una nuova lettura del fascismo repubblichino, esortando gli italiani a «capire i ragazzi di Salò ». Il 16 giugno 2010, quindi anni dopo la sua morte, la Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Napoli rifiuta la richiesta di intitolare una strada della città ad Armando Donadio, perché «ritiene che a tutti i partigiani il Comune di Napoli abbia già tributato onori collettivi con i numerosi monumenti ad essi dedicati ed ubicati nelle diverse aree cittadine».

Per i riferimenti archivistici e bibliografici, Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2017.


Lo so che mi vorreste
ipocrita, conformista
e pronto a perdonare,
ma i miei auguri hanno un tono diverso
e il mio dio non perdona.
Maledetti voi siate
che di dolore riempite la vita
di inermi e d’innocenti.


Voglio dedicare una poesia a chi dopo il mio articolo sull’astensionismo ha esibito l’immenso patrimonio di stupidaggini alla moda sul voto e sul diritto di non votare, che nessuno, meno che mai chi scrive, si permette di negare. A me pare che una scelta giusta in un momento storico possa essere sbagliatin un momento diverso. Nulla di strano se me ne vado coi sandali sulle spiagge dei Caraibi. Se i sandali li metto al Polo Nord, è certo che in quattro e quattr’otto mi taglieranno i piedi congelati. Ognuno è padrone di scegliere di che morte morire, ma per favore, non fate i comunisti se non capite che i piedi di una società non sono i vostri. Se di quello che capita intorno a voi non v’interessa nulla, pazienza, però, signore e signori indifferenti non citate Gramsci a ogni piè sospinto.
Quello che ci divide è la maniera di leggere il presente. C’è chi legge e si ferma alla punta del suo naso e chi prova a capire il presente per decidere cosa fare per il futuro. Se non volete dar retta a me non c’è problema. Io posso solo consigliarvi di leggere la bellissima poesia che segue. Per anni ho pensato fosse di Brecht, il maestro della lode al dubbio e invece è stata scritta – udite!, udite! – dal teologo Emil Gustav Friedrich Martin Niemoeller, pastore protestante e nemico del nazismo. Non si tratta di un poeta famoso come Brecht, ma in questo caso non ha davvero nulla da invidiargli. Non era comunista. Che facciamo, lo mettiamo tra i socialfascisti, come fece Togliatti coi Rosselli? Teniamo presente però un fatto non propriamente marginale: Togliatti morì di morte naturale e i Rosselli invece si fecero assassinare dal fascisti.
Il professor Aragno è un rompiscatole? Sì, però ragiona con la sua testa, non serve padroni, non cerca spazi in congreghe e parrocchie e merita rispetto. Molto più rispetto delle pecorelle rosse e dei pecoroni neri.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Il voto delle europee segnerà il futuro del Sud e di Napoli in particolare. Da quel risultato dipende infatti la forza con cui Meloni potrà attaccare la Costituzione, a partire dall’Autonomia Differenziata, possibile punto di non ritorno per la nostra città. Mai come a giugno perciò la scelta di astenersi sarebbe suicida: non è vero infatti che le forze in campo sono uguali fra loro e che il voto non cambia nulla. E’ il contrario: la forza dell’assalto alla Costituzione dipende dalla nostra partecipazione. Se ci asterremo, per il Sud, per Napoli anzitutto, sarà una tragedia. Prima di decidere, quindi, ricordiamo che la Costituzione è un autentico scudo per i più deboli.
Quando il 25 giugno 1944 il decreto legge 151 parla di «un’Assemblea Costituente» che scriva «la nuova Costituzione dello Stato», il Paese è diviso, ma nei territori liberi dai nazifascisti governa Ivanoe Bonomi, un socialista che nel 1925, rifiutato il fascismo, si è ritirato a vita privata. Dei 20 ministri, 12 sono perseguitati politici: i cattolici Gronchi, Ruini e De Gasperi; i comunisti Togliatti e Gullo; gli azionisti Cianca e De Ruggiero, il socialdemocratico Saragat; il socialista Mancini e i liberali Croce e Sforza. Certo, c’è la guerra partigiana, ma la patria non muore, come pensano Galli Della Loggia e la destra che non si riconosce nella Resistenza. Sono i giorni in cui, ricorda Arfè, l’antifascismo offre al Paese ideali di libertà, eguaglianza sociale, solidarietà e pace tra i popoli; valori vivi nelle coscienze che consentono ai Costituenti di disegnare una società incompatibile con quella fascista, che oggi riemerge col mito del capo, la violenza motore della storia e la gerarchia tra generi, classi, razze e religioni.
Donne e uomini della Costituente traducono dati storici in scienza giuridica e la Costituzione nasce così com’è, perché è parte di un processo giunto a compimento, che ha radici nella società. Oggi si vuole cambiarla, ma una Costituzione non nasce «a freddo»: conclude la conquista di un futuro e fa sì che un Paese volti pagina. Per Vico la Storia è un succedersi di cicli: dopo l’età «civile», torna quella «primitiva». Ed è vero: nata da atroci esperienze collettive, la Costituzione apre la nostra età «civile»; alterandone l’equilibrio, come vuole la destra, torneremo all’età «primitiva».
Prima di essere fucilato, Giacomo Ulivi, partigiano diciannovenne, scrive parole che parlano alle coscienze e invitano al voto chi si astiene: «No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere». E’ per “volerne sapere” che nel 1945 nascono la Consulta Nazionale e il Ministero della Costituzione: per consentire a elettori e partiti di prepararsi all’evento. Quella preparazione oggi non c’è e manca la coscienza di un popolo che ha pagato a caro prezzo i loschi interessi dei guerrafondai, delle donne anzitutto, che votano per la prima volta e sentono nascere una speranza.
L’omicidio Matteotti, l’incendio del Parlamento tedesco, la guerra di Spagna, la battaglia feroce nei cieli di Londra, la tragedia di Stalingrado, Auschwitz, Hiroshima, la guerra in casa, l’occupazione, la Resistenza, hanno scosso anche chi non è attrezzato culturalmente e la vita vissuta dà senso a parole cancellate dal regime: libertà, solidarietà, pace, democrazia, giustizia sociale. Come scrive Arfé, la resistenza è il crogiuolo che crea «una trama unitaria, intessuta col filo dell’antifascismo e dell’antinazismo». Dov’è oggi questo crogiuolo?  
Nella Costituente tutti cercano risposta a una domanda: come si dà vita a un Paese senza guerra e dittatori, in cui ognuno è un «sovrano»? L’Assemblea trova la risposta perché possiede scienza giuridica e coscienza storica: occorre un Paese fondato sulla dignità dei cittadini. E poiché il solo possibile sovrano di un tale Paese è il popolo, si parte da qui: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…».
Piero Calamandrei, augurandole lunga vita, affida la Costituzione ai posteri, certo che «sentiranno più di noi, tra un secolo, che […] è nata veramente una nuova storia». Ai posteri, i quali, scrive, crederanno che «seduti su questi banchi […] sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, […], da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio da Anna Maria Enriques e di Tina Lorenzoni nelle quali l’eroismo è giunto alle soglie della santità. […] Morti […] con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il lavoro che occorreva per restituire all’Italia la libertà e la dignità».
Dopo appena 76 anni l’estrema destra intende stravolgere quel lavoro. Glielo consentiremo?

la Repubblica, Napoli, 26 marzo 2024


I nostri analisti hanno cantato in coro: le elezioni in Russia sono una farsa e noi non riconosciamo il presidente dittatore Putin.
Chi ancora riesce ad ascoltare questi signori pagati fior di quattrini per cantare tutti la stessa canzone, non ha potuto fare a meno di convenire: con i dittatori, noi, civilissimi occidentali, non possiamo avere a che fare e non possiamo riconoscere le loro irregolari elezioni.
Un piccolo corto circuito c’è stato poco dopo, quando le stesse aquile della nostra informazione hanno esaltato quei leader occidentali accorsi in Egitto a firmare accordi con il dittatore egiziano che ci ha ammazzato Regeni e le elezioni preferisce abolirle piuttosto che truccarle, come fa il dittatore ucraino che ci fa la lezione sulla democrazia.
Chi prova ancora disperatamente a seguire i nostri impeccabili analisti, un po’ sconcertato, non ha capito se noi non vogliamo avere a che fare con i dittatori o li abbiamo divisi in due gruppi: quello dei macellai che ci fanno comodo e quello dei macellai che ci danno invece fastidio.
Notato lo sconcerto, i nostri strapagati analisti ci hanno spiegato che la coerenza non è una qualità positiva in assoluto. Si può essere coerenti anche quando si dice tutto e il contrario di tutto. Finora il principale esponente di questa vasta e indecorosa corrente di coerenti incoerenti è stato senza ombra di dubbio il sedicente storico Paolo Mieli, sedicente allievo di Renzo De Felice, il quale però – testimonianza diretta e personale – lo riteneva un asino matricolato.
A insidiargli il primato della coerenza incoerente, c’è da qualche giorno Andrea Margelletti che dal 2004 è fondatore e presidente di un non meglio identificato Centro Studi Internazionali, un think tank che naturalmente si professa indipendente. Dopo l’attentato di Mosca, infatti, con insuperabile faccia tosta, il Margelletti invitato come esperto di coerenza incoerente dall’ineffabile TG2, non ci ha pensato due volte ad attribuire la colpa della tragedia all’inefficienza dei servizi segreti di Putin. Perché? Perché, fingendosi serio, il direttore e fondatore del CeSI ha affermato che in una dittatura gli uomini dei Servizi, avendo paura di dire al capo come stanno davvero le cose, sono geneticamente inefficienti. Senza rendersene conto, l’astro nascente della coerenza incoerente ha così affermato che negli Stati Uniti esiste da tempo una feroce dittatura. Come spigare altrimenti l’11 settembre e la tragedia della Torri Gemelle?


Nasce a Torino, il 6 gennaio 1895, da Moisè,  direttore della sartoria Bellom e da Consolina Segre, in una famiglia ebrea agiata e di tradizioni socialiste, a quattordici anni, dopo la morte prematura del padre, trova lavoro nella sartoria Sacerdote e, consapevole dei propri diritti, prende subito parte attiva agli scioperi della categoria. A 16 anni è già iscritta alla Camera del lavoro, tre anni dopo è eletta segretaria del circolo femminile «La Difesa», e a vent’anni, nel 1915 si iscrive al PSI. Con l’ingresso dell’Italia nella “Grande guerra” e la partenza degli uomini per il fronte, è assunta come impiegata prima dalla Banca Commerciale e poi dall’Alleanza Cooperativa Torinese. Nel 1917, a 22 anni, quando i tumulti per il pane e contro la guerra la vedono in prima linea, assieme al fratello Mario trasforma la casa della famiglia, nel popolare Borgo San Paolo in un luogo di dibattito che  unisce in un rapporto politico e amicale, le famiglie del quartiere. E’ così attiva e preparata che in  quello stesso anno entra a far parte del Comitato Regionale Femminile del PSI e della Commissione Esecutiva della sezione socialista.
Nel 1920, trovato lavoro alla Fiat, ha un ruolo di primo piano nell’occupazione delle fabbriche e di lì a poco, nel 1921 partecipa alla fondazione del PCd’I a Torino. Subito dopo parte per Mosca, dove il 14 giugno rappresenta le comuniste italiane alla II Conferenza femminile internazionale e subito dopo partecipa al III Congresso dell’Internazionale comunista.
Nel 1922 entra nella redazione di “Compagna”, il quindicinale femminile del PCd’I, e prende parte alla Conferenza delle donne del partito. Con Camilla Ravera, l’anno seguente diventa collaboratrice di Palmiro Togliatti, che a Milano ha assunto un ruolo di primo piano nel partito, e cura i contatti con Roma. Nel 1924 sposa Togliatti, si stabilisce con lui a Roma e riceve l’incarico di organizzare la scuola nazionale per corrispondenza del partito, diretta da Antonio Gramsci. Nel 1925 nasce il figlio Aldo.
All’inizio del 1926 è a Mosca con Togliatti e vive col marito e il figlio in una camera dell’Hotel Lux, come quasi tutti i dirigenti comunisti stranieri. Nel gennaio del 1927 è a Parigi, dov’è nato un centro estero dell’Internazionale Comunista e dove contribuisce alla nascita del periodico “Lo Stato operaio”. Di lì a qualche anno, quando il partito riprende la sua attività clandestina in Italia, riceve l’incarico di mantenere i contatti con i compagni che vivono in Italia e di portare materiale di propaganda nel Paese. Benché ricercata, compie perciò frequenti e pericolose missioni in Italia e riesce sempre a sfuggire alla caccia della polizia.
Nel 1934 torna a Mosca con Togliatti, assume un nome in codice e su 105 italiani è ammessa con soli 10 compagni a frequentare la Scuola leninista e fa così un’esperienza che influirà molto sulla sua formazione. Con lo scoppio della guerra civile, come tutti gli italiani che hanno frequentato la scuola leninista, parte per la Spagna con Togliatti, ma la guerra le impedisce di portare il figlio Aldo con sé e il ragazzo, è costretta a lasciare il figlio in Russia nell’Istituto Ivanovo; un distacco che per il bambino sarà traumatico. In Spagna lotta per la repubblica e torna a Mosca solo pochi giorni prima della sconfitta repubblicana. Nella capitale dell’URSS si occupa prima delle trasmissioni di Radio Mosca dirette alle donne, poi, dal 1941, si stabilisce a Kuibišev, dove entra a far parte della redazione di Radio Milano Libertà, che parla agli Italiani in nome dell’unità antifascista. Nel 1943 fa parte della redazione de “L’Alba”, un giornale scritto per i militari italiani prigionieri in Russia.
Nel 1944, quando torna in Italia con il marito, con il quale i rapporti sono diventati difficili, e si stabilisce inizialmente a Napoli; La Montagnana è affascinata dell’idea del cosiddetto “partito nuovo” e il suo impegno politico si intensifica. La lunga esperienza vissuta in URSS ne fa una dirigente ammirata e rispettata dalle compagne e dai compagni del PCI; sentimenti che si rafforzano con la pubblicazione dei Ricordi dell’Unione Sovietica, un opuscolo nel quale raccoglie articoli che esaltano il clima di grande solidarietà e democrazia che regna nel Paese dei Soviet. E’ così stimata, da essere incaricata di dirigere l’organizzazione femminile del partito che, secondo una vecchia idea che la Montagnana condivide con Togliatti e che è in realtà molto difficile da realizzare, si mostra aperta alle donne di tutti i partiti antifascista. Nell’autunno del 1944, assieme a Giuliana Nenni e a Marisa Rodano, la Montagnana, entusiasta dell’incarico ricevuto, invita la democristiana Angela Cingolani a rappresentare le donne cattoliche nell’UDI (Unione donne italiane).
L’invito è accolto con un rifiuto che non scoraggia le dirigenti comuniste e socialiste dell’UDI e dopo la Liberazione la Montagnana è in prima linea nella battaglia per i diritti delle donne. Molto Significativo, in questo senso, è ciò che scrive il 9 maggio 1945 in un articolo intitolato “La donna nella lotta antifascista”, pubblicato da ”L’Unità”: «Largo dunque fin da oggi alle donne nei posti di Governo, largo alle donne nell’Assemblea costituente, largo alle donne nelle Amministrazioni Comunali; giusta retribuzione del lavoro femminile; tutte le vie del lavoro e del sapere aperte alle giovani».
Al centro del suo interesse sono da sempre le lavoratrici e in loro nome, in un articolo intitolato “Nostro contributo alla rinascita nazionale”, uscito su “Noi donne” il 31 ottobre 1945, non esita a criticare apertamente il contratto firmato dalla CGIL con la Confindustria a danno delle operaie. Molto attenta alla questione del voto alle donne, nella sua “Relazione introduttiva” al I Congresso nazionale dell’UdI, che si tiene a Firenze dal 20 al 23 ottobre 1945, lancia sul tema una campagna di sensibilizzazione popolare. Il 30 gennaio però il governo anticipa la campagna, approvando la legge che riconosce alle donne il diritto di voto e frena l’azione della Montagnana, che intendeva utilizzarla quella battaglia per aprire un dibattito sulla condizione femminile nel Paese.
Nell’ottobre del 1947, è sostituita alla presidenza dell’Udi da Maria Maddalena Rossi, ma non rinuncia alla scelta del 1944 e sostiene la formazione di cellule esclusivamente femminili, anche quando al V Congresso dei Gruppi di difesa della donna, che si tiene dal 29 dicembre 1945 al 7 gennaio 1946, la maggior parte delle compagne si schiera contro l’organizzazione separata. Sulla condizione delle donne, d’altra parte, inevitabile è ben più duro si annuncia lo scontro con le donne democristiane. Quando nel 1945 la Montagnana scrive, infatti, un libro intitolato significativamente La famiglia, il divorzio, l’amore, e alcuni articoli usciti su “Noi donne” tra il 1945 e il 1946, la DC accusa i comunisti di voler «distruggere» la famiglia, e la Montagnana è costretta a spiegare che il PCI si propone anzitutto di dare ascolto alle esigenze della popolazione e delle famiglie, messe in crisi dalla guerra, negando che l’obiettivo sia il divorzio.
Nel 1946, candidata dal partito all’Assemblea Costituente, è eletta con migliaia di voti, ma non ha svolge nell’Assemblea un ruolo di primo piano. Il suo interesse più vivo era e rimane la condizione della donna lavoratrice, per cui tra il 1946 e il 1947 scrive per la rivista “Vie nuove”alcuni significativi articoli. 
Membro del Comitato Centrale del Pci dal 1948 al 1953 e senatrice per due legislature, la donna è così preoccupata per il settarismo che serpeggia nel partito, che nel 1951 scrive al partito parole sofferte e meditate: «L’Udi ha fatto una politica settaria e opportunista, in molte provincie […]. Si sono persi numerosi elementi dei gruppi di difesa, numerose compagne fra le migliori sono rientrate nella “routine” della vita familiare, hanno abbandonato o quasi l’attività sociale e politica. Non vi è stato reclutamento di forze fresche e giovani. L’attivo femminile, salvo rare eccezioni, […] era composto di donne dai capelli bianchi. Rare le giovani, quasi nessuna dai 25 ai 40 anni. […] Vi è stato anche da parte dei compagni dirigenti, salvo eccezioni, una enorme incomprensione verso il lavoro femminile. Si sono tagliate le ali, si sono demoralizzate, umiliate anche le compagne migliori, più qualificate, con un ottimo passato di partito». Ormai non riceve più l’ascolto di qualche anno prima. Si distingue nella battaglia contro la legge elettorale – la «legge truffa» – e nel 1954, nel ruolo di vice presidente della Federazione internazionale femminile, pubblica in un volume intitolato Un libro scritto da milioni di donne estratti dei discorsi che riguardano la lotta all’imperialismo e la difesa della pace, pronunciati dalle delegate ai Congressi mondiali delle donne a Parigi nel 1945 e a Copenaghen nel 1953.
Sono le sue ultime battaglie: Rita Montagnana è ormai una donna provata dalla vita e isolata nel partito. Nel 1950 il figlio Aldo si è ammalato gravemente. Gli anni vissuti nell’Istituto Ivanovo in Unione Sovietica, quando il padre e la madre sono partiti per la Spagna, gli hanno causato prima un forte trauma e poi una gravissima malattia nervosa. La madre, che nel 1948 ha scoperto di essere tradita da Togliatti che ha una relazione con Nilde Iotti, è costantemente accanto al figlio e, dopo averlo ricoverato prima in Ungheria e poi in Unione Sovietica, decide di tenerlo con sé, nella sua casa di Torino, ma il giovane peggiora progressivamente e dopo la morte della madre finirà in una clinica dalla quale uscirà morto nel 2011.
Al forte dolore, si somma la profonda amarezza della Montagnana: la vita privata, col marito che inizialmente non rende pubblica la rottura per timore della reazione della base del PCI, l’ha resa un ostacolo alla carriera di Togliatti e al Partito, che su certi temi vive di ipocrisia. Nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, quando la relazione con la Iotti diventa di pubblico dominio, la scelta è feroce: il Partito la emargina. Prima le toglie l’incarico di responsabile femminile regionale del Piemonte, poi nel 1953, la candida a Biella, in un collegio in cui la sconfitta è certa. A poco a poco, inevitabilmente, la Montagnana si dedica al figlio e sparisce dalla politica attiva del Paese. L’ultimo incarico ufficiale è quello di Delegata al XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, nel 1956. Da quel momento non ha più un incarico ufficiale. Muore a Torino il 17 luglio 1979.